(Adnkronos) - L'avanzata dei 'robot chirurghi', le barriere abbattute dalla ricerca sugli xenotrapianti, la promessa delle cellule staminali. Nell'era delle nuove super cure anti-diabete, con i riflettori puntati sugli agonisti del recettore Glp-1, come si evolve il ruolo del trapianto nel trattamento della 'malattia del sangue dolce'? "Il messaggio più importante è che la ricerca va avanti", spiega all'Adnkronos Salute Ugo Boggi, pioniere del settore, professore di Chirurgia dell'Università di Pisa, che in questi giorni presiede insieme a Fabio Vistoli (Università dell'Aquila, a Pisa fino a 2 anni fa) e Lorenzo Piemonti (Irccs Ospedale San Raffaele di Milano) il XX Congresso mondiale dei trapianti di pancreas e di isole pancreatiche (Ipita 2025).  

L'evento di riferimento globale nel campo della trapiantologia applicata alla cura del diabete, organizzato sotto l'egida della International Pancreas and Islet Transplant Association, torna in Italia dopo 16 anni, proprio a Pisa. E l'esperto fa il punto sui traguardi già raggiunti e sul futuro che si apre. Uno scenario a cui si lavora, spiega per esempio, è quello di "riuscire dalle cellule staminali a riprogettare una cellula difficile come l'isola pancreatica, che è una piccola centrale endocrina molto complessa". A questo proposito, fra i lavori presentati e discussi al summit c'è quello di un team cinese che "è stato in grado di farlo per ora in 3 pazienti". Una strada che si apre, dunque, e che la ricerca continuerà a esplorare. Il sogno resta "eliminare il diabete, la guglia" di questi sforzi scientifici.  

"Lo sviluppo di terapie avanzate, su una malattia come il diabete che è una malattia 'sociale', procede - analizza Boggi - E c'è molta sinergia tra la terapia trapiantologica, che alcune volte vedeva il suo fallimento in alcuni meccanismi base della malattia, soprattutto nel diabete di tipo 2, e la cura medica. Grazie ai nuovi farmaci, gli agonisti del recettore del Glp-1, che hanno anche un forte effetto dimagrante nella maggior parte delle persone e sembra che possano avere anche effetti immunomodulanti, si è aperta anche qui una nuova era di ricerca. E si potrebbe riuscire a perfezionare il risultato fino ad ora buono, ma perfettibile, del trapianto grazie a questi farmaci". Potrebbe esserci un'alleanza? "E' già chiaro che c'è un'alleanza, ma potrebbe diventare più forte, non solo per evitare quelle alterazioni secondarie collegate a una certa forma di diabete, come pressione alta, dislipidemia. Sembra infatti che come effetto 'collaterale' i farmaci abbiano anche un'azione immunomodulante e antinfiammatoria che potrebbe andare a migliorare direttamente il risultato del trapianto in termini di riduzione di rigetto. 

"Se la maggioranza dei pazienti ottiene un risultato con le terapie convenzionali - cioè antidiabetici orali se parliamo del diabete tipo 2, o insulina - esiste una parte di persone che con la cura medica ha un risultato insufficiente sotto diversi punti di vista: in termini di qualità di vita, ma anche di prevenzione di danni e complicanze, perché come è noto il diabete ha un carico di patologie associate notevole", approfondisce Boggi. E qui entra in gioco il capitolo trapianti. Per quanto riguarda il trapianto delle isole pancreatiche, "negli anni ci sono stati tanti miglioramenti. Oggi la possibilità di non avere più il diabete facendo un trapianto di isole pancreatiche, che 30 anni fa era praticamente zero, comincia a mostrare percentuali più elevate, a due cifre. Oggi col trapianto di isole ad 1 anno si può raggiungere anche una quota pari all'80% di insulino-indipendenza. Il problema è che, dopo 5 anni, la proporzione scende drasticamente e ci si chiede perché decade così rapidamente la funzione delle isole".  

Gli obiettivi su questo fronte "sono molti - prosegue l'esperto - Osserviamo per esempio che, anche nella persona trapiantata che non è più insulino-indipendente, se le cellule continuano ad avere un certo grado di funzione, il trattamento del diabete migliora molto. E' insomma una buona strada terapeutica, molti passi in avanti sono stati fatti ed altri rimangono da fare. La ricerca si sta concentrando su tutti i mediatori dell'infiammazione". Come si inserisce su questo fronte la promessa delle staminali? All'evento in corso a Pisa, riferisce Boggi, vengono illustrati dal ricercatore Hongkui Deng "i primi 3 casi in cui si è stati in grado di prendere le cellule staminali della persona, riprogrammarle per diventare isole pancreatiche e indurre l'insulino-indipendenza. E' la strada che più affascina tutti, quella del trapianto di cellule, perché eviterebbe il trapianto del pancreas, ancora di più se abbinata alla possibilità addirittura di autogenerane di nuove, come mostra questo lavoro così di avanguardia, invece di dover prendere in prestito quelle di un altro, con il problema del rigetto". 

Dall'altro lato c'è il trapianto di pancreas: "Ha lo svantaggio di richiedere un intervento chirurgico - rimarca Boggi - ma il vantaggio di avere un tasso di successo pressoché totale: l'insulino-indipendenza ad 1 anno è al 95% e si mantiene molto alta negli anni". Anche su questo fronte c'è qualcosa di nuovo: "A dicembre dello scorso anno a Riad c'è stata una consensus conference mondiale sulla chirurgia mininvasiva dei trapianti". A parte il documento che dà i principi generali, ripercorre lo specialista, "per il pancreas ci sarà un report analitico, a cui io ho partecipato, che si prospetta positivo: suggerisce che tutti i trapianti di pancreas andrebbero fatti in maniera mininvasiva, e quello che sembra essere il principale svantaggio dell'intervento in questione ridurrebbe il suo peso grazie all'uso del robot. Il problema attuale è che questa tecnologia è costosa ed è distribuita in maniera selettiva. Per fare i trapianti dobbiamo potervi però accedere in qualsiasi momento ed è una sfida organizzativa: rendere economicamente sostenibile, specie in un sistema sanitario pubblico, la spesa (certamente superiore all'ordinario) di una tecnologia così importante. L'obiettivo sarebbe che fosse disponibile per tutti coloro che ne hanno bisogno. Oggi non è ancora così". (segue) 

Un altro filone che in questi anni si è guadagnato i riflettori internazionali è poi quello della ricerca sullo xenotrapianto. "Ora ci sono studi molto solidi, il pioniere principale su questo fronte è il chirurgo Robert Montgomery - ricorda Boggi - Gli esperti sono arrivati ad ottenere sopravvivenza e funzione del rene di maiale geneticamente modificato nell'uomo fino a quasi a 6 mesi. Questa finestra si potrebbe ampliare col tempo. Il percorso è avviato e possiamo cominciare a dire che siamo vicini almeno al superamento della barriera di specie". Si è lavorato sul rene, ma anche sul cuore. "Per il pancreas il percorso sarebbe più lungo - premette Boggi - però se la barriera cade questi meccanismi potrebbero magari tornare utili. Se il rene è l'organo più benigno da trapiantare e si presta bene a questa fase di sviluppo, il pancreas è un organo troppo delicato. Bisognerà metterci le mani quando le idee saranno più chiare".  

Intanto, però, "siamo passati dall'avere rigetti pressoché immediati - ricordo l'impresa del professore Paride Stefanini, autore nel '66 del secondo xenotrapianto al mondo - a questi risultati. Ora possiamo avere organi di maiale modificati geneticamente in modo da diventare compatibili con l'uomo. Superare la barriera di specie sarà veramente come il primo passo dell'uomo sulla Luna. Il passo successivo, che certo non è immediato, sarebbe proprio arrivare a 'costruire' gli organi sulle persone che hanno bisogno di un trapianto, usando probabilmente meccanismi di bioingegneria simili. Diventerebbe come cambiare la batteria alla macchina. E potrebbe avvenire anche usando due tecniche insieme, tenendo cioè l'organo dell'animale come uno 'scheletro' su cui ricostruire l'organo umano con le cellule". 

I nodi da affrontare sono tanti: c'è il tema dei "donatori deceduti che stanno diventando sempre più vecchi - evidenzia Boggi - In pratica, è come se si acquistasse una macchina usata che ha un milione di chilometri alle spalle. C'è dunque la necessità di pensare a sorgenti, se non alternative, quantomeno integrative, di organi. Non solo per ragioni quantitative, dunque, ma anche per questioni di 'qualità' degli organi. E' un problema di tutto il mondo, frutto anche dell'impatto del nostro maggior sviluppo socio-economico: se quando io ero giovane il donatore prototipale era il ragazzo caduto in motorino, oggi il donatore prototipale è il 'nonno'. E questo apre delle riflessioni su cui bisognerà lavorare", conclude l'esperto.  

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