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Gianna Lai
Continua la storia di Carbonia iniziata su questo blog il 1° settembre[2].
‘Molti operai si rifiutano di rendere come prima, dicendo che
l’esaurimento fisico non permette loro di lavorare per 8 ore con
martelli e picconi, che richiedono una costante forza muscolare.
Anche le donne brontolano perché non sanno come sfamare i figli’,
cita G.Giacomo Ortu da un documento della polizia politica del
1942. Se anche la malaria continua a imperversare, per il venir
meno delle opere di bonifica, è la scarsezza di cibo, un
razionamento drastico, a causare tanto ‘disimpegno’: ‘è necessario
migliorare l’alimentazione poiché nei mesi di luglio e di agosto
nel Sulcis si è sofferta la fame’, comunica il presidente ACaI nel
Promemoria del settembre ‘42 al duce,’ pur rimanendo inalterato il
ritmo di produzione grazie allo spirito di sacrificio e di
dedizione (sic!) dei minatori’.
Siamo alla fine del ‘42, sempre più difficile la vita in città: e
già più allarmanti, nei primi mesi del ‘43 le relazioni del
presidente Todini della Cooperativa di consumo SMCS, sulla
situazione alimentare, essendo giunte ai panifici solo la metà
delle scorte di grano assegnate alla città, sì da imporre
l’abolizione di tutti i supplementi e la riduzione delle razioni a
150 grammi giornalieri, come nel resto d’Italia, 300 per i
minatori. I quali ricevevano all’ingresso della miniera 100 grammi
di formaggio salato e altri 100 grammi di pane, poiché il
razionamento alimentare fissava a meno di un migliaio di calorie la
razione individuale giornaliera, facendo eccezione solo per gli
addetti ai lavori pesanti. Venuta quasi del tutto meno
l’agricoltura in zona, ferme definitivamente le navi noleggiate
dall’ACaI, prosegue il blocco dei trasporti nel Tirreno ad impedire
il rifornimento dei generi di prima necessità nel Sulcis. E intanto
i servizi di polizia annonaria non sono più in grado di
assicurare la distribuzione delle poche risorse rimaste, gli operai
in miniera privi addirittura di calzature e di vestiario appena
decenti. Il latte arriva dagli allevatori, che stanno a oltre 200
km. di distanza dalla città, essendo ben poca cosa la
produzione dell’Azienda agraria dell’ACaI, come sottolinea
sempre il presidente Todini della Cooperativa di consumo SMCS,
nella sua Relazione del 1943. Mentre il mancato
approvvigionamento, può mettere in pericolo l’ordine pubblico,
‘forte malumore tra le maestranze, aggravato dal panico per
le incursioni aeree e i continui allarmi quotidiani’.
Probabilmente non gradito per la franchezza degli interventi sulla
città e sui suoi abitanti, viene rimosso dalla carica, proprio
durante quei mesi, il podestà Pitzurra e sostituito con Vitale
Piga, podestà camicia nera, fascista della prim’ora, di
incondizionata fedeltà al regime: da lui e dal Prefetto di
Cagliari Leone, nel dicembre del 1942, l’auspicio di un magnifico
futuro per la città, nonostante la condizione terribile in cui
versano i lavoratori, ‘Carbonia innalza il suo gagliardetto e la
sua anima verso di voi, o Duce, che con profetica visone e ferma
decisione ne avete decretato la nascita e guidato il rapido
imponente sviluppo. Carbonia fascistissima con i suoi 45 mila
abitanti, presidiata dal cuore dei suoi 13 mila minatori, terrà
duro e marcerà fino ed oltre la vittoria’. Tale, a quel tempo, la
crescita degli abitanti prevista in città dai dirigenti
locali, in risposta al regime che continuava a imporre e a
ordinare, nel breve tempo, un aumento massiccio della
produzione di Sulcis.
A darci un quadro reale dello stato delle cose, le parole di
SergioTurone, ‘il grave disagio avvertito per il razionamento, il
lievitare continuo dei prezzi e, più in generale, il malcontento
per una guerra già all’inzio non sentita e che si protraeva assai
oltre le previsioni dell’ottimismo ufficiale, finirono per
provocare le prime smagliature nell’ordine repressivo in cui
il paese giaceva da quasi due decenni’. E nel febbraio del 1943 la
catastrofica sconfitta tedesca a Stalingrado e la disastrosa fine
dell’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia, ad accentuare ‘il distacco
dell’opinione pubblica dal regime fascista’, mentre il
conflitto, dopo l’intervento dell’esercito americano, volge a
favore degli alleati anche in Africa. Così gli scioperi del marzo
1943, le motivazioni salariali e politiche, contro
l’allungamento della giornata lavorativa a dodici ore, contro la
fame e contro il terrore, sono il segnale di una nuova raggiunta
‘unità dei lavoratori tipica dell’azione generale condotta
dai Comitati di Liberazione Nazionale’, il segnale del ‘naufragio
del regime, del vantato sistema corporativo su cui esso aveva
preteso di fondare la struttura sociale paese’. Perché le
restrizioni della guerra non avevano fatto altro che ‘mettere a
nudo le conseguenze catastrofiche politiche, economiche e
sindacali del regime, fondato su due cardini, sviluppo delle
industrie private e contenimento della domanda interna, attraverso
lo stretto controllo delle retribuzioni’. Senza impedire tuttavia
che il deficit dello Stato raggiungesse gli
84,785 milioni di lire negli anni 1942-43, fino a portare ‘la
pressione a limiti intollerabili’.
E a Carbonia? Già agli inizi della guerra ‘anche a Carbonia sono
incominciati segni di lagnanze specie nella numerosa classe
impiegatizia. A ciò sembrano aver contribuito alcune azioni di
rappresaglia adottate dai dirigenti di quel Fascio
(somministrazione di olio di ricino), contro alcuni operai’. Così
Ignazio Delogu, che riporta le fonti documentarie della polizia
politica in città, nel corso del 1940: ancora quelli, diciamo così,
tradizionali, i metodi autoritari e violenti del regime,
mentre si fa via via più capillare la vigilanza e più
oppressiva, di fronte alla insofferenza operaia, ad impedire ogni
possibile forma di protesta in miniera e in città. Vi svolge un
ruolo fondamentale il sindacato fascista, mai dalla parte
degli operai, mai impegnato a difenderli seriamente di fronte
all’azienda, ad alleviarne le sofferenze, a garantirne servizi alle
famiglie. Il responsabile Tito Morosini, pur richiedendo nei
suoi Rapporti, condizioni di vita meno indecenti per i
lavoratori, è vera espressione del potere politico, espressione di
una ideologia del ’sindacato misto’, come lo intendevano i fascisti
che, nell’interesse della comunità, avrebbe dovuto conciliare gli
interessi, invece del tutto opposti, degli imprenditori e delle
maestranze. E garante di una struttura, ‘già alla fine degli anni
venti priva di ogni autonomia decisionale ed ormai sotto il rigido
controllo di prefetti, questori e podestà’, che avevano il compito
di ‘far dipendere direttamente dallo Stato le organizzazioni di
massa’, come dice Vittorio Foa, in ‘Sindacati e lotte
sociali’. Impossibile la protesta in quel tempo, se non nei
luoghi dove esistono organizzazioni clandestine politiche e
sindacali di opposizione, dice ancora Vittorio Foa,
riferendosi, in generale, alle condizioni delle fabbriche italiane
del Nord, durante i mesi degli scioperi nel triangolo industriale.
Impossibile a Carbonia, come invece taluni hanno scritto,
attribuendone la paternità al sindacalista del fascio Morosini, che
avrebbe organizzato la protesta il 2 maggio del 1942: proprio nella
settimana che precede l’arrivo di Mussolini a Carbonia e in
Sardegna, una protesta, o sciopero che sia, organizzata dal
responsabile dei sindacati fascisti! Ma, innanziutto, esclusa
categoricamente dagli operai intervistati, che già lavoravano
in miniera durante il fascismo, e poi, senza soluzione di
continuità, nel dopoguerra, quando sì, proprio allora,
avrebbero cominciato a svilupparsi le prime forme di protesta
organizzata. Essi dichiarano: ‘eravamo dipendenti di una fabbrica
militarizzata e negli anni della guerra, quando la città soffriva
per la scarsità delle razioni alimentari, era lesa maestà persino
lamentarsi di avere fame, finivi dritto dritto alla VII^
Delegazione che, proprio per questo, aveva sede in miniera. Il
controllo rigidissimo, dal momento in cui si consegnava all’ufficio
del medagliere la medaglia col nostro numero di matricola, aveva
termine solo alla fine del turno. Ed inoltre, noi operai, eravamo
in contatto solo con i componenti la squadra che, per il continuo
via vai delle maestranze in città, cambiavano molto spesso. Nessuna
possibilità di protesta o di organizzazione di alcun genere,
se si eccettua qualche ‘reclamo’ o contestazione contro le
decurtazioni salariali. Anche se il trattamento riservato
alle maestranze in miniera, conseguenza della politica
fascista e della guerra, causava fiera avversione, in
particolare contro la dirigenza, i capi servizio e i sorveglianti’.
E’ la testimonianza di un gruppo di lavoratori già in miniera
durante la guerra e tra i più impegnati nelle lotte operaie
del dopoguerra, anni cinquanta e sessanta: dirigenti sindacali e
rappresentanti di commissioni interne, e poi dirigenti dei
pensionati CGIL, presso la Camera del lavoro cittadina. Giorgio
Figus di Nuxis, dal 1937 operaio nella escavazione dei pozzi di
Serbariu e poi minatore a Nuraxeddu, Vittorio Lai, dal 1 febbraio
del 1938 a Carbonia, operaio nella miniera di Nuraxeddu, Giuseppe
Atzori, operaio presso l’officina di Serbariu nell’ottobre del
1942, Vincenzo Cutaia, minatore, prima ad Iglesias, dal 1944 a
Carbonia, e Vincenzo Pirastru, uno dei fondatori del Partito
comunista in città. Della stessa opinione Pietro Cocco,
sindaco comunista di Carbonia per lungo tempo, in un’intervista
rilasciata a Sandro Ruju, ‘il sindacato fascista a Carbonia non
aveva avuto neppure il tempo di attecchire, e nel 1943 si sciolse
di colpo senza lasciare alcuna traccia. Nel 1942 c’era stata sì una
protesta, guidata da un sindacalista fascista, un certo
Morosini, ma non fu un vero sciopero e neppure una grossa cosa,
anche perché allora le miniere erano militarizzate e quindi vigeva
una disciplina di ferro’. E c’era poi, ben poco da fidarsi
dei sindacati fascisti, così prosegue l’intervista di Sandro Ruju,
gli operai più consapevoli, quelli che venivano dalla miniera di
Bacu Abis e di Gonnesa, li conoscevano bene, avendoli visti
all’opera come gestori della miniera, in occasione del suo
fallimento nel 1934, e sapevano, gli stessi operai, ‘in che modo
erano state risarcite le giornate di lavoro non pagate, vale a dire
con piatti, pentole e altri avanzi degli spacci di quella gestione
sindacale’, conclude Pietro Cocco.Testimoninze suffragate dai
documenti prefettizi, ‘a Carbonia e a Montevecchio, assegnati degli
operai precettati civilmente, che non hanno accettato di
entrare in miniera: sono stati immeditamente denunciati al
Tribunale militare’;
con i carabinieri sempre alle costole, i lavoratori della
provincia, ‘le molto compiacenti casse malattie hanno creato nella
classe operaia una mentalità oziosa. Bisogna imporre a tutti la
mobilitazione civile’. E così tutta la documentazione del Prefetto
di Cagliari al Ministro dell’interno, molto precisa sulle
condizioni dell’ordine pubblico e della repressione delle ‘attività
sovversive’, che niente dice, nella Relazione del giugno 1942,
dedicata al mese di maggio, sul preteso sciopero di Carbonia,
semmai tutta dedicata al ‘Radioso maggio per la visita del
duce’. A dar credito a tali annedoti su scioperi o manifestazioni
di dissenso, sembrerebbe quasi non volersi
riconoscere quanto i minatori fossero privi di alcuna difesa da
parte dei sindacati e delle altre istituzioni, preposte
esclusivamente a funzioni di controllo rigido e iniquo. Perciò
bisognerà attendere gli ultimi mesi del 1943, i primi del ‘44,
per assistere alla vera protesta in miniera, segnata dalla
nascita di un nuovo e consapevole movimento operaio
organizzato, nei luoghi di lavoro e in città.
References
- ^ (www.museodelcarbone.it)
- ^ 1° settembre (www.democraziaoggi.it)
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Andrea Pubusa
Evviva! Arriva la riduzione dei tempi del processo penale.
La durata? Non può superare i 4-5 anni, con una stretta alle
indagini preliminari. E non si scherza! Sanzioni ai magistrati che
non li rispettano, per i quali è prevista la segnalazione da parte
del dirigente degli uffici ai titolari dell’azione disciplinare. E
la previsione di investimenti per assunzioni di magistrati e
personale amministrativo. E’ quanto prevede il disegno di legge
delega sul processo penale, approvato dal Consiglio dei ministri.
Nel testo è stato trascritto anche il Lodo Conte bis, con le
modifiche alla riforma della prescrizione. Ormai lo sanno tutti:
prevede lo stop della prescrizione solo dopo la sentenza di primo
grado di condanna e una ‘prescrizione lunga’ per gli assolti. Ma se
il condannato viene assolto in secondo grado potrà ‘recuperare’ la
prescrizione bloccata. Un meccanismo barocco, ma che crea parità di
trattamento fra gli imputati.
Ma vediamo più in dettaglio cosa prevede la riforma sul processo
penale. La durata delle indagini preliminari varia a seconda dei
reati, e va da sei a 18 mesi. Se entro tre mesi dalla scadenza dei
tempi il pm non notifica l’avviso di conclusione delle indagini o
non chiede l’archiviazione deve depositare gli atti e avvisare
l’indagato e la difesa, che possono prenderne visione e averne
copia. Il mancato rispetto di questo obbligo, se dovuto a
negligenza inescusabile, costituisce un illecito disciplinare.
Saranno i procuratori a stabilire quali notizie di reato hanno la
precedenza in base a criteri stabiliti nei progetti organizzativi
dell’ufficio. Un inizio di superamento del principio costituzionale
dell’obbligatorietà dell’azione penale? Dopo la prima udienza il
giudice, se non si esaurisce il dibattimento, deve comunicare alle
parti il calendario delle udienze.
Per il resto si prevede una durata di 4-5 anni per i tre gradi di
giudizio, ma nessun limite per i reati di mafia e terrorismo e per
quelli più gravi di corruzione. C’è però flessibilità: il Consiglio
superiore della magistratura può modificare la previsione dei tempi
secondo le situazioni degli uffici, con cadenza biennale e sentito
il ministro della Giustizia. Più buonista la parte relativa alle
sanzioni per i magistrati. I tempi previsti sono un anno per il
primo grado, due per il secondo, uno per la Cassazione, quindi 4
anni, per i processi davanti al giudice monocratico, due anni per
il primo grado, due per il secondo e uno per la Cassazione, in
tutto 5 anni, per i processi davanti al giudice collegiale. Il
“dirigente dell’ufficio” è tenuto a “vigilare sul rispetto delle
previsioni e segnalare all’organo titolare dell’azione disciplinare
la mancata adozione delle misure organizzative quando imputabile a
negligenza”.
Nuove regole in vista anche per i riti alternativi e sono fissati
paletti per la possibilità di ricorrere in appello. Il deposito
degli atti in tutti i processi può essere fatto per via telematica.
Sulla digitalizzazione c’è l’impegno di investimenti così come
sull’assunzione di magistrati e personale
amministrativo.
La favoletta
Questa la disciplina proposta. Bene, male? Non voglio scoraggiarvi.
Ora, se avete pazienza, vi narro una favoletta, ma avverto: ogni
riferimento a fatti e a persone reali è puramente casuale.
Una volta, tanto, tanto tempo fa, quando ero ragazzo, facevo
qualche processo penale. E’ una procedura divertente perché il
fatto non è filtrato da atti o documenti come nel civile o
nell’amministrativo. C’è il contatto vivo con le persone, sempre
diverse, e coi fatti, spesso straordinariamente originali.
Bene, anche in quei tempi lontani c’erano giudici lenti e giudici
veloci, oltre, naturalmente, quelli mediani. I pestapiano erano
quelli “tormentati” dal giudizio, erano scrupolosi, zelanti, non
volevano assolvere un colpevole e ancor meno condannare un
innocente. Interrogavano lungamente i testi e scendevano nei minimi
particolari. Devo dire che ho sempre apprezzato questi magistrati,
i quali tuttavia spesso rimanevano indietro nel definire i processi
e talora avevano un bel po’ di arretrato. Una rottura anche per i
difensori, costretti a udienze lunghe, faticose e più numerose.
I giudici veloci, invece, erano in regola con tutte le statistiche,
però ho imparato col tempo che avevano un vizietto: condannavano
sbrigativamente. La ratio? Il condannato non colpevole - pensavano
- impugnerà e sarà il giudice d’appello a fare giustizia. Tuttavia,
ahinoi!, spesso anche in secondo grado il giudice seguiva la stessa
tecnica, sulla base del ragionamento inverso: la causa l’ha vista
il giudice di primo grado, quindi perché perder tempo prezioso a
riesaminare il caso? Risultato? Conferma della sentenza di primo
grado.
E’ facile per il difensore esperto riconoscere questa tecnica,
perché la sentenza d’appello non contiene elementi nuovi rispetto a
quella di primo grado, non entra nel merito dei motivi
d’impugnazione, è un semplice “copia e incolla” di quella con
semplici varianti lessicali. La motivazione è apparente.
In questo caso al malcapitato non resta che sperare nella
Cassazione: ci sarà pure un giudice a Roma! E se il giudice
estensore della Suprema Corte fa come i due precedenti? Pensa: c’è
una doppia condanna, quindi un doppio esame dei giudici di merito
con condanna, e, quindi, perché riesaminare il caso? Abbiamo
un’ennesima conferma; si ha il paradosso di tre gradi del giudizio
senza un vero processo, in frode alla legge e alla Carta. A me è
successo di vedere anche questo, benché - devo ammettere - in
Cassazione spesso ho avuto soddisfazione, quasi sempre ho trovato
magistrati scrupolosi.
Morale della favola: bene tempi contingetati per i processi, ma col
personale necessario alla bisogna, se no gli antigiustizialisti,
senza se e senza ma, armano la mano dei peggiori giustizialisti.
Sapete chi sono? Sono i giudici che decidono sbrigativamente, senza
un accurato esame delle carte e dei fatti. E, ancora, sapete quali
processi sono più economici e veloci? Quelli che riguardano i
poveracci, tanto nessuno ci fa caso. Per lor signori invece un po’
di tempo in più si può spendere… La legge è uguale per tutti?
Che Iddio ve la mandi buona, se mai capitate sul banco degli
imputati!
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Tonino Dessì
La notizia della messa in liquidazione di Air Italy, comunicata
senza preavviso, a decisione pare irrevocabilmente presa di comune
accordo fra i due soci, AkFed (proprietà Aga Khan) e Qatar Airways
(di proprietà maggioritaria di un fondo sovrano qatariota), fa
venire al pettine molti nodi, storici, economici, politici.
Nonostante lo smarcamento parziale delle responsabilità, con i
qatarioti che hanno attribuito al partner l’indisponibilità ad
accedere a una loro proposta di ricapitalizzazione, nulla può al
momento rassicurare circa la possibilità/probabilità che si tratti
solo dell’inizio di una vicenda più complessa, direi anzi di
due.
Per prima accenno brevemente a quella di origine più risalente nel
tempo.
L’epopea turistico-immobiliare-economica nata con la Costa Smeralda
è entrata in agonia nella seconda metà degli anni ‘80. L’ultimo
tentativo di salvarne le sorti a spese del territorio sardo
naufragò col “Master Plan” sugli scogli della legislazione
urbanistico-paesaggistica regionale del periodo 1989-1992, ma la
verità era che ormai quel modello non aveva più forza propulsiva
sul mercato mondiale.
Ormai quel che resta anche del soggetto imprenditoriale sono le sue
residue necessità gestionali di natura meramente finanziaria,
condizionate da esclusive logiche di contenimento delle
perdite.
Quella storia è chiusa.
Più impattante ora si presenta la seconda vicenda.
Le voci di un incarico di vendita sul mercato finanziario da parte
qatariota anche del “bonus” acquisito con l’autorizzazione a
realizzare e a gestire la struttura sanitaria “Mater Olbia” hanno
ripreso a circolare, ad onta della recente smentita degli
interessati.
Balza agli occhi che, al di là della veridicità delle voci, il solo
fatto che emerga una diffusa preoccupazione in tal senso
rappresenta plasticamente le possibili conseguenze della sequela di
errori commessi dalla gestione politica sarda -prevalentemente per
responsabilità della Giunta Soru nel 2008 e della Giunta Pigliaru
nel 2017- prima nel capovolgere una linea del centrosinistra
storicamente contraria alla realizzazione nel Nord-Est della
Sardegna di un grande polo privato convenzionato con la sanità
pubblica e con conseguenti oneri a carico della finanza regionale,
che dal 2006 copre le spese del SSN in Sardegna, poi non solo nel
consegnare a un soggetto investitore di proprietà di uno Stato
estero non UE quella struttura, ma anche nel propiziare la
concessione a suo favore da parte del Comune di Olbia di vantaggi
urbanistici ed edilizi, il tutto (fu dichiarato ufficialmente) in
cambio della promessa di investimenti economici, primo, ma non
ultimo fra questi, l’intervento nel trasporto aereo.
Tre carte di importanza vitale e di dimensione regionale date in
mano a una sola parte contraente: una cosa non propriamente da
manuale economico nè da accorta preveggenza politica.
La politica sarda (ma con la piena connivenza di tutte le parti
politico-istituzionali italiane e persino di quelle vaticane
coinvolte nella gestione del fallimento del San Raffaele di don
Verzè, originariamente proponente l’iniziativa sanitaria privata in
territorio olbiese) ha contribuito alla creazione di una bolla
speculativa dalle potenzialità esplosive, delle quali quella di
queste ore è solo una delle manifestazioni.
Piomba, la questione Air Italy, in uno dei momenti più acuti di
crisi della condizione dei collegamenti fra Sardegna e
continente.
Nei giorni scorsi abbiamo assistito alla sconsolante figura delle
autorità regionali ridotte al rango di interlocutori appena
informali (lasciati in solitaria dalle autorità governative
italiane) delle autorità europee, su una questione in cui la sede
UE è quella decisiva, a determinate condizioni.
Una delle condizioni è il rispetto politico-istituzionale che si
incute.
Non posso non rievocare Mario Melis, il quale esigeva di esser
trattato fuori dalla Sardegna, in ogni sede, se non come un Capo di
Stato, certamente secondo il rango che gli spettava come una delle
alte autorità della Repubblica.
Di questa immagine nel tempo abbiamo beneficiato tutti, persino il
sottoscritto quando trattò, andando a Bruxelles ed essendo ricevuto
dignitosamente come “Ministre Règional”, nel 2005, la spinosa
questione dei rimborsi per il fermo-pesca e della riforma degli
aiuti economici regionali al comparto.
L’altra condizione è un’adeguata, precedente preparazione
concordata dei dossier, che richiede idee chiare, proposte
fattibili, rivendicazioni giuridicamente fondate, consenso massimo
di base da parte di tutte le forze politiche sarde e in determinati
casi un’intesa di fondo a livello nazionale col Governo.
Non per la prima volta, ma con evidenza assoluta proprio in queste
settimane, è emerso che l’attuale contesto politico sardo non versa
in nessuna di quelle condizioni.
Intanto la Sardegna precipita nel materiale isolamento dal
continente italiano, col quale giocoforza ha necessità di esser
regolarmente collegata la generalità dei sardi.
La discussione, c’è da temerlo (ma non si può nemmeno evitarlo) si
concentrerà per un verso sui riflessi occupazionali del default
societario di Air Italy, per un altro verso sul destino incrociato
fra la crisi di questo vettore e le convulsioni agoniche di
Alitalia, gestore tuttora in proroga delle insufficienti tratte di
continuità territoriale per due sole destinazioni (Roma e Milano)
aggiudicate nella XIV legislatura regionale.
Voleranno indubitabilmente schermaglie su nazionalizzazioni o su
ipotesi di compagnie aeree regionali. Non mancheranno
recriminazioni (giuste, lo dico per non averne personalmente
risparmiate a suo tempo in varie sedi) sulla imprudente convinzione
sposata da ambienti accademico-politici -in vesti anche congiunte-
che libero mercato ed esercizio d’impresa low cost nel settore
aereo avrebbero risolto spontaneamente gran parte del problema.
Ma su due punti fondamentali il vero timore è che la discussione
resti superficiale, se non evasiva.
Il primo è sulla sussistenza del diritto della Sardegna a un
collegamento aereo universale e regolare col territorio
peninsulare.
Può sembrare scontato, ma nei fatti si sta rivelando il
contrario.
Il secondo è se vi siano basi giuridiche per affermare che Stato
Italiano e UE siano obbligati entrambi a garantire fattivamente il
perseguimento di questo obiettivo, anche ricorrendo l’uno e, se non
direttamente concorrendo, l’altro quantomeno autorizzando il primo
a farlo, a strumenti pubblicistici e a risorse finanziarie
pubbliche finalizzati a promuovere e a regolare l’iniziativa
economica per assicurare l’esercizio effettivo di tale diritto.
Ho scritto tante volte da temere -visto il silenzio- di sembrare
ossessivo, che secondo me indubitabilmente esistono basi giuridiche
di natura costituzionale: sono nell’articolo 13 dello Statuto
speciale.
Ma anche questa premessa da sola mi rendo conto che non sarebbe
sufficiente.
Perché soprattutto fuori Sardegna e più a livello italiano che
europeo immagino un altro fronte.
Ben sappiamo che un’esigenza finanziaria di coesione e di
solidarietà nazionale come quella che si prospetta (e che trova
fondamento proprio nell’articolo 13 dello Statuto) non solo non è
nelle corde del maggior partito di opposizione “nazionale” (La Lega
salviniana, della quale tuttavia è ampia emanazione il Governo
della Regione), ma da tempo non scalda i cuori nemmeno del
centrosinistra italiano. Sul M5S gravano relativamente a tutte le
grandi questioni le nebbie politiche e culturali più profonde.
In Sardegna poi siamo come siamo: l’insularità anima perdite di
tempo come la campagna per il suo improbabile e inane reinserimento
in Costituzione, mentre dei temi economico-finanziari si è
appropriata da mesi una articolata lobby metaniera.
Non siamo nelle condizioni generali per evocare, come pure sarebbe
necessario, un fronte di liberazione democratico tale da spazzar
via l’inconcludente impalcatura politica di ogni osservanza
continentale, mentre fuori da quella c’è tuttavia poco di
particolarmente affidabile.
Ma se non si affrontano i nodi di cui ho sinteticamente ancora una
volta scritto, soluzioni credibili non ce ne saranno.
Per questo, pur consapevole delle scarse possibilità di
condivisione laddove occorrerebbe, lascio andare questo ennesimo
“messaggio in bottiglia”.
Chissà mai.
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LAVORO E DIRITTI
a cura di www.rassegna.it
La settima arte, per guardare in faccia le ombre del presente. Non solo Parasite di Bong Joon-ho, il miglior documentario è American Factory di Steven Bognar e Julia Reichert: la storia della General Motors in Ohio, che viene acquistata dai cinesi con una riduzione di stipendi e diritti.
di Emanuele Di Nicola
Non solo Parasite. Dopo la notte degli Oscar, che ha visto la
vittoria del film coreano di Bong Joon-ho, già primo al botteghino
italiano, a mente fredda si può analizzare l’elenco di tutti i
vincitori. Scoprendo una peculiarità: c’è anche una fabbrica che ha
vinto l’Oscar. È quella al centro di American Factory, premiato
come miglior documentario. Il film diretto da Steven Bognar e Julia
Reichert è il primo titolo della Higher Ground Productions, la casa
di produzione di Michelle e Barack Obama. In Italia è disponibile
su Netflix, con il titolo Made in Usa - Una fabbrica in Ohio,
traduzione più generica che azzera un’importante sfumatura
dell’originale.
l film racconta la storia dello stabilimento della General Motors
di Moraine (Dayton, Ohio): una fabbrica storica e radicata sul
territorio, che sotto i colpi della crisi economica inizia una
parabola discendente. A fronte del calo degli ordini e delle
entrate, che determinano l’impossibilità di mantenere i livelli
occupazionali, nel 2016 la proprietà dichiara fallimento. Sembra la
dinamica classica di una chiusura aziendale, con circa duemila
operai che perdono il posto, quando accade qualcosa: il gruppo
cinese Fuyao guidato dal presidente Cao Dewang decide di acquistare
lo stabilimento. La fabbrica riparte con il nome di Fuyao Glass
America e produce vetro per automobili: i lavoratori americani
vengono riassunti, per lavorare nello stabilimento insieme ai
colleghi cinesi.
È qui che si forma gradualmente la sostanza del documentario. I
registi Bognar e Reichert entrano nella fabbrica, dialogano con le
persone, le interpellano e lasciano parlare, realizzano
un’inchiesta. Ciò che emerge è subito spiazzante: la Fuyao Glass
America ha riassunto gli americani con stipendi minori, più ore di
lavoro e meno diritti. Mettendoli fianco a fianco con i colleghi
cinesi – seppure spesso operino in segmenti distinti – ha
effettuato consapevolmente una riduzione al ribasso delle tutele,
con l’obiettivo di aumentare la competitività e il guadagno
dell’azienda. E con un alibi di ferro: gli americani, anche
psicologicamente, si mostrano refrattari a ribellarsi perché gli
orientali sono abituati a “lavorare tanto”, non si fermano certo
alle otto ore stabilite dalla maggioranza del mondo occidentale.
Ecco dunque un operaio cinese che afferma candidamente: “Avete otto
giorni di pausa al mese, lavorate solo otto ore al giorno, fate una
vita comoda”. Ma ecco anche il rovescio della medaglia: un
americano e un cinese diventano amici per la pelle, instaurano un
rapporto tenero e si chiamano fratelli. Al contrario del capitale
nell’uomo c’è anche un’ipotesi di integrazione e contatto con
l’altro.
Nel frattempo con l’arrivo di Fuyao l’erosione dei diritti
acquisiti si applica a tutto: alla sicurezza, perché vediamo
lavoratori muoversi tra frammenti di vetro senza guanti. Al
sindacato, perché il presidente Cao non ne vuole sentir parlare:
“Avrebbe effetti gravi sulla produzione. Se qui dentro entra un
sindacato io chiudo”. Inevitabile allora che, nel referendum sulla
presenza in azienda dell’Uaw (United Automobile Workers), lo
storico sindacato dell’auto americano, il no vinca nettamente.
D’altronde il ricatto è evidente: accettare condizioni peggiori o
ritrovarsi senza lavoro. Gli americani non hanno scelta. Qui sta la
sfumatura perduta del titolo originale, Una fabbrica americana. Ma
la Fuyao Glass America è ancora americana? Sì e no. Da una parte si
trova sul territorio statunitense, quindi dovrebbe rispondere alle
regole di quel Paese, dall’altra la “cinesizzazione” ha imposto il
passo del gambero sulla dignità del lavoro.
American Factory ha iniziato la sua corsa al Sundance Film
Festival, la mecca del cinema indipendente, poi il film è
cresciuto, si è diffuso fino ad arrivare sul palco dell’Academy.
Nel suo discorso di ringraziamento Julia Reichert con la statuetta
in mano ha detto: “Chi lavora ha sempre più difficoltà nei nostri
tempi, pensiamo che le cose andranno meglio quando i lavoratori di
tutto il mondo si uniranno”. Tanto che il New York Post ha fatto il
titolo Karl Marx gets shoutout. Da parte sua, Obama ha rivolto i
complimenti ai registi con un tweet. In realtà American Factory non
porta una ricetta. Alla domanda “dove sta andando il lavoro?”
risponde con un problema aperto, con la complessità di una
questione. Vediamolo tutti, dopo questo Oscar, chi si occupa di
lavoro e chi di cinema: entriamo nella fabbrica di Dayton per
metterci in dubbio, ripensare chi sono i lavoratori oggi e guardare
in faccia le ombre del presente.
- Dettagli
- Scritto da Democrazia Oggi
Gianfranco Sabattini
Cesaratto, “rimproverato” di esprimere una critica eterodossa
alle politiche economiche adottate dall’Europa negli anni
successivi alla Grande Depressione del 2007-2008, al termine delle
“sei lezioni” non manca, tuttavia, di indicare la possibilità di
uscire dalla crisi (che coinvolge ormai tutti i Paesi della UM) con
politiche correttive degli squilibri che da sempre hanno
caratterizzato le relazioni economiche e finanziarie tra i partner
europei.
Lo scopo del libro di Cesaratto è quello di dotare il lettore degli
strumenti necessari per capire le cause della crisi e considerare
criticamente le misure di politica economica volte a rimuoverle. E’
interessante seguire da dove parte la critica eterodossa
dell’autore ai limiti del pensiero economico dominante, nella cura
degli esiti negativi connessi agli eventi successivi alla crisi del
2007-2008; eventi, questi, che – a parere di Cesaratto – hanno
stimolato le persone a “capire le ragioni economiche della crisi e
delle politiche adottate”, in un momento un cui si assisteva alla
riscoperta dell’importanza del pensiero di John Maynard Keynes.
L’impegno a migliorare, dal punto di vista economico, la
comprensione di quanto è accaduto ha spinto Cesaratto ad
“accompagnare” la lezione keynesiana con “una conoscenza più
profonda della critica dell’economia politica dominante, che gli
economisti eterodossi conducono da svariati decenni, anche
indipendentemente dalla lezione keynesiana”.
Cesaratto premette che la scuola eterodossa più rigorosa è quella
che si “rifà alla lezione di Piero Sraffa”, consistita, nella sua
pars destruens, in “una critica analitica esauriente dell’analisi
neoclassica […] dominante; mentre, nella sua pars construens, ha
proposto “sia una teoria dei prezzi e della distribuzione del
reddito alternativa a quella dominante (ripresa dagli economisti
classici e da Marx), che un’analisi del livello e crescita del
reddito e dell’occupazione che perfeziona quella keynesiana”.
Sulla base di questa premessa, Cesaratto si chiede come abbia fatto
l’Italia, un Paese che “nel secondo dopoguerra era giunto a
recuperare gran parte dello svantaggio con l’Europa del Nord a
trovarsi oggi in una drammatica impasse”. La sua risposta è che la
causa di tale impasse sia da individuarsi nell’incapacità dei
gruppi dirigenti italiani “di rendere armoniche le relazioni
sociali interne e d’aver cercato di supplire a tale incapacità con
il tentativo di importare la disciplina dall’estero attraverso
regimi di cambi fissi”.
Ciò è accaduto perché, nel governare l’economia del loro Paese, i
gruppi dirigenti italiani si sono attenuti a una teoria, quella
neoclassica, nata alla fine del XIX secolo, che ha offerto un
nucleo di principi conoscitivi ed operativi trasmessosi immutato
sino ai nostri giorni. Il limite di tale nucleo di principi è
consistito nell’avere espunto dal discorso economico, a differenza
della teoria classica, ogni ragionamento di natura politica.
Ciò ha comportato che i gruppi dominanti italiani abbiano governato
l’economia sulla base di “ricette vecchie di un secolo e mezzo,
presentandole come la frontiera della scienza”, senza alcuna
considerazione del fatto che le relazioni formali tra le diverse
funzioni economiche non esprimono solo mere relazioni quantitative,
in quanto esprimono anche e soprattutto delle relazioni “fra
individui, gruppi sociali, istituzioni”, nonché l’evoluzione
storica di tali rapporti.
Se oltre alle relazioni quantitative, dal punto di vista
dell’analisi economica, assumono rilevanza anche quelle fra
individui, gruppi sociali e istituzioni, si impone un recupero
dell’economia classica, non potendosi fare a meno di considerare la
definizione di tali relazioni sulla base delle modalità di
distribuzione del prodotto sociale. Una volta introdotto il
problema della distribuzione del reddito – afferma Cesaratto –
“l’economia si fa politica”, rendendo necessario che si discuta di
due cose: del come distribuire il reddito fra tutti coloro che
hanno partecipato alla sua produzione e dei diritti civili dei
quali i singoli individui sono titolari.
I gruppi dirigenti italiani dominanti devono i limiti della propria
azione nel governo dell’economia all’essersi affidati alla teoria
economica tradizionale (quella neoclassica), espungendo il tema
politico dal discorso economico e sostenendo “che vi sono delle
leggi economiche che indicano con precisione quale fetta della
torta debba andare ai lavoratori e quale ai capitalisti”. Secondo
tale teoria, quindi, occorreva rispettare la suddivisione del
prodotto sociale sulla base delle leggi naturali da essa
esplicitate; in caso contrario, ogni distribuzione che, a causa
dell’”ingresso della politica nell’economia”, non avesse rispettato
queste leggi naturali avrebbe significato comportarsi in modo
ascientifico nel governo del sistema economico.
Al contrario di quella neoclassica, la teoria classica
dell’economia (quella di David Ricardo e di Karl Marx, affermatasi
nella prima parte del XIX secolo) considerava oggetto di studio
della teoria economica proprio le leggi che governano la
distribuzione del reddito, individuando la soluzione del problema
distributivo nei rapporti di forza esistenti all’interno del
sistema sociale tra i due grandi gruppi in cui si suddividono i
produttori: i lavoratori, da una parte, e i capitalisti,
dall’altra.
La teoria classica, però, dominante per gran parte del XIX secolo,
è stata sostituita verso la fine dello stesso secolo, in quanto gli
economisti hanno formalizzato la teoria neoclassica, considerandola
più coerente della teoria precedente, solo perché la soluzione del
problema distributivo, anziché essere imputata ai rapporti di forza
esistenti tra i gruppi sociali che partecipavano alla formazione
del prodotto sociale, veniva ricondotta a presunte leggi naturali
non soggette al confronto tra portatori di interessi di parte.
Ma nel corso del XX secolo, la teoria neoclassica ha dovuto fare i
conti – continua Cesaratto – con “due grandi sfide”, condotte,
rispettivamente, da John Maynard Keynes e da Piero Sraffa: il
primo, con la sua critica della legge degli sbocchi di
Jean-Baptiste Say, incorporata nella struttura della teoria
neoclassica, ha messo in evidenza il ruolo del consumo e della
domanda finale nel determinare lo stabile funzionamento del sistema
economico; il secondo con la sua critica della tenuta sul piano
logico dell’intero impianto analitico della teoria neoclassica, ha
privato di ogni credibilità le implicazioni deterministiche delle
presunte leggi naturali assunte a fondamento della soluzione del
problema distributivo.
Tenendo conto del pensiero critico di questi due grandi economisti
del Novecento, secondo Cesaratto, si possono meglio capire le
vicende che hanno caratterizzato la crisi dell’economia italiana e
la natura delle misure di politica economica che sarebbe stato
necessario attuare per risolverla, o quantomeno per lenirne gli
effetti negativi; una crisi, quella dell’economia italiana, che non
è iniziata nel 2007-2009, bensì nella seconda parte degli anni
Sessanta del secolo scorso.
Per Cesaratto, l’inizio della lunga congiuntura della quale soffre
l’economia del nostro Paese è iniziata con la “risposta che la
borghesia italiana [ha dato] al primo ciclo di lotte operaie che si
[è scatenato] nel 1962-63 nel Nord-Ovest d’Italia, dove il miracolo
economico aveva condotto alla piena occupazione”, mentre l’aumento
dei salari e l’elevata crescita avevano determinato un disavanzo
della bilancia internazionale dei pagamenti, che non poteva essere
eliminato con una svalutazione della lira, a causa del sistema dei
tassi fissi stabilito dagli accordi di Bretton Woods. Il problema è
stato risolto dall’intervento della Banca Centrale che, inaugurando
la politica dello “stop and go”, ha adottato misure volte a
stroncare gli investimenti e a creare disoccupazione ogni volta che
il Paese si fosse indebitato verso l’estero. L’economia italiana ha
potuto così riprendere a crescere, senza però le performance rese
possibili dal miracolo economico.
La lunga congiuntura nasce proprio dall’inaugurazione del modo
particolare con cui si è inteso regolare la posizione dei conti con
l’estero, quando questi avessero presentato un disavanzo. Ogni
volta che si sé fatto ricorso al blocco degli investimenti e
all’aumento della disoccupazione, per correggere la posizione
debitoria dell’economia nazionale rispetto all’estero, la ripresa
non è stata guidata dall’accoglimento delle crescenti istanze
sociali che avrebbero potuto sostenere i consumi e gli investimenti
interni, ma dallo stimolo delle esportazioni. In tal modo,
l’establishment politico-imprenditoriale, più che modernizzare
l’economia nazionale attraverso il sostegno dei consumi e degli
investimenti interni, ha preferito sorreggere le esportazioni
attraverso il contenimento del costo del lavoro. Tutto ciò accadeva
perché il Paese, sostiene Cesaratto, non riusciva “a fare emergere
una classe politica adeguata allo scopo”, ovvero a dare risposte
positive alle crescenti istanze provenienti dal mondo del
lavoro.
Di conseguenza, l’incapacità del mondo politico e di quello
economico a risolvere il crescente conflitto distributivo ha
provocato il succedersi di crisi continue. La situazione non è
cambiata negli anni Settanta, con la crisi del dollaro, perché
l’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo, prima, e
all’eurozona, successivamente, è valsa a riproporre il problema dei
cambi fissi e quello dell’impossibilità a risolvere il conflitto
distributivo, quindi ad imputare alle richieste del mondo del
lavoro la responsabilità della lunga crisi, attestata dal
succedersi di una diminuzione continua del tasso di crescita medio
annuo del PIL: tale tasso, infatti, dopo essere stato pari al 5,5%
nel periodo 1952-56 e al 6,6% negli anni del “boom” (1957-63), è
passato al 6% nel periodo 1964-70, al 3,9% in quello 1971-79, al
2,3% in quello 1980-92 e all’1,4% in quello 1993-98; dopo una
crescita pari all’1,5% registrata nel periodo 1990-2007, il tasso
di crescita medio annuo ha ripreso a calare, sino a registrare
-1,4% nel periodo 2008-15.
Di fronte al tragico succedersi della progressiva caduta dei tassi
di crescita medi annui dell’economia italiana, il sistema dei cambi
fissi dell’eurozona, “disvela”, nota Cesaratto, la sua vera natura:
esso non è stato uno strumento idoneo a realizzare un’unione
monetaria volta a realizzare una “solidarietà politica” tra i Paesi
ad essa aderenti, ma “strumento disciplinante” delle pretese del
mondo del lavoro a migliorare il livello dei salari; ciò per
consentire ai Paesi “forti” di continuare a fondare il loro livello
di benessere sulle esportazioni e di impedire ai Paesi “deboli” di
poter realizzare al proprio interno la soluzione del problema
distributivo mediate una politica di tipo keynesiano.
Di fronte al permanere di questa empasse, quale prospettiva di
azione è offerta ai Paesi membri dell’eurozona che, come l’Italia,
si trovano nell’impossibilità di invertire la decrescita continua
del loro PIL? A tali Paesi, ritiene Cesaratto, non resta che
sperare, o nel verificarsi di una “drammatica crisi finanziaria”
che faccia, a danno di tutti, tabula rasa dell’eurozona; oppure, il
lento proseguimento dell’agonia che li affligge, “attraverso la
continuazione della sequela di politiche e accordi germano-diretti”
che, in luogo di risolvere i loro problemi, ne impediscono una loro
“morte liberatoria”.
Poiché l’esperienza storica – come osserva Cesaratto - dimostra che
la resistenza dei corpi sociali, per quanto grande possa essere, ha
anch’essa un inevitabile punto di rottura, sarà bene che
l’establishment politico ed economico del Paese cessi la pratica di
continuare a chiedere con insistenza lamentosa “sconti” alle
istituzioni europee, per ottenere l’approvazione delle “manovre
economiche” ricorrenti, utili solo a consentire al Paese una pura e
semplice sopravvivenza. In altri termini, sarà opportuno che
l’Italia, a livello delle istituzioni europee, inauguri un
atteggiamento critico verso la non più giustificabile opposizione
ad una politica di solidarietà di tipo keynesiano tra i Paesi
membri dell’Unione.