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Carbonia. La guerra

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Scritto da Democrazia Oggi
Democrazia Oggi

Gianna Lai

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Consueto post domenicale sulle origini di Carbonia. Il primo è stato pubblicato il 1° settembre[1]. Oggi si parla della guerra.                                   -

Se Carbonia è nata per rispondere alle necessità del Paese in guerra, ora può svolgere pienamente il suo ruolo, già  rafforzate ‘le installazioni militari in Sardegna, 200 mila i soldati presenti, l’isola  dichiarata dal regime ’sentinella armata’, in prima linea per la sua posizione nel Tirreno’, come sottolinea  Girolamo Sotgiu. Un conflitto solo europeo che, nel giro di due anni, interessa il mondo intero: spinta dal successo tedesco, l’Italia entra in guerra il 10 giugno  del 1940, aderendo al Patto tripartito, Italia, Germania, Giappone, contro Inghilterra e Francia. E attaccando quest’ultima, già ormai del tutto stremata dall’invasione tedesca, per riportare  a casa,  fin da subito, i suoi primi  600 morti, essendone stata immediatamente respinta. Malamente armata,  e in ritardo rispetto allo sviluppo delle grandi potenze coinvolte, la stretta impressa alle miniere del Sulcis non avrebbe mai potuto, neppure lontanamente, alleviare i problemi energetici del Paese.  Perché in una  guerra globale così altamente tecnologica,  lo scontro in campo aperto e l’attacco già programmato, e determinante ai fini dell’esito del conflitto, contro le popolazioni civili nei  bombardamenti sulle città, abbisogna  di flotte aeree e marinare e carri armati e arsenali di guerra. Di un’industria pesante, cioé, la più grande  divoratrice di energia, che solo i paesi  ricchi possiedono con larghezza e disponibilità di mezzi finanziari e di tecnologia avanzata: il ‘nuovo ordine’ nazista, della supremazia tedesca in Europa, fondato su guerra, deportazioni e genocidi,  cui il regime di Mussolini fu determinante alleato, tutto travolgendo, anche le persone e le cose di cui abbiamo trattato  fino a questo momento. Dalla piazza Roma di Carbonia riecheggiano, attraverso la radio, i toni aggressivi e minacciosi di Mussolini e le  fatidiche parole, ’spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, perché un popolo di 45 milioni di anime  non può essere veramente libero se non ha l’accesso all’Oceano’, vedi A. Desideri, M.Themelly, Storia e storiografia, G. D’Anna, 2000, pag. 751, vol 3^. Una terribile pantomima i cui tragici effetti  a Carbonia, come nel resto del Paese, si sarebbero visti ben presto, quella propaganda, tuttavia, contribuì nel Sulcis a definire ancora meglio il carattere precario della  miniera e della città,  ora con produzioni più spinte, a richiamare di nuovo nuove maestranze,  gli emissari AcaI continuano nella penisola ad ingaggiare minatori per tutto il 1940 e oltre, ora con produzioni rallentate, che provocano licenziamenti di massa  e disoccupazione su tutto il territorio.
A Sant’Antioco i primi allarmi aerei erano iniziati fin dal 6 settembre, in concomitanza ai 18 denunciati a  Cagliari dal prefetto Leone, dopo 3 mesi dall’inizio della guerra: bombe a Machiareddu e ‘mine, che hanno arrestato il traffico marittimo, lanciate nel porto del capoluogo’, dove cominciano a venir meno  sapone, olio riso e patate,  mentre si annuncia ‘deficientissimo il raccolto del grano’. E ancora, ’scoramento ed angustia in provincia per effetto dell’annata agraria scadente e per i danni dell’alluvione’, il prefetto sollecita come immediatamente ‘necessario l’approvvigionamento da fuori, poiché le comunicazioni per Cagliari avvengono solo attraverso l’aereo civile giornaliero’, la linea Civitavecchia-Olbia operativa ’solo in ore e in giorni non fissati’. Si tratta infatti di una grave emergenza, essendo ‘i piroscafi fermati direttamente nei porti di partenza’, né avrebbero, le cinque linee di traffico navale Sardegna-Continente, più avuto corso regolare fino alla fine della guerra. Con la stessa informativa il prefetto Leone  annuncia che è stata ‘fermata l’attività costruttiva a Carbonia e ripresa solo dopo l’ottenimento di 190 tonnellate di carburante’,  mentre si rivela ancora più intensa l’attività aerea nel mese di novembre, ‘velivoli in  sorvolo a Sant’Antioco e  Carbonia, contro i quali è intervenuta la nostra contraerea….: zona che ritengo particolarmente esposta alle offese nemiche’, proprio durante la battaglia aereo-navale che imperversa su Teulada e che provoca due morti nella marina militare italiana. E tuttavia, se pur drammatica può apparire la situazione a noi poveri lettori della contemporaneità, ci conforta e ci rassicura, nel carteggio del prefetto col ministro dell’interno la reiterata chiusa finale ’sempre  altissimo si mantiene lo spirito pubblico nei confronti guerra’, in tutta la provincia  di Cagliari.
Nel 1940 la punta massima di 1.295.779 tonnellate di combustibile prodotte nel Sulcis, ma Carbonia copre solo il 7-8% del fabbisogno nazionale, mentre si aggrava il problema degli approvvigionamenti, essendo il traffico marittimo di combustibile della flotta permanente al servizio dei monopoli carboni, con le sue 130 navi, spesso dirottato o costretto a soste,  se non del tutto bloccato dagli attacchi inglesi. Ridotta inoltre l’importazione di carbone tedesco, sopratutto nei mesi invernali, quando l’impossibilità di navigazione sui fiumi ne imponeva il trasporto ferroviario,  quella destinata all’Italia scese da 12.529.000 a 10.793.000 tonnellate, tra il 1940 e il 1942 . E nel mentre la guerra avanza,  i sovietici vincitori in Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania,  la Germania in Danimarca e Norvegia, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Romania. Mentre l’Italia aggredisce in  ottobre  la Grecia, partendo dai confini dell’Albania, il ’secondo fronte’, per bilanciare la presenza  tedesca nei Balcani: come contro la Francia, altrettanto improvvida, sconsiderata, ‘gli alpini italiani calzati con scarpe dalle suole di cartone,  privi talvolta di indumenti invernali’, e particolarmente esposta all’offensiva nemica, sì da esserne  presto respinta e sconfitta. Sommate  ai rovesci militari in Africa, sconfitte  che ‘infersero gravi colpi al prestigio del regime’, solo l’intervento tedesco a porre fine ad ogni resistenza greca, mentre anche la Iugoslavia cadeva sotto i colpi del Reich nell’aprile del 1941, quando ‘l’Italia concorre  all’offensiva tedesca contro la Iugoslavia, partecipando alla spartizione dei territori di quel paese, con circa 300mila uomini’, come dice Eric Gobetti in ‘Alleati del nemico’, di recente pubblicazione.
Ormai fortemente contratte, fin dall’ottobre del 1941, le importazioni di combustibile dalla Germania, rispetto al periodo precedente, 1.041.000 oltre alle 9.500 della Croazia, l’ACaI, già militarizzate le maestranze,  passa  sotto il controllo del Commissariato, poi Sottosegretariato, generale per le fabbricazioni di guerra. Nel 1943, infine, al Ministero della produzione bellica,  nato per controllare la  distribuzione delle materie prime nazionali e di importazione,  rame, stagno, nickel e carbone, il cui il fabbisogno, dell’Italia in guerra, venne allora  ‘calcolato  in 16 milioni di tonnellate di combustibili fossili annue, per circa 11,5 milioni coperto, nel ‘41-’42, dalle importazioni dalla Germania’, dice Rosario Romeo, ‘mentre  l’estrazione di combustibili fossili italiani era salita  dai 2,3 milioni di tonnellate nel ‘38, ai 4,9 nel ‘42, ma anche adesso essi consistevano, per buona parte, di qualità inferiori e, in potere calorifero, equivalevano dunque a circa 2,5 milioni di tonnellate di carbone estero, sicché il fabbisogno previsto restò coperto anche allora solo per 14 milioni di tonnellate’, grazie, naturalmente, ai combustibili di importazione. Del tutto marginale il lancio di un ulteriore programma di ricerche per l’Azienda Carboni e l’ALI, Azienda Ligniti Italiane,  impegnata quest’ultima, dal gennaio del 1940, nella  produzione di ligniti toscane e antracite de La Thuile, così come marginale, la costruzione di un altro villaggio minerario in Istria e di uno a Tirana, in Albania .
Più critica  ancora, infine, la situazione sugli approvvigionamenti petroliferi: coperto solo per il 47% dagli olii combustibili italiani il fabbisogno di 8 milioni e mezzo di tonnellate annue, si sarebbe giunti, a causa del dimezzamento delle importazioni nel 1942, alla  semiparalisi delle industrie che ne lavoravano i derivati,  lasciando sguarnito un settore molto importante per la produzione bellica e sul quale il regime aveva, già da tempo, così tanto investito, come leggiamo ancora su Rosario Romeo.
E’ l’estremo sforzo produttivo  di un Paese impreparato militarmente, povero di materie prime e separato dal mercato mondiale, con un debito pubblico che ha raggiunto i 200 miliardi di lire nel 1940, dice Pietro Grifone, e che resiste solo grazie al sostegno della sua alleata Germania, alla quale è strettamente legato, ‘avendo, la politica autarchica italiana, incentivato l’indirizzo produttivistico tedesco, fino a rendere l’economia nazionale totalmente subordinata ad esso’, già a partire dal 1935, come sostengono anche Enzo Santarelli e, di nuovo,  Rosario Romeo.
Per quanto riguarda l’approvvigionamento di Sulcis destinato al Nord, contro le almeno 100mila tonnellate di naviglio mensili richieste dall’Azienda, i servizi di trasporto nazionali sono in grado di metterne a disposizione appena 35.000. Cosicché, se  fin dall’entrata in  guerra del Paese, solo 50 mila tonnellate  di combustibile fu possibile imbarcare ogni mese verso i porti liguri, sempre maggiori quantità di carbone avrebbero da quel momento  cominciato ad  ammassarsi presso le banchine del Porto di Sant’Antioco,  pericolosamente esposte ai ben noti processi di autocombustione, a causa della pressione stessa dei cumuli. Già  interrotto, con l’entrata in guerra, il completamento degli impianti nei pozzi e in miniera, venuto meno quindi  l’equilibrio tra lavori di preparazione  e di coltivazione, cioè di produzione di combustibile, cominciano a farsi più gravi le  difficoltà di  approvvigionamento dalla Penisola, a causa delle ‘incursioni aeree sul Tirreno’. Manca il legname  per armare le gallerie, tenendo conto, come dice l’Azienda,  che  per produrre 150mila tonnellate di carbone sono necessari 4.500 metri cubi di legno.  Inutile l’acquisizione di interi boschi della Sila, destinati alle miniere ACaI, durante tutto il corso del ‘41 ne arriverà solo un terzo della quantità necessaria,  ciò che non avrebbe comunque impedito un ulteriore avanzamento della produzione di Sulcis, sempre a ritmi più sostenuti, come si legge nelle Relazioni dell’Azienda al duce. Sospese le ricerche sul territorio nazionale e abbandonato l’impianto sperimentale di lavorazione del carbone Sulcis a Sant’Antioco fin dal 1941, in seguito al mal funzionamento delle sue parti meccaniche, per una  produzione registrata nel novembre dello stesso anno fino a 2.500 tonnellate di carbone cotto, 300 di catrami,15 di benzina, sempre più precarie divengono le  condizioni dell’Azienda che,  se al 30 giugno 1940 registrava utili per 11.679.000 di lire, a garanzia di un dividendo pari al 4%, nel ‘41 avrebbe dichiarato, poco dopo, un deficit di  34 milioni di lire ed aggravi del 57,13%,  a causa dell’aumento del costo di produzione, come denunciano le Relazioni dei presidenti ACaI, nei primi anni di guerra, al duce e al ministero delle corporazioni

References

  1. ^ 1° settembre (www.democraziaoggi.it)

Fonte: Democrazia Oggi

L’eredità eretica e innovativa di Bruno Trentin

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Andrea Ranieri - Il Manifesto

Questo ritratto di Bruno Trentin, già segretario della Cgil, è una parte dell’intervento che Andrea Ranieri ha tenuto nei giorni scorsi a Roma alla presentazione della rivista «Luoghi comuni», edita da Castelvecchi, che dedica il numero 3-4 al tema del lavoro.
Lo pubblichiamo volentieri per ricordare questo grande segretario generale della CGIL, che tanto si è battuto in difesa del lavoro e dei lavoratori.

 

Bruno Trentin

Nel 1957 Bruno Trentin scrisse a Palmiro Togliatti dopo che il segretario del Pci in un suo intervento al Comitato Centrale aveva detto che il sindacato non doveva pretendere di avere voce in capitolo sulle trasformazioni tecnologiche delle imprese, ma limitarsi alle politiche salariali, viste come l’unico modo a disposizione del sindacato per condizionarne le scelte delle imprese.

Trentin manifesta molto apertamente il suo dissenso. Sottrarre al padrone la possibilità di decidere unilateralmente sugli indirizzi, le modalità, i tempi di realizzazione dei cambiamenti tecnologici e organizzativi è fin da allora per lui il compito fondamentale del sindacato. Quello fondativo della sua autonomia. Perché quelle scelte decideranno delle condizioni di vita delle persone che lavorano, hanno a che fare con gli spazi di libertà che vanno conquistati e difesi anche all’interno della fabbrica capitalista.

Trentin è consapevole fin da allora di dover fare i conti con una tradizione di lungo periodo dei partiti della sinistra, sia rivoluzionari che socialdemocratici, che vedevano nel fordismo il modo più razionale di organizzare la produzione. Lenin stesso vedeva nel fordismo «la forma superiore di cooperazione capitalistica che ha raggruppato e disciplinato il proletariato sulla base del comune lavoro da svolgere». Fino a distinguere il lato sfruttatore del capitalismo da quello organizzatore.

IL TEMA DELL’ALIENAZIONE, dell’espropriazione dell’intelligenza, del corpo e della mente del lavoratore, nella fabbrica capitalistica, ben presente nell’elaborazione di Marx, veniva accantonato, e ci si concentrava esclusivamente sul plusvalore. In questa visione il ruolo del sindacato non poteva che essere solamente redistributivo e la liberazione del lavoro veniva rimandata ad un tempo indefinito, comunque successivo alla presa del potere statuale, per via democratica o per via rivoluzionaria.

ANCHE IL GRAMSCI di «americanismo e fordismo» non esce da questa tradizione. Trentin cercherà altrove i suoi riferimenti. Karl Korsch, l’austro marxismo, Otto Bauer, Karl Polany, e oltre il marxismo il personalismo cristiano francese e la straordinaria figura di Simone Weil che per capire e vivere il lavoro si fa operaia, e descriverà l’orrore della fabbrica fordista. E che vedrà nella mancanza di libertà e di diritti nella fabbrica l’incubatore dei totalitarismi del Novecento, da quello hitleriano a quello stalinista.
Il suo impegno per l’unità sindacale sarà basato proprio per questo su un confronto non solo di tattiche e di strategie ma di valori, a partire da quello fondamentale: come strappare nel presente, senza aspettare una sempre più improbabile transizione, il massimo di autonomia, di dignità e di libertà per la persona che lavora. Sapendo che nessuna tradizione ideologica ha le carte in regola per affrontare da sola questo nodo.

QUESTO LO PORTERÀ a un dialogo sempre più stretto con il mondo cattolico impegnato a portare nel sociale le idee e le pratiche della solidarietà. A partire dalla Comunità di Sant’Egidio, che aveva il suo centro in Santa Maria in Trastevere, dirimpettaia alla sua abitazione. Una voglia di incontro contraccambiata. Monsignor Zuppi allora parroco di Santa Maria fu protagonista di uno straordinario episodio. La cerimonia funebre per un non credente celebrata col Cardinal Silvestrini nella Chiesa di Santa Maria poco tempo dopo la morte di Bruno. Se al centro c’è la persona che lavora, la formazione, la crescita professionale e culturale dei lavoratori diventa un tema centrale. E centrale sarà per un periodo nella stessa azione contrattuale e nella pratica politica del sindacato, a partire dalla straordinaria conquista delle 150 ore per il diritto allo studio per tutti i lavoratori, a partire da quelli da questo punto di vista più svantaggiati, quelli cioè che erano entrati al lavoro senza avere conseguito l’obbligo scolastico.

La formazione per Trentin non è solo il modo, come nella formazione aziendale tradizionale, per adattarsi ai cambiamenti, al mutamento dei contenuti professionali, ma è lo strumento per diventare consapevoli dei contenuti del proprio lavoro, di dove è collocato nel ciclo produttivo, per rompere l’isolamento, per superare quella che per lui sarà sempre più la disuguaglianza fondamentale, quella fra chi sa e chi non sa.

LA FORMAZIONE è fondamentale anche nella fabbrica fordista più gerarchizzata, ma lo è ancora di più nell’economia e nella società della conoscenza, in cui il sapere diventa il fattore decisivo della produzione, l’arma fondamentale di competitività delle imprese e delle nazioni. L’importanza del sapere non attenua, ma sposta in avanti la necessità e i contenuti del conflitto. A partire dalla contraddizione fondamentale, Trentin la definirà una vera e propria schizofrenia, fra un sistema che chiede alle persone più creatività sul lavoro, ne aumenta la responsabilità personale, chiede la mobilitazione dell’intelligenza, e al tempo stesso accentua gli strumenti di controllo sul lavoro e sulla vita delle persone. Con ciò vanificando le stesse possibilità che le nuove tecnologie aprono ad un modo di produrre più cooperativo e più libero.

Per Trentin la formazione è il primo diritto del sindacato dei diritti, così lo definirà alla Conferenza di Chianciano (del 1989, ndr), il cui compito è assicurare pari dignità alle tante forme in cui il lavoro è stato frammentato. Comincia con lui un percorso che troverà un primo sbocco nella Carta dei diritti che la Cgil varerà molto tempo dopo, e che Landini consegnerà a papa Francesco per affermare il comune impegno nella difesa e nella promozione della dignità del lavoro, che è inscindibile dall’idea di ecologia integrale del Pontefice.

Ma i diritti del lavoro devono incontrarsi con i diritti nuovi che nascono nei luoghi della vita e con le culture nate fuori dalla storia del movimento operaio. Il femminismo, l’ambientalismo. Che sono essenziali a nutrire nei tempi nuovi il diritto delle persone a decidere del proprio destino. Le Camere del lavoro dovevano essere la sede di questa vasta alleanza.

IN UNA LETTERA a Berlinguer nel 1975, conservata nell’archivio storico della Cgil, con il compromesso storico in gestazione, dirà che qualsiasi strategia di governo è vuota e perdente se non accompagnata dalla costruzione di una rete di «potere democratico» nel tessuto sociale del Paese

Nel suo diario ancora inedito Trentin parla della crisi inesorabile della sinistra già nel 1996 non solo per il cedimento al neoliberismo dominante in salsa blairiana, ma soprattutto per aver messo la governabilità al di sopra di ogni altro contenuto. Il focus dell’azione politica, scrive Bruno, passa così dai governati ai governanti. La formazione decisiva per il partito è la formazione di una nuova classe di governo. Educare i giovani più brillanti all’esercizio del potere invece che a rappresentare i senza potere. Sta lì per Bruno la radice della stessa degenerazione morale. La politica, scrive nel diario, può essere scienza del governo o scienza della democrazia, di cui la funzione di governo è una parte. La sinistra decade quando assume il primo corno dell’alternativa come suo compito pressoché esclusivo. E sta al sindacato come soggetto politico tenere insieme l’intelligenza e la volontà di lotta dei governati.

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Fonte: Democrazia Oggi

Precari: la nuova classe esplosiva

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Gianfranco Sabattini

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Guy Standing, già docente di “Economic security” all’Università inglese di Bath e cofondatore del Basic Income Earth Network (BIEN), è autore di numerosi libri sul problema delle trasformazioni delle moderne società industriali causate dal processo di globalizzazione delle economie nazionali; il più noto di tali libri al pubblico italiano è quello dal titolo “Precari. La nuova classe esplosiva”.
Nel libro, Standing analizza i diversi aspetti della nuova classe sociale, considerandola costituita da soggetti caratterizzati, non solo dalla sofferenza derivante dall’incertezza del posto di lavoro, ma anche e soprattutto da quella connessa alla perdita della propria identità professionale; caratteri che, secondo alcuni, varrebbero a ridurre il precariato al sottoproletariato (Lumpenproletariat) di marxiana memoria, costituendo quindi, nelle moderne società industriali, la classe sociale economicamente e culturalmente più degradata, priva di coscienza politica e non organizzata sindacalmente.
Proprio per questo, Guy Standing fa appello alla classe politica perché provveda ad attuare riforme che vadano nella direzione del riconoscimento del diritto alla sicurezza economica e professionale dei componenti la classe del precariato, nella certezza che, in mancanza di riforme economico-sociali innovative su questi problemi, le società andrebbero incontro al rischio d’essere esposte a ondate di instabilità, con l’emergere di istanze populistiche dei partiti di estrema destra. Le riforme, secondo Standing, sono tanto più necessarie, se si pensa che i provvedimenti sinora assunti per fronteggiare il fenomeno del precariato sono risultati del tutto inadeguati, perché sempre fondati sul convincimento che la soluzione dovesse coincidere con la creazione di nuovi posti di lavoro.
Negli anni Settanta del secolo scorso – afferma Standing – “il pensiero e il linguaggio della politica sono stati pesantemente influenzati da un gruppo di economisti di forte ispirazione ideologica”. Secondo il loro modello neoliberista, crescita e sviluppo dovevano essere considerati dipendenti dal livello di concorrenza presente nel mercato; ogni sforzo, perciò, doveva essere mirato a rendere massima la competizione e la competitività, e ogni aspetto della vita economica e sociale doveva essere “pervaso dalla logica del mercato”.
Secondo il pensiero neoliberista, per rilanciare e sostenere la propria crescita, ogni Paese doveva elevare il livello della “flessibilità del mercato del lavoro”, trasferendo sulla forza lavoro tutto “il carico dei rischi e dell’instabilità del sistema economico. Il risultato è stato – sostiene Standing - la creazione di un “precariato globale”, i cui componenti sono stati privati di un “qualsiasi punto di riferimento stabile”, diventando una “nuova classe esplosiva”, pronta a dare ascolto a proposte politiche destabilizzanti e a indirizzare il proprio voto verso i partiti politici portatori di tali proposte. Il successo dell’”agenda neoliberista”, ha perciò favorito l’insorgere, all’interno delle società industriali ad economia di mercato, di “un autentico mostro politico”; per fermarne l’espansione, è opportuno elaborare un’adeguata strategia politico-istituzionale e prepararsi a un’azione di contrasto.
Per ragioni anagrafiche, gli economisti neoliberisti, osserva Standing, privi di ogni ricordo degli esiti della Grande Depressione del 1929-1932 e di quelli socialmente positivi originati dalle riforme sociali realizzate nel secondo dopoguerra, con la loro “pessima opinione” nei confronti del ruolo di regolatore dell’economia svolto dallo Stato, pensavano che l’attività economica dovesse essere concepita come un’azione inquadrata in “uno spazio sempre più aperto, dove investimenti, lavoro e reddito avrebbero così avuto agio di muoversi in cerca di condizioni sempre più convenienti”.
Il risultato dell’accoglimento del pensiero neoliberista è consistito nel fatto che, mentre apparivano plausibili alcuni aspetti della diagnosi neoliberista circa le cause dell’instabilità che caratterizzato le economie industriali nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, le proposte avanzate per il superamento dei motivi di crisi sono state invece controindicative sul piano economico e “brutali” sul piano sociale. Inoltre, secondo Standing, il risultato dell’attuazione delle proposte neoliberiste è stato peggiorato dal fatto che, i partiti socialdemocratici, ovvero i creatori del sistema di sicurezza economica che i neoliberisti criticavano, dopo aver opposto scarse obiezioni alle proposte che venivano avanzate, alla fine le hanno condivise passivamente.
Delle proposte neoliberiste, una particolare rilevanza ha assunto quella che suggeriva la necessità di fare ricorso alla flessibilità del mercato del lavoro, per garantire alle attività produttive la possibilità di variare i livelli salariali (in particolare verso il basso), diminuendo così la sicurezza economica del lavoratore; inoltre, l’accoglimento della flessibilità proposta dai neoliberisti ha consentito alle attività produttive di spostare liberamente al loro interno i lavoratori, modificandone inquadramento professionale. Il principio di flessibilità è stato inteso in termini tanto rigidi che ogni crisi del sistema economico, grande o piccola che fosse, “era attribuita, in parte, a torto o a ragione, a una mancanza di flessibilità e a una carenza di una ‘riforma strutturale’ del mercato del lavoro”. In Tal modo – nota Standing – è accaduto che, mentre la globalizzazione si allargava e si approfondiva e le attività produttive facevano largo ricorso a rapporti produttivi sempre più flessibili, è aumentato il numero dei lavoratori che si sono trovati ad occupare posti di lavoro che, oltre ad indebolire la loro sicurezza economica, ne hanno “cancellato” la loro identità professionale.
Le nuove politiche pubbliche ed imprenditoriali attuate sulla base delle proposte neoliberiste hanno così dato origine ad un trend generale dell’economia del tutto imprevisto, nel senso che migliaia di lavoratori in ogni società industriale sono entrati a fare parte del precariato, un fenomeno del tutto nuovo, privo di qualsiasi rapporto con la “classe operaia” o con il “proletariato” delle origini della società industriale, in quanto non costituente una “classe per sé” in senso marxiano, ma piuttosto solo una “classe in divenire”.
Quel che manca ai lavoratori precari, rispetto alla classe operaia del passato, oltre alla sicurezza economica, è infatti l’identità professionale; sia che siano trasferiti ad altre mansioni (se già occupati), oppure (se nuovi occupati) siano assegnati a svolgere ruoli lavorativi che non danno prospettiva di carriera, i lavoratori perdono o mancano di maturare una memoria condivisa che nega loro la consapevolezza di “appartenere a una comunità occupazionale inquadrata in pratiche consoliate, con codici e norme di comportamento e rapporti di reciprocità e fraternità”. I lavoratori precarizzati perciò mancano di sentirsi integrati in una collettività lavorativa solidale; fatto, questo, che vale ad accrescere il loro senso di alienazione e strumentalizzazione, perché l’assolvimento delle mansioni loro assegnate non condente di proiettarli verso un futuro nel quale essi possano credere di potere portare a termine un proprio progetto di vita.
La precarizzazione dei lavoratori è la conseguenza di un processo perverso, intrinseco al funzionamento del sistema economico fondato sulla flessibilizzazione del lavoro; una politica, questa, consistente per lo più nell’assegnare mansioni “i cui simboli di mobilità lavorativa e crescita personale - afferma Standing – devono mascherare la vacuità di un certo lavoro”. E’ questa la tesi sostenuta, con molta efficacia, anche da David Graeber, docente di Antropologia presso la London School of Economics, in “Debito. I primi 5.000 anni”.
Secondo Graeber, infatti, per contrastare la crisi del lavoro, le politiche pubbliche neoliberiste avrebbero provveduto a “gonfiare” settori totalmente nuovi, quali, ad esempio, quelli delle relazioni pubbliche e delle cosiddette attività ausiliarie dei settori produttivi. Queste ultime sono quelle che Graeber considera “lavori privi di scopo”, in quanto svolti come se una qualche “entità” esterna costringesse gli addetti a compierli solo per tenerli occupati.
La proliferazione degli impieghi privi di scopo, ha continuato ad espandersi nonostante che il fenomeno costituisse una vera e propria contraddizione dal punto di vista della logica capitalistica. Per la teoria economica, su cui tale logica è fondata, è impensabile – afferma Graeber – che un’attività produttiva debba “sborsare soldi a lavoratori di cui non ha affatto bisogno. Eppure, per qualche ragione succede proprio questo”. Così, negli ultimi decenni, è accaduto che il numero dei “passa carte” abbia contribuito ad allargare a dismisura le burocrazie di ogni tipo.
In realtà, dal punto di vista dell’ideologia neoliberista, la spiegazione esiste, ma non è di tipo economico, bensì di natura politica; gli establishment dominanti, formatisi sotto l’influenza dell’ideologia neoliberista, si sono resi conto che una disoccupazione crescente avrebbe costituito un “pericolo mortale” per la crescita dell’economia sorretta dalla flessibilizzazione del lavoro. Di conseguenza, per “sventare” il pericolo di una recessione di lungo periodo, gli establishment dominanti non hanno esitato a ribadire l’idea che il lavoro sia un valore etico in sé, e che nulla spetti a chi non è disposto a sottostare, per la maggior parte delle sue giornate, alla severa disciplina che comporta lo svolgimento di una qualsiasi mansione lavorativa.
E’ stata così valutata opportuna la scelta di creare posti di lavoro (anche se di dubbia utilità) che valessero a “controllare” la crescente disoccupazione causata dall’automazione dei processi produttivi; ciò è stato fatto indirizzando i soggetti disoccupati verso lavori che, indipendentemente dalla loro giustificazione economica, tenessero occupati i lavoratori anche in attività poco condivise. In tal modo, si è formata – sostiene Standing - una “nicchia sociale” nella quale si è accumulata una profonda violenza psicologica potenziale, espressa oltre che dai lavoratori perennemente disoccupati, anche da quelli impegnati in lavori privi di scopo, in quanto privati della loro dignità e di ogni legittimazione sociale; una situazione, questa, che, a parere di Standing, non può che rendere il precariato una categoria sociale “esplosiva”, la cui “rabbia”, dovuta al fatto d’aver perso ogni possibilità di controllare la propria vita, induce a presagire possibili e gravi ripercussioni sul piano della stabilità economica e sociale.
Come uscire – si chiede Standing – da questa situazione? Egli ritiene che, per evitare le possibili ripercussioni economiche e sociali negative dovute ad una continua espansione del precariato, occorra garantire a chi perde la stabilità del posto di lavoro un “sistema di solidarietà sociale rinnovato”, idoneo a fornire ai lavoratori disoccupati involontariamente o destinati a svolgere un lavoro non gradito “una forma di autonomia sostenibile, al di là, sia del modello di sicurezza sociale tradizionale sia del paternalismo di Stato”; ciò perché le vecchie politiche socialdemocratiche hanno perso efficacia nel contrastare le crescenti disuguaglianze distributive affermatesi dopo l’avvento dell’ideologia neoliberista. Per le politiche socialdemocratiche, la ridistribuzione del prodotto sociale era realizzata attraverso la leva fiscale e l’offerta di servizi e beni pubblici.
Nelle attuali società industriali, le politiche ridistributiva, non potendo più essere effettuate attraverso la leva fiscale e la spesa pubblica, devono poter garantire a tutti, precari inclusi, una forma di sicurezza economica sostenibile, attuando proposte da anni avanzate, ma sinora oggetto solo di lunghe discussioni. Tra tali proposte, ve ne è una formulata da economisti autorevoli con una lunga storia alle spalle e conosciuta sotto molti nomi, il più noto dei quali è quello di “reddito di cittadinanza universale e incondizionato”.
I vantaggi di questa forma di reddito consisterebbero, non solo nel garantire a tutti una forma di autonomia economica sostenibile, ma soprattutto nell’assicurare a ciascun cittadino la capacità di vivere al di fuori del mercato, senza la pressione di dover accettare forme di occupazione indesiderate, per evitare di conservarsi in uno stato di perenne povertà.
Con un precariato che costituisce la nuova classe sociale creata dalla logica di funzionamento delle moderne società industriali, se le politiche pubbliche risditributive non sapranno correggere gli esiti negativi della dinamica propria di tali società, il pericolo è – conclude Standing - che tale classe sociale “sia del tutto incline ad ascoltare le sirene più attraenti e nel contempo più pericolose”. Perciò, prima gli establishment dominanti si convinceranno che le crescenti disparità distributive sono controindicative sul piano della stabilità economica e su quello della stabilità sociale, meglio sarà per tutti; non solo per i precari, ma anche (e forse soprattutto) per chi sinora ha tratto vantaggio dall’applicazione incondizionata, in assenza di correttivi, del principio della flessibilizzazione dei livelli occupazionali.

Fonte: Democrazia Oggi

La prescrizione non elimina le lungaggini processuali

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Democrazia Oggi

Andrea Pubusa

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Con questa storia della lungaggine dei processi gli oppositori della novella sulla prescrizione mi ricordano quel negoziante di fronte a casa che una volta mi disse che aveva cambiato la macchina perché aveva bucato. A lui risposi che in quel caso io al massimo cambio la gomma e spesso neanche quella perché la faccio aggiustare.
Che c’entra la prescrizine con la lunghezza dei processi? Nulla. La prescrizione è connessa all’inerzia (si badi: inerzia) nell’esercizio di un diritto o di un potere protratta nel tempo. Ma se un cittadino ha un giudizio in corso vuol dire che lo Stato non è inerte, vuol dire che sta esercitado la sua funzione. Quindi non può esserci prescrizione. E’ poi veramente stravagante far correre la prescrizione quando gli ulteriori gradi del giudizio nascono da impugnazioni dell’imputato condannato. Qui è proprio il condannato che fa si che il processo duri di più, con gli ulteriori gradi di giudizio. A voler essere coerenti in questo caso si dovcrebbe ammettere (con Davigo) che per limitare il moltiplicarsi dei processi l’impugnazione del condannato, se seguita da apppello incidemtale del PM, possa portare anche ad un aggravamento della pena. Sarebbe un bel disincentivo per condannati con la coscienza sporca. Se invece ad agire è il PM contro la sentenza di assoluzione torniamo al punto precedente. Non c’è inerzia, quindi non può correre il termine di prescrizione.
A me pare dunque che la disciplina attuale potrebbe avere un correttivo solo (come pià volte ho detto) nel lasciar correre la prescrizione per i reati lievi,per i quali l’interesse alla condanna è socialmente lieve. Non per quelli che più colpiscono la coscienza sociale.
Un altro modo per limitare le lungaggini sarebbe che il GIP facesse davvero da filtro. Nella  mia esperienza solo una volta ho evitato il rinvio a giudizio, ma solo perché nel giorno in cui sarebbe stato commesso il reato (delibera di Giunta) l’assessore da me difeso stava non a Selargius, ma a Bologna. Di là dal mare. Se fosse stato? poniamo, a P. Torres, lo avrebbero rinviato a giudizio! Se non hai una prova così schiacciante, vai sempre a finire a dibattimento.
Ma si chiederà: come mai in alltri paesi non è come da noi. Il contenzioso è scarso e le decisioni più celeri. So di dire una cosa che non dice quasi nessuno. Perché in altri paesi (penso alla Germania, l’Austria, la Frania) hanno buone amministrazioni. Se voi ci pensate gran parte del contenzioso anche non amministrativo nasce dal fatto che l’amministrazione non è presente e puntuale, non interviene. Pensate a tante controversie in campo edilizio, o anche in materia di confini o fra vicini. Se voi vi recate in caserma vi rispondono che se non c’è una sentenza loro, i carabinieri, non muovono un dito. Ci son state donne ammazzate per l’inerzia dell’Arma: mancava il provvedimento del giudice. E i  funzionari? Dicono d’essere terrorizzati dalla Corte dei conti, e per questo, nei casi appena appena complicati, non decidono se non dopo la pubblicazione di una sentenza.
Aumentare gli organici della magistratura è essenziale, lo è attrezzare gli uffici giudiziari, ma senza che ognuno prenda a fare il proprio dovere il contenzioso non diminuirà.
La prescrizione con tutto questo non c’entra nulla, non c’azzecca.

Fonte: Democrazia Oggi

Tre considerazioni sulla prescrizione

Dettagli
Scritto da Democrazia Oggi
Democrazia Oggi

Carlo Dore jr.

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L’entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia di prescrizione del reato contenute nella L. n. 3 del 2019 (mediaticamente nota come “spazza-corrotti”) ha innescato un acceso dibattito che coinvolge operatori del diritto e forze politiche di maggioranza e opposizione, dibattito alimentato dalle considerazioni critiche di quanti ravvisano nell’inoperatività della prescrizione dopo la sentenza di primo grado un vulnus atto ad alterare irreversibilmente gli equilibri del processo penale. Un dibattito, quello sulle norme di nuova introduzione, condito da accenti polemici spesso generati da mere esigenze di parte, che impediscono di ravvisare i punti di forza e le altrettanto evidenti criticità cristallizabili in tre semplici considerazioni, ispirate dalla lettura delle disposizioni in analisi.
La prima: contrariamente a quanto affermato da alcuni commentatori, la prescrizione non rappresenta un istituto a tutela dell’imputato innocente, ma una vicenda estintiva del reato il cui intervento impedisce al giudice di pronunciare nel merito del fatto. Consegue a quanto appena affermato che l’imputato consapevole della propria innocenza ha interesse non a consegnare il processo all’oblio del non doversi procedere, ma ad ottenere una sentenza che, prendendo posizione sul fatto, ne disponga l’assoluzione: un interesse, per certi versi antitetico a quello che la prescrizione tende a realizzare.
La seconda: concepita come un principio di civiltà giuridica volto ad impedire che un soggetto venga chiamato a rispondere per un fatto di reato molto tempo dopo la sua consumazione, la prescrizione si è rivelata, anche a causa della farraginosità della macchina processuale, un “buco nero” capace di inghiottire processi già decisi in primo grado e talvolta anche in grado di appello, vanificando la relativa attività istruttoria e dibattimentale anche quando essa ha portato (come nella celebre vicenda del Senatore Andreotti) all’accertamento della responsabilità dell’imputato nell’ambito del giudizio di merito. Alla norma che impedisce l’intervento della prescrizione dopo il giudizio di primo grado può essere ricollegata un’innegabile funzione deflativa rispetto alle appena richiamate farraginosità della macchina processuale, orientando verso i riti alternativi quegli imputati che, non potendo più contare sul “fattore tempo” per difendersi “dal” processo, perdono interesse ad affrontare la fase dibattimentale.
La terza: “l’ergastolo processuale” – nei termini (prospettati dagli oppositori della riforma) della possibilità per il cittadino di essere perseguito per un fatto verificatosi decenni prima, o di trovarsi sistematicamente invischiato in un processo infinito – di fatto non esiste, giacché le norme di nuova approvazione non permettono né la perseguibilità di un fatto lontano nel tempo, né precludono l’intervento della prescrizione nel corso del giudizio di primo grado. Ravvisandosi gli elementi costitutivi della prescrizione nel decorrere del tempo e nel corrispondente affievolirsi della pretesa punitiva da parte dello Stato, la nuova disposizione mantiene una sua intrinseca con i principi – cardine dell’istituto quando si ragiona in termini di sentenza di condanna: in queste ipotesi, lo Stato ha provveduto entro i termini previsti dalla legge ad accertare la responsabilità dell’imputato; e se l’imputato sceglie di accedere agli ulteriori gradi di giudizio impugnando la sentenza, logica vuole che egli non possa avvalersi della prescrizione per difendersi da un processo che lui stesso ha deciso di tenere in vita.
Poco conferenti, in questo senso, risultano i richiami alla presunzione di innocenza prevista dall’art. 27 della Carta Fondamentale, dato che l’inoperatività della prescrizione nei gradi di giudizio successivi al primo non determinano in alcun modo una anticipazione degli effetti che la condanna è destinata a produrre col passaggio della sentenza in giudicato.
Venendo alle criticità, il discorso sviluppato in base all’ultima delle riflessioni proposte muta radicalmente nel momento in cui la sentenza di primo grado si traduce in una pronuncia di assoluzione, e il processo prosegue in ragione dell’impugnazione proposta dal PM: nel qual caso, una modifica della norma che rende inoperante la prescrizione sembrerebbe quantomai auspicabile, giacché evidenti ragioni di giustizia sostanziale suggeriscono di non tenere l’imputato vincolato senza limiti di tempo ad un processo relativo a fatti rispetto a cui è stato dichiarato estraneo, e destinato a proseguire per volontà del pubblico accusatore.
Infine, sembrano cogliere nel segno quegli orientamenti che palesano la necessità di collocare l’intervento sulla prescrizione nell’ambito di una più ampia riforma dell’intero sistema orientata ad assicurare l’attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo: una riforma imperniata sulla depenalizzazione dei minori che conducono i Tribunali al collasso e su una altrettanto incisiva revisione degli organici, da attuarsi attraverso l’assunzione di nuovi magistrati e di nuovo personale a supporto. Le nuove norme in tema di prescrizione risultano infatti l’ennesimo prodotto generato dalla tendenza del legislatore a rifuggire le riforme di ampio respiro per concentrarsi su misure isolate e a costo zero, destinate a risultare difficilmente compatibili col sistema nel quale vengono calate, e ad esporsi di conseguenza alla sopra descritta sequenza di accenti polemici ispirati da mere esigenze di parte, che ne rendono difficilmente percepibili criticità e punti di forza.

(articolo pubblicato snche su www.articolo1mdp.it )

Fonte: Democrazia Oggi

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