(Adnkronos) - C'è un filo rosso, un legame tra il declino cognitivo autoriferito e alcuni biomarcatori ematici, che potrebbe aprire la strada a un semplice esame del sangue per diagnosticare la malattia di Alzheimer e le demenze correlate. A identificarlo un team di scienziati dell'University of California San Diego School of Medicine, autori di uno studio che si inserisce nel filone in pieno sviluppo di lavori finalizzati a rendere il più precoce possibile la diagnosi di questa patologia. I risultati di quest'ultima ricerca, condotta su adulti ispanici e latini, sono pubblicati sulla rivista 'Jama Network Open' e delineano un approccio che potrebbe essere "più rapido, meno invasivo e più conveniente" rispetto agli strumenti di screening esistenti, spiegano gli esperti. 

Con l'invecchiamento della popolazione e i numeri dei pazienti colpiti da Alzheimer in crescita, si tratta di un obiettivo su cui diversi gruppi stanno lavorando. "Abbiamo bisogno di metodi per identificare precocemente eventuali malattie neurodegenerative nei pazienti con sintomi cognitivi", sottolinea l'autore corrispondente dello studio Freddie Márquez, ricercatore post-dottorato del Dipartimento di Neuroscienze dell'ateneo californiano. Una promessa può essere rappresentata dai "biomarcatori basati sul sangue", che si profilano come "strumento più accessibile e scalabile per comprendere il declino cognitivo, in particolare nelle popolazioni che sono state scarsamente trattate con i metodi tradizionali", ragiona Márquez. 

Attualmente esiste un solo esame del sangue approvato dalla Food and Drug Administration (Fda) per aiutare a diagnosticare la malattia di Alzheimer. Sebbene questo test possa rilevare le proteine ​​nel sangue associate alla malattia che ruba i ricordi, è attualmente "molto costoso e disponibile solo in contesti di assistenza specialistica", illustrano gli esperti. Non è ancora chiaro se il sangue possa essere utilizzato in modo affidabile per la diagnosi precoce dell'Alzheimer su larga scala. Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno utilizzato i dati di uno studio clinico - 'Study of Latinos-Investigation of Neurocognitive Aging' - che ha valutato la neurocognizione in un sottogruppo di partecipanti al più ampio e completo studio a lungo termine sulla salute e le patologie di ispanici e latinoamericani negli Stati Uniti (l'Hispanic Community Health Study/Study of Latinos). 

"Si ritiene che gli adulti ispanici e latini registreranno il maggiore aumento della prevalenza della malattia nei prossimi decenni", evidenzia l'autore senior Hector M. González, professore del Dipartimento di Neuroscienze della UC San Diego School of Medicine. "Ciò nonostante, sono ancora significativamente sottorappresentati nella ricerca sull'Alzheimer e sulla demenza, un aspetto che il nostro studio si proponeva di affrontare". 

I ricercatori hanno analizzato il sangue di 5.712 adulti di questo gruppo, età tra 50 e 86 anni, alla ricerca di proteine ​​presenti nel cervello di persone affette da Alzheimer, come ​​beta-amiloide e tau. Hanno anche valutato il declino cognitivo soggettivo dei partecipanti, cioè il declino percepito dalla persona stessa. Mettendo insieme questi elementi, gli scienziati hanno scoperto che livelli ematici più elevati di NfL (marcatore di danno alle cellule nervose) e Gfap (marcatore di infiammazione cerebrale) sono associati a un maggiore declino - autoriferito - del pensiero, della pianificazione e delle prestazioni cognitive complessive. Livelli ematici più elevati di NfL e proteina tau (ptau-181) sono stati associati anche a un maggiore declino - autoriferito - della memoria. Mentre i livelli ematici della proteina beta-amiloide (Aβ42/40), una proteina notoriamente associata nel cervello al morbo di Alzheimer, non hanno mostrato associazione con il declino cognitivo soggettivo. Anche nelle persone cognitivamente sane sono rimaste valide le associazioni tra NfL e cali autoriferiti delle prestazioni cognitive, il che - valutano gli esperti - suggerisce che NfL potrebbe rilevare cambiamenti precoci nella cognizione.  

Oltre a fornire evidenze del fatto che i biomarcatori del sangue possono essere utilizzati per rilevare precocemente l'Alzheimer e le demenze, i ricercatori sottolineano anche che un punto di forza dello studio è la sua popolazione eterogenea. "Includendo partecipanti provenienti da comunità sottorappresentate, siamo in grado di comprendere meglio come i determinanti sociali della salute e le comorbilità possano influenzare i percorsi cognitivi e il rischio di demenza", aggiunge Márquez. "Questo rende i nostri risultati particolarmente rilevanti per i contesti del mondo reale". Saranno ora necessarie ulteriori ricerche - tengono a puntualizzare gli autori - prima che questo approccio trovi ampia diffusione nella pratica clinica e, anche quando ciò accadrà, il test sarà comunque uno degli strumenti nell'arsenale diagnostico del medico. "E' importante sottolineare che c'è ancora molto che non sappiamo sull'utilità dei biomarcatori ematici per la diagnosi dell'Alzheimer", conclude Márquez. "Questi test hanno un potenziale enorme, ma dovrebbero integrare gli approcci esistenti, non sostituirli". 

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