(Adnkronos) - Le professioniste del mondo della sanità e le difficoltà che ancora persistono nel conciliare il lavoro, la maternità e la famiglia. La Festa della mamma è l'occasione per raccontare due storie diverse, quella di una infermiera e l'altra di una dottoressa, unite dalla coraggio di non rinunciare ai propri sogni. Rosamaria Virgili oggi è direttrice didattica di un corso di laurea in Infermieristica, con 40 studenti da coordinare, dopo un percorso accademico completo a cui si aggiunge ora un dottorando, e a casa ha un figlio e un marito. "Alle ragazze dico che si può fare, la mia - esordisce - è un'esperienza positiva nel percorso di infermiera e di mamma, nonostante la genitorialità in salita visto che ho un figlio con disturbo dello spettro autistico. Ma ho avuto un marito e una famiglia che mi hanno sempre supportato nel raggiungere i miei risultati professionali. Ci sono state delle difficoltà, non lo nascondo, ma si possono superare".
"C'è una collega con cui ho condiviso tanti turni che è diventata mamma lo scorso anno e voleva lasciare il lavoro - racconta Virgili, direttrice didattica del Corso di laurea in Infermieristica dell'Università Tor Vergata di Roma, sede Idi-Irccs - Ci siamo confrontate su questo" perché "a me il lavoro ha 'salvato'. Credo nell'essere infermiere e nella professione che ha tanto da dire, soprattutto non dobbiamo ragionare per compartimenti stagni: fare la mamma-infermiere è un diritto e non dobbiamo rinunciarci".
La direttrice coordina 40 studenti in Infermieristica, oltre il 90% donne. "I miei studenti devo dire che vanno spronati, ma il cambio di passo vero si vede quando entrano in tirocinio - sottolinea - Ho anche una mamma-studentessa di 25 anni ed è una delle migliori, in regola con gli esami. Però già vedo che si preoccupa sul come potrà gestire gli orari del tirocinio con le esigenze di un figlio piccolo. La capisco perché io e mio marito abbiamo trovato una regolarità nella gestione familiare quando ho smesso di fare i turni - ricorda - e l'organizzazione della famiglia ne ha beneficiato. E' chiaro che senza l'aiuto di partner o dei genitori le difficoltà aumentano. I primi anni di vita di un bambino sono i più complicati, così vedo alcune colleghe che rientrano solo quando i figli hanno 3-4 anni e vanno al nido. La mia azienda, l'Idi-Irccs, quando ho avuto problematiche legate a mio figlio (per un periodo ha avuto disturbi del sonno), è stata comprensiva - rimarca Virgili - e il mio responsabile mi è venuto incontro permettendomi di uscire dai turni. Sono stata supportata".
La cosa più difficile quando si fa il medico e si hanno dei figli "è spiegare ai bambini la morte e le malattie inguaribili", ma anche cercare di "fargli capire che è un lavoro che ha delle imprevedibilità: sai quando inizi, ma non quando finisci. La prestazione sanitaria non è bella e impacchettata, ma dipende da come va una visita o un intervento. Un bambino piccolo non lo capisce e alla fine di una giornata chiede della mamma, vuole stare con lei. Così, se devi uscire spesso, ti domandano 'quando torni?'". Però i figli alla fine "semplicemente si adattano, sanno che in determinato momento non ci sei, ma poi torni e stai con loro. Quindi dopo 8-10 ore di lavoro torno a casa da loro perché hanno bisogno della mamma e non dei nonni o della baby sitter". A raccontarsi è Giulia Zonno, medico e componente del Gruppo di lavoro donne medico dell'Omceo Bari 'Agapanto', "il fiore simbolo di coesione sociale. Siamo nate - spiega - per condividere, supportarci e impegnarci nel sociale".
La situazione delle mamme-medico in ospedali o Asl "sta migliorando" e anche "gli uomini danno oggi uno stop al lavoro mettendo un punto da dove poi inizia la vita privata - dice Zonno, 2 figli, che condivide la professione con il marito - Si circoscrive di più il lavoro, se hai figli rinunci magari ad altre attività, i congressi, l'associazionismo, la didattica o l'attività professionale extra. Perché devi darti uno stop, il lavoro non può essere totalizzante. Però una mamma, rispetto ad una collega che non ha famiglia, parte svantaggiata: ad esempio, in una situazione come la specializzazione in Chirurgia i giovani stanno anche 2 giorni senza tornare a casa per i turni e le guardie, quindi se non hai famiglia resti al lavoro perché vuoi 'rubare' la professione e conoscenze al primario. Questo perché c'è la passione che monta, ma se hai qualcuno a casa che ti aspetta la scelta sarà diversa".
La maternità e la famiglia sono ancora un ostacolo per la donna nella sua carriera di medico? "Se si sa gestire una famiglia - risponde la dottoressa - si acquisiscono capacità organizzative e le si portano anche sul lavoro. Noi siamo medici dirigenti e dirigere una famiglia va in parallelo. Questo atteggiamento può dare una marcia in più, tuttavia il tuo impegno lavorativo deve essere conciliato con la famiglia. Serve mettere un freno alla passione, ma essendo un medico dirigente può capitare di andarmene e finire alcune cose sul computer a casa quando i bambini sono impegnati con altro. Se hai un ruolo di dirigente, che sia sul territorio o in ospedale - osserva Zonno - hai delle responsabilità, non timbri il cartellino e vai a casa. Se gestisci un servizio sanitario piccolo o grande, un reparto ospedaliero, un ambulatorio o un centro vaccinale, hai delle responsabilità precise".
Secondo i dati della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, tra i medici italiani con meno di 50 anni 6 su 10 sono donne. E tra i medici con età compresa tra i 40 e i 49 anni la proporzione sale al 64%: quasi 2 su 3. Per Zonno un nodo fondamentale tra le diverse tematiche che investono l'esercizio della professione medica al femminile "è che noi finiamo tardi il percorso di formazione, università e specializzazione, e prima di trovare un posto stabile che ti permetta di progettare una famiglia e un figlio passa qualche anno. Ed ecco che - rimarca Zonno - le mamme medico arrivano alla maternità più tardi rispetto ad altre categorie professionali. Questo è un problema forse anche più degli ostacoli nell'avanzamento della carriera".
Nella vita quotidiana, "come tanti altre mamme e papà che lavorano e fanno i turni, c'è un problema con i nidi. A Brescia, dove vivevo prima di trasferirmi a Bari - conclude il medico - c'era una classe di bambini 'turnisti' che potevano fare o mattina o pomeriggio. Questo agevolava i genitori e ci aiutava, era un asilo privato, ma convenzionato con l'Azienda ospedaliera di Brescia. A Bari non esistono queste realtà, ma si potrebbero organizzare"
(Adnkronos) - Da cervello in viaggio per il mondo a cervello di ritorno. Lorenzo Guglielmetti, 42 anni, direttore del progetto EndTb, con Medici senza Frontiere ha trascorso davvero tanto tempo con la valigia in mano. Il suo colpo di fulmine scientifico: lo studio della tubercolosi resistente ai farmaci. Un incontro nato "un po' per caso. Ma poi ci siamo trovati e non ci siamo più lasciati", sorride, raggiunto al telefono dall'Adnkronos Salute. E proprio uno studio sulla Tbc resistente alla rifampicina, pubblicato quest'anno sul 'New England Journal of Medicine' gli è valso un importante riconoscimento: è stato inserito nell'elenco delle 100 persone più influenti del settore salute secondo la rivista 'Time'. E ora si appresta a tornare in Italia, dove da giugno comincerà una nuova parentesi lavorativa, all'Irccs ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar.
"Le malattie infettive mi hanno sempre ispirato - spiega Guglielmetti - E' molto soddisfacente trattarle, perché si riesce a vedere un risultato, si riesce a curare. Di solito con i pazienti si ottiene un risultato in fretta". Ma non sempre è così. Alcune sfide sono più complicate di quel che si pensi. C'è poi l'aspetto umanitario: "Queste sono proprio le malattie delle disuguaglianze, delle fasce più marginali delle società, le grandi malattie neglette che hanno un impatto globale", osserva.
Sebbene sia personale, "il riconoscimento del Time è un riconoscimento al lavoro che è stato fatto in questo progetto nato quasi 15 anni fa, portato avanti con diversi partner da 3 Ong: Msf, Partners In Health (Pih), e Interactive Research and Development (Ird) - sottolinea - Un lavoro di ricerca ma anche molto di advocacy per cercare di migliorare il trattamento della tubercolosi resistente attraverso questi nuovi farmaci, creando nuove combinazioni di molecole in un ambito in cui c'è pochissimo interesse da parte delle case farmaceutiche e pochissimo finanziamento". L'obiettivo è dunque "riempire un vuoto".
Nello studio pubblicato su 'Nejm', spiega Guglielmetti, "abbiamo proprio identificato tre nuove associazioni di farmaci - combinazioni di 4 o 5 farmaci, alcuni nuovi, altri più vecchi - che con un trattamento di 9 mesi permettono di avere degli ottimi risultati nel trattare la tubercolosi resistente alla rifampicina" e quindi aiutare le 410.000 persone colpite ogni anno da questo ceppo. E' un trattamento "molto più corto" rispetto a quello storico di 18-24 mesi, "funziona almeno altrettanto bene, sono tutti farmaci orali, non ci sono iniezioni".
La tubercolosi non si guadagna quasi mai le prime pagine dei giornali, riflette il ricercatore, "si lotta per avere un po' di attenzione sul tema ed è assurdo se si pensa che, tra tutte le malattie infettive, la Tbc è l'agente che causa più morti ogni anno - 1,3 milioni di morti - e più di 10 milioni di casi. Un problema di sanità pubblica enorme, la pandemia più antica, e siamo lontanissimi dall'averla sconfitta. Penso dunque sia importante che si accendano i riflettori, specie in questa fase, con i tagli che sono stati fatti. Basti pensare che gli Stati Uniti hanno tagliato il 40% di tutti gli aiuti alla presa in carico della Tbc a livello mondiale". Gli impatti previsti "sono molto gravi: 30% di casi in più e più morti. Potenzialmente si ritorna indietro di decenni".
Guglielmetti, dopo la specialità in Malattie infettive all'università di Verona, si è messo in moto. "Adesso sono circa 11 anni che sono partito e sono andato a Parigi e da circa 10 anni lavoro con Msf. Sono partito in missione all'inizio, per uno o due anni, e ho lavorato sulla tubercolosi resistente come medico. Dal 2017 mi sono impegnato in questo progetto EndTb, che mi ha permesso di viaggiare nei 7 Paesi in cui abbiamo condotto questi studi, e adesso siamo alla fine, stiamo chiudendo dopo 8 anni".
Progetti per il futuro? Per Guglielmetti questo è un "momento di transizione". E' infatti in programma, come spiegato, "il ritorno in Italia. Riparto dall'ospedale di Negrar e continuerò a lavorare sulla Tbc, sempre inseguendo l'obiettivo di migliorare il trattamento".
(Adnkronos) - I reparti di Medicina interna dei nostri ospedali sono quelli che assistono quasi la metà dei ricoverati, in particolare anziani e cronici con comorbilità. Pazienti che necessitano di cure sempre più complesse, che richiederebbero adeguate dotazioni di letti e personale. "Ma oltre la metà delle medicine interne è attualmente in overbooking, mentre circa un terzo dei ricoveri potrebbe essere evitato con una migliore presa in carico dei servizi sanitari territoriali e se solo si facesse un po’ più di prevenzione. In più l’85,6% dei reparti denuncia carenze oramai croniche di personale". Sono alcuni dei dati che emergono dalla survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su 216 unità operative sparse in tutte le regioni italiane.
Nelle Medicine interne "si può dire che la sottoutilizzazione dei posti letto sia un fenomeno inesistente, visto che appena lo 0,46% delle unità operative ha un tasso di utilizzo inferiore al 50% e lo 0,93% tra il 51 e il 71%. Ma - sottolinea il report Fadoi - mentre il 40,28% dei reparti occupa tra il 70 e il 100% dei letti a disposizione, il 58,33% va appunto in 'overbooking', con oltre il 100% dei letti occupati. Ciò significa poi avere pazienti assistiti perfino su una lettiga in corridoio, con un solo separé a garantire la privacy. Ad acuire il tutto c’è poi la carenza di personale, riscontrata nell’85,65% dei casi".
Secondo la Fadoi: "Pochi letti, ancor meno personale, ma la situazione potrebbe essere un po’ più gestibile se si potessero evitare i ricoveri impropri, quelli frutto di una difficoltà di presa in carico dei servizi territoriali, basati su servizi di assistenza domiciliare, reparti di post acuzie e lungo degenza, ma in larga parte sulla rete dei medici di famiglia, anche loro sempre meno numerosi, con un numero elevato di pazienti da dover seguire e gravati sempre più da un enorme e spesso inutile carico burocratico".
"Mediamente un ricovero su quattro potrebbe essere evitato con una rete di assistenza territoriale più adeguata - prosegue la survey - Nel 32,87% dei reparti i letti che si sarebbero potuti liberare sono tra il 10 e il 20% del totale, nel 37% dei casi tra il 21 e il 30%, mentre nel 18,98% dei reparti si sarebbero potuti evitare tra il 31 e il 40% dei ricoveri con una migliore presa in carico del territorio. Percentuale che sale a oltre il 40% nel 6,02% delle unità operative, collocate soprattutto al Sud".
"Discorso analogo per la mancata prevenzione. Stili di vita scorretti, bassa aderenza agli screening, scarse coperture vaccinali, unite al più basso finanziamento pubblico d’Europa per la prevenzione, fatto è che a causa di tutto ciò almeno un quarto degli assistiti finisce in ospedale, quando avrebbe potuto evitarlo - rimarca la Fadoi - Nel 35,19% dei reparti tra l’11 e il 20% dei ricoveri sono dovuti alla poca prevenzione; percentuale che sale tra il 21 e il 30% nel 30% delle unità operative, mentre si sta tra il 31 e il 40% nel 19,44% dei casi e oltre il 40% nell’8,80% dei reparti".
La riforma della sanità territoriale. "Se su quel che precede e dovrebbe evitare molti ricoveri la nostra sanità ancora arranca, altrettanto non si può dire per chi viene dimesso. Qui la percentuale di chi va a casa ma con l’assistenza domiciliare integrata attivata è salita al 43,98%, mentre il 26,85% va in Rsa e il 21,30% in qualche struttura assistenziale intermedia. Solo il 7,87% si ritrova nel proprio letto ma senza servizi di presa in carico, né da parte del territorio, né dell’ospedale", osserva il report.
Cosa accadrà son le case e ospedali di comunità? "Quanto complessivamente la riforma della sanità territoriale, che stenta a decollare, possa migliorare le cose lo racconta la seconda parte dell’indagine, dalla quale emerge un mix di speranza e scetticismo rispetto all’operatività delle nuove strutture che dovranno aprire i battenti entro il giugno 2026 per non perdere i due miliardi del Pnrr stanziati proprio per questi servizi - avverte la Fadoi nel report - Fulcro della riforma dovrebbero essere le Case di Comunità, sorta di maxi-ambulatori dove dovrebbero lavorare in team medici di famiglia, specialisti ambulatoriali delle Asl e altri professionisti della salute. Strutture dove, oltre ad essere visitati, gli assistiti dovrebbero poter eseguire anche accertamenti diagnostici di primo livello, come Ecg o ecografie".
Per il 72,22% dei medici le nuove Case di Comunità potranno effettivamente ridurre il numero dei ricoveri, “ma bisognerà vedere come verranno realizzate”. Stessa risposta fornita dal 72,69% dei medici rispetto agli ospedali di comunità a gestione infermieristica, ai quali spetterebbe il compito di agevolare le dimissioni dai reparti, prendendo in carico quei pazienti che non hanno più bisogno dell’ospedale vero e proprio, ma che nemmeno sono nelle condizioni di tornare a casa. "Per il 20,37% degli interpellati, invece, nessun beneficio arriverà dalle Case di Comunità, così come non vede miglioramenti all’orizzonte derivanti dagli Ospedali di Comunità il 12,04% dei medici. Fermo restando che per il 32,87% tra l’11 e il 20% dei ricoveri potrebbe essere dimesso più rapidamente con queste nuove strutture intermedie ben funzionanti. Percentuale che sale tra il 21 e il 30% per il 33,33% degli interpellati, mentre per il 24,54% potrebbero lasciare più rapidamente il reparto oltre il 30% dei pazienti", conclude Fadoi.
Leggi tutto: Il report: "58% reparti Medicina interna in overbooking, ma 1 ricovero su 3 evitabile"
(Adnkronos) - Liberarsi dalla dipendenza dall'alcol con un'iniezione dimagrante. In uno studio presentato al Congresso europeo sull'obesità (Eco 2025), in programma dall'11 al 14 maggio a Malaga in Spagna, i pazienti che in una clinica di Dublino assumevano liraglutide o semaglutide per perdere peso hanno ridotto il consumo di alcolici di circa 2 terzi in 4 mesi. La ricerca aggiunge una tessera a un puzzle scientifico che sembra allargarsi sempre più: quello sui possibili benefici degli analoghi dell'ormone Glp-1 prodotto dall'intestino, medicinali antidiabetici a effetto dimagrante come l'Ozempic* a cui diversi volti noti hanno raccontato di aver fatto ricorso, da Oprah Winfrey a Elon Musk.
Il disturbo da consumo di alcol - ricordano gli autori del lavoro - è una condizione recidivante che causa 2,6 milioni di morti all'anno, pari al 4,7% di tutti i decessi a livello globale. Trattamenti come la terapia cognitivo-comportamentale (Tcc), terapie che mirano a rafforzare la motivazione a smettere o ridurre l'assunzione di alcol e i farmaci possono avere un grande successo a breve termine. Tuttavia, il 70% dei pazienti ha una ricaduta entro il primo anno. Gli analoghi Glp-1 hanno ridotto il consumo di alcol in studi sugli animali, ma soltanto ora stanno emergendo dati sul loro effetto in questo senso nell'uomo.
Carel le Roux dell'University College di Dublino, con colleghi in Irlanda e Arabia Saudita, ha raccolto dati prospettici sul consumo di alcol da parte di pazienti in cura per obesità in un centro della capitale irlandese. Lo studio in real-world ha coinvolto 262 adulti con un indice di massa corporea Bmi pari a 27 kg/metro cubo o superiore, per il 79% donne, di età media 46 anni e peso medio 98 kg, ai quali erano stati prescritti liraglutide o semaglutide per la perdita di peso. In base al consumo di alcol dichiarato prima di iniziare la terapia farmacologica dimagrante, i pazienti sono stati suddivisi in 3 gruppi: astemi (31, l'11,8%), bevitori occasionali (meno di 10 unità a settimana, 52 partecipanti ossia il 19,8%) e bevitori abituali (più di 10 unità/settimana, 179 pazienti, il 68,4%). Dei 262 adulti, 188 sono stati seguiti per un periodo medio di 4 mesi. I ricercatori hanno così osservato che nessuno di loro aveva aumentato il consumo di alcol. Anzi, il consumo medio è diminuito da 11,3 a 4,3 unità a settimana dopo 4 mesi di trattamento con gli analoghi del Glp-1: una riduzione di quasi 2 terzi".
In particolare, tra i bevitori abituali il consumo di alcol è diminuito da 23,2 a 7,8 unità a settimana. "Questa riduzione del 68% è paragonabile a quella ottenuta con il nalmefene, un farmaco utilizzato per il trattamento dei disturbi da consumo di alcol in Europa", osserva le Roux.
"L'esatto meccanismo con cui gli analoghi del Glp-1 riducono il consumo di alcol è ancora in fase di studio - spiega - ma si ritiene che abbia a che fare con un calo del desiderio di alcol, che si manifesta in aree sottocorticali del cervello non sotto controllo cosciente. Pertanto, i pazienti riferiscono che gli effetti" sulla diminuzione del consumo di alcolici "vengono ottenuti 'senza sforzo'".
Gli scienziati indicano alcuni limiti del loro studio (ad esempio il numero relativamente piccolo di pazienti, l'utilizzo di dati auto-riportati sul consumo di alcol e l'assenza di un gruppo di controllo), ma anche i punti forti: su tutti, l'analisi di dati raccolti prospetticamente in un contesto reale. Conclude le Roux: "E' stato dimostrato che gli analoghi del Glp-1 trattano l'obesità e riducono il rischio di molteplici complicanze correlate. Gli effetti benefici che vanno oltre l'obesità, come quelli sul consumo di alcol, sono in fase di studio, con alcuni risultati promettenti".
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