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Andrea Ranieri - Il Manifesto
Questo ritratto di Bruno Trentin, già segretario
della Cgil, è una parte dell’intervento che Andrea Ranieri ha
tenuto nei giorni scorsi a Roma alla presentazione della rivista
«Luoghi comuni», edita da Castelvecchi, che dedica il numero 3-4 al
tema del lavoro.
Lo pubblichiamo volentieri
per ricordare questo grande segretario
generale della CGIL, che tanto si è battuto in difesa del lavoro e
dei lavoratori.
Nel 1957 Bruno Trentin scrisse a Palmiro Togliatti dopo che il segretario del Pci in un suo intervento al Comitato Centrale aveva detto che il sindacato non doveva pretendere di avere voce in capitolo sulle trasformazioni tecnologiche delle imprese, ma limitarsi alle politiche salariali, viste come l’unico modo a disposizione del sindacato per condizionarne le scelte delle imprese.
Trentin manifesta molto apertamente il suo dissenso. Sottrarre al padrone la possibilità di decidere unilateralmente sugli indirizzi, le modalità, i tempi di realizzazione dei cambiamenti tecnologici e organizzativi è fin da allora per lui il compito fondamentale del sindacato. Quello fondativo della sua autonomia. Perché quelle scelte decideranno delle condizioni di vita delle persone che lavorano, hanno a che fare con gli spazi di libertà che vanno conquistati e difesi anche all’interno della fabbrica capitalista.
Trentin è consapevole fin da allora di dover fare i conti con una tradizione di lungo periodo dei partiti della sinistra, sia rivoluzionari che socialdemocratici, che vedevano nel fordismo il modo più razionale di organizzare la produzione. Lenin stesso vedeva nel fordismo «la forma superiore di cooperazione capitalistica che ha raggruppato e disciplinato il proletariato sulla base del comune lavoro da svolgere». Fino a distinguere il lato sfruttatore del capitalismo da quello organizzatore.
IL TEMA DELL’ALIENAZIONE, dell’espropriazione dell’intelligenza, del corpo e della mente del lavoratore, nella fabbrica capitalistica, ben presente nell’elaborazione di Marx, veniva accantonato, e ci si concentrava esclusivamente sul plusvalore. In questa visione il ruolo del sindacato non poteva che essere solamente redistributivo e la liberazione del lavoro veniva rimandata ad un tempo indefinito, comunque successivo alla presa del potere statuale, per via democratica o per via rivoluzionaria.
ANCHE IL GRAMSCI di «americanismo e fordismo»
non esce da questa tradizione. Trentin cercherà altrove i suoi
riferimenti. Karl Korsch, l’austro marxismo, Otto Bauer, Karl
Polany, e oltre il marxismo il personalismo cristiano francese e la
straordinaria figura di Simone Weil che per capire e vivere il
lavoro si fa operaia, e descriverà l’orrore della fabbrica
fordista. E che vedrà nella mancanza di libertà e di diritti nella
fabbrica l’incubatore dei totalitarismi del Novecento, da quello
hitleriano a quello stalinista.
Il suo impegno per l’unità sindacale sarà basato proprio per questo
su un confronto non solo di tattiche e di strategie ma di valori, a
partire da quello fondamentale: come strappare nel presente, senza
aspettare una sempre più improbabile transizione, il massimo di
autonomia, di dignità e di libertà per la persona che lavora.
Sapendo che nessuna tradizione ideologica ha le carte in regola per
affrontare da sola questo nodo.
QUESTO LO PORTERÀ a un dialogo sempre più stretto con il mondo cattolico impegnato a portare nel sociale le idee e le pratiche della solidarietà. A partire dalla Comunità di Sant’Egidio, che aveva il suo centro in Santa Maria in Trastevere, dirimpettaia alla sua abitazione. Una voglia di incontro contraccambiata. Monsignor Zuppi allora parroco di Santa Maria fu protagonista di uno straordinario episodio. La cerimonia funebre per un non credente celebrata col Cardinal Silvestrini nella Chiesa di Santa Maria poco tempo dopo la morte di Bruno. Se al centro c’è la persona che lavora, la formazione, la crescita professionale e culturale dei lavoratori diventa un tema centrale. E centrale sarà per un periodo nella stessa azione contrattuale e nella pratica politica del sindacato, a partire dalla straordinaria conquista delle 150 ore per il diritto allo studio per tutti i lavoratori, a partire da quelli da questo punto di vista più svantaggiati, quelli cioè che erano entrati al lavoro senza avere conseguito l’obbligo scolastico.
La formazione per Trentin non è solo il modo, come nella formazione aziendale tradizionale, per adattarsi ai cambiamenti, al mutamento dei contenuti professionali, ma è lo strumento per diventare consapevoli dei contenuti del proprio lavoro, di dove è collocato nel ciclo produttivo, per rompere l’isolamento, per superare quella che per lui sarà sempre più la disuguaglianza fondamentale, quella fra chi sa e chi non sa.
LA FORMAZIONE è fondamentale anche nella fabbrica fordista più gerarchizzata, ma lo è ancora di più nell’economia e nella società della conoscenza, in cui il sapere diventa il fattore decisivo della produzione, l’arma fondamentale di competitività delle imprese e delle nazioni. L’importanza del sapere non attenua, ma sposta in avanti la necessità e i contenuti del conflitto. A partire dalla contraddizione fondamentale, Trentin la definirà una vera e propria schizofrenia, fra un sistema che chiede alle persone più creatività sul lavoro, ne aumenta la responsabilità personale, chiede la mobilitazione dell’intelligenza, e al tempo stesso accentua gli strumenti di controllo sul lavoro e sulla vita delle persone. Con ciò vanificando le stesse possibilità che le nuove tecnologie aprono ad un modo di produrre più cooperativo e più libero.
Per Trentin la formazione è il primo diritto del sindacato dei diritti, così lo definirà alla Conferenza di Chianciano (del 1989, ndr), il cui compito è assicurare pari dignità alle tante forme in cui il lavoro è stato frammentato. Comincia con lui un percorso che troverà un primo sbocco nella Carta dei diritti che la Cgil varerà molto tempo dopo, e che Landini consegnerà a papa Francesco per affermare il comune impegno nella difesa e nella promozione della dignità del lavoro, che è inscindibile dall’idea di ecologia integrale del Pontefice.
Ma i diritti del lavoro devono incontrarsi con i diritti nuovi che nascono nei luoghi della vita e con le culture nate fuori dalla storia del movimento operaio. Il femminismo, l’ambientalismo. Che sono essenziali a nutrire nei tempi nuovi il diritto delle persone a decidere del proprio destino. Le Camere del lavoro dovevano essere la sede di questa vasta alleanza.
IN UNA LETTERA a Berlinguer nel 1975, conservata nell’archivio storico della Cgil, con il compromesso storico in gestazione, dirà che qualsiasi strategia di governo è vuota e perdente se non accompagnata dalla costruzione di una rete di «potere democratico» nel tessuto sociale del Paese
Nel suo diario ancora inedito Trentin parla della crisi inesorabile della sinistra già nel 1996 non solo per il cedimento al neoliberismo dominante in salsa blairiana, ma soprattutto per aver messo la governabilità al di sopra di ogni altro contenuto. Il focus dell’azione politica, scrive Bruno, passa così dai governati ai governanti. La formazione decisiva per il partito è la formazione di una nuova classe di governo. Educare i giovani più brillanti all’esercizio del potere invece che a rappresentare i senza potere. Sta lì per Bruno la radice della stessa degenerazione morale. La politica, scrive nel diario, può essere scienza del governo o scienza della democrazia, di cui la funzione di governo è una parte. La sinistra decade quando assume il primo corno dell’alternativa come suo compito pressoché esclusivo. E sta al sindacato come soggetto politico tenere insieme l’intelligenza e la volontà di lotta dei governati.
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Andrea Pubusa
Con questa storia della lungaggine dei processi gli oppositori
della novella sulla prescrizione mi ricordano quel negoziante di
fronte a casa che una volta mi disse che aveva cambiato la macchina
perché aveva bucato. A lui risposi che in quel caso io al massimo
cambio la gomma e spesso neanche quella perché la faccio
aggiustare.
Che c’entra la prescrizine con la lunghezza dei processi? Nulla. La
prescrizione è connessa all’inerzia (si badi: inerzia)
nell’esercizio di un diritto o di un potere protratta nel tempo. Ma
se un cittadino ha un giudizio in corso vuol dire che lo Stato non
è inerte, vuol dire che sta esercitado la sua funzione. Quindi non
può esserci prescrizione. E’ poi veramente stravagante far correre
la prescrizione quando gli ulteriori gradi del giudizio nascono da
impugnazioni dell’imputato condannato. Qui è proprio il condannato
che fa si che il processo duri di più, con gli ulteriori gradi di
giudizio. A voler essere coerenti in questo caso si dovcrebbe
ammettere (con Davigo) che per limitare il moltiplicarsi dei
processi l’impugnazione del condannato, se seguita da apppello
incidemtale del PM, possa portare anche ad un aggravamento della
pena. Sarebbe un bel disincentivo per condannati con la coscienza
sporca. Se invece ad agire è il PM contro la sentenza di
assoluzione torniamo al punto precedente. Non c’è inerzia, quindi
non può correre il termine di prescrizione.
A me pare dunque che la disciplina attuale potrebbe avere un
correttivo solo (come pià volte ho detto) nel lasciar correre la
prescrizione per i reati lievi,per i quali l’interesse alla
condanna è socialmente lieve. Non per quelli che più colpiscono la
coscienza sociale.
Un altro modo per limitare le lungaggini sarebbe che il GIP facesse
davvero da filtro. Nella mia esperienza solo una volta ho
evitato il rinvio a giudizio, ma solo perché nel giorno in cui
sarebbe stato commesso il reato (delibera di Giunta) l’assessore da
me difeso stava non a Selargius, ma a Bologna. Di là dal mare. Se
fosse stato? poniamo, a P. Torres, lo avrebbero rinviato a
giudizio! Se non hai una prova così schiacciante, vai sempre a
finire a dibattimento.
Ma si chiederà: come mai in alltri paesi non è come da noi. Il
contenzioso è scarso e le decisioni più celeri. So di dire una cosa
che non dice quasi nessuno. Perché in altri paesi (penso alla
Germania, l’Austria, la Frania) hanno buone amministrazioni. Se voi
ci pensate gran parte del contenzioso anche non amministrativo
nasce dal fatto che l’amministrazione non è presente e puntuale,
non interviene. Pensate a tante controversie in campo edilizio, o
anche in materia di confini o fra vicini. Se voi vi recate in
caserma vi rispondono che se non c’è una sentenza loro, i
carabinieri, non muovono un dito. Ci son state donne ammazzate per
l’inerzia dell’Arma: mancava il provvedimento del giudice. E
i funzionari? Dicono d’essere terrorizzati dalla Corte dei
conti, e per questo, nei casi appena appena complicati, non
decidono se non dopo la pubblicazione di una sentenza.
Aumentare gli organici della magistratura è essenziale, lo è
attrezzare gli uffici giudiziari, ma senza che ognuno prenda a fare
il proprio dovere il contenzioso non diminuirà.
La prescrizione con tutto questo non c’entra nulla, non
c’azzecca.
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Carlo Dore jr.
L’entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia di
prescrizione del reato contenute nella L. n. 3 del 2019
(mediaticamente nota come “spazza-corrotti”) ha innescato un acceso
dibattito che coinvolge operatori del diritto e forze politiche di
maggioranza e opposizione, dibattito alimentato dalle
considerazioni critiche di quanti ravvisano nell’inoperatività
della prescrizione dopo la sentenza di primo grado un vulnus atto
ad alterare irreversibilmente gli equilibri del processo penale. Un
dibattito, quello sulle norme di nuova introduzione, condito da
accenti polemici spesso generati da mere esigenze di parte, che
impediscono di ravvisare i punti di forza e le altrettanto evidenti
criticità cristallizabili in tre semplici considerazioni, ispirate
dalla lettura delle disposizioni in analisi.
La prima: contrariamente a quanto affermato da alcuni commentatori,
la prescrizione non rappresenta un istituto a tutela dell’imputato
innocente, ma una vicenda estintiva del reato il cui intervento
impedisce al giudice di pronunciare nel merito del fatto. Consegue
a quanto appena affermato che l’imputato consapevole della propria
innocenza ha interesse non a consegnare il processo all’oblio del
non doversi procedere, ma ad ottenere una sentenza che, prendendo
posizione sul fatto, ne disponga l’assoluzione: un interesse, per
certi versi antitetico a quello che la prescrizione tende a
realizzare.
La seconda: concepita come un principio di civiltà giuridica volto
ad impedire che un soggetto venga chiamato a rispondere per un
fatto di reato molto tempo dopo la sua consumazione, la
prescrizione si è rivelata, anche a causa della farraginosità della
macchina processuale, un “buco nero” capace di inghiottire processi
già decisi in primo grado e talvolta anche in grado di appello,
vanificando la relativa attività istruttoria e dibattimentale anche
quando essa ha portato (come nella celebre vicenda del Senatore
Andreotti) all’accertamento della responsabilità dell’imputato
nell’ambito del giudizio di merito. Alla norma che impedisce
l’intervento della prescrizione dopo il giudizio di primo grado può
essere ricollegata un’innegabile funzione deflativa rispetto alle
appena richiamate farraginosità della macchina processuale,
orientando verso i riti alternativi quegli imputati che, non
potendo più contare sul “fattore tempo” per difendersi “dal”
processo, perdono interesse ad affrontare la fase
dibattimentale.
La terza: “l’ergastolo processuale” – nei termini (prospettati
dagli oppositori della riforma) della possibilità per il cittadino
di essere perseguito per un fatto verificatosi decenni prima, o di
trovarsi sistematicamente invischiato in un processo infinito – di
fatto non esiste, giacché le norme di nuova approvazione non
permettono né la perseguibilità di un fatto lontano nel tempo, né
precludono l’intervento della prescrizione nel corso del giudizio
di primo grado. Ravvisandosi gli elementi costitutivi della
prescrizione nel decorrere del tempo e nel corrispondente
affievolirsi della pretesa punitiva da parte dello Stato, la nuova
disposizione mantiene una sua intrinseca con i principi – cardine
dell’istituto quando si ragiona in termini di sentenza di condanna:
in queste ipotesi, lo Stato ha provveduto entro i termini previsti
dalla legge ad accertare la responsabilità dell’imputato; e se
l’imputato sceglie di accedere agli ulteriori gradi di giudizio
impugnando la sentenza, logica vuole che egli non possa avvalersi
della prescrizione per difendersi da un processo che lui stesso ha
deciso di tenere in vita.
Poco conferenti, in questo senso, risultano i richiami alla
presunzione di innocenza prevista dall’art. 27 della Carta
Fondamentale, dato che l’inoperatività della prescrizione nei gradi
di giudizio successivi al primo non determinano in alcun modo una
anticipazione degli effetti che la condanna è destinata a produrre
col passaggio della sentenza in giudicato.
Venendo alle criticità, il discorso sviluppato in base all’ultima
delle riflessioni proposte muta radicalmente nel momento in cui la
sentenza di primo grado si traduce in una pronuncia di assoluzione,
e il processo prosegue in ragione dell’impugnazione proposta dal
PM: nel qual caso, una modifica della norma che rende inoperante la
prescrizione sembrerebbe quantomai auspicabile, giacché evidenti
ragioni di giustizia sostanziale suggeriscono di non tenere
l’imputato vincolato senza limiti di tempo ad un processo relativo
a fatti rispetto a cui è stato dichiarato estraneo, e destinato a
proseguire per volontà del pubblico accusatore.
Infine, sembrano cogliere nel segno quegli orientamenti che
palesano la necessità di collocare l’intervento sulla prescrizione
nell’ambito di una più ampia riforma dell’intero sistema orientata
ad assicurare l’attuazione del principio costituzionale della
ragionevole durata del processo: una riforma imperniata sulla
depenalizzazione dei minori che conducono i Tribunali al collasso e
su una altrettanto incisiva revisione degli organici, da attuarsi
attraverso l’assunzione di nuovi magistrati e di nuovo personale a
supporto. Le nuove norme in tema di prescrizione risultano infatti
l’ennesimo prodotto generato dalla tendenza del legislatore a
rifuggire le riforme di ampio respiro per concentrarsi su misure
isolate e a costo zero, destinate a risultare difficilmente
compatibili col sistema nel quale vengono calate, e ad esporsi di
conseguenza alla sopra descritta sequenza di accenti polemici
ispirati da mere esigenze di parte, che ne rendono difficilmente
percepibili criticità e punti di forza.
(articolo pubblicato snche su www.articolo1mdp.it )
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Gianfranco Sabattini
Guy Standing, già docente di “Economic security” all’Università
inglese di Bath e cofondatore del Basic Income Earth Network
(BIEN), è autore di numerosi libri sul problema delle
trasformazioni delle moderne società industriali causate dal
processo di globalizzazione delle economie nazionali; il più noto
di tali libri al pubblico italiano è quello dal titolo “Precari. La
nuova classe esplosiva”.
Nel libro, Standing analizza i diversi aspetti della nuova classe
sociale, considerandola costituita da soggetti caratterizzati, non
solo dalla sofferenza derivante dall’incertezza del posto di
lavoro, ma anche e soprattutto da quella connessa alla perdita
della propria identità professionale; caratteri che, secondo
alcuni, varrebbero a ridurre il precariato al sottoproletariato
(Lumpenproletariat) di marxiana memoria, costituendo quindi, nelle
moderne società industriali, la classe sociale economicamente e
culturalmente più degradata, priva di coscienza politica e non
organizzata sindacalmente.
Proprio per questo, Guy Standing fa appello alla classe politica
perché provveda ad attuare riforme che vadano nella direzione del
riconoscimento del diritto alla sicurezza economica e professionale
dei componenti la classe del precariato, nella certezza che, in
mancanza di riforme economico-sociali innovative su questi
problemi, le società andrebbero incontro al rischio d’essere
esposte a ondate di instabilità, con l’emergere di istanze
populistiche dei partiti di estrema destra. Le riforme, secondo
Standing, sono tanto più necessarie, se si pensa che i
provvedimenti sinora assunti per fronteggiare il fenomeno del
precariato sono risultati del tutto inadeguati, perché sempre
fondati sul convincimento che la soluzione dovesse coincidere con
la creazione di nuovi posti di lavoro.
Negli anni Settanta del secolo scorso – afferma Standing – “il
pensiero e il linguaggio della politica sono stati pesantemente
influenzati da un gruppo di economisti di forte ispirazione
ideologica”. Secondo il loro modello neoliberista, crescita e
sviluppo dovevano essere considerati dipendenti dal livello di
concorrenza presente nel mercato; ogni sforzo, perciò, doveva
essere mirato a rendere massima la competizione e la competitività,
e ogni aspetto della vita economica e sociale doveva essere
“pervaso dalla logica del mercato”.
Secondo il pensiero neoliberista, per rilanciare e sostenere la
propria crescita, ogni Paese doveva elevare il livello della
“flessibilità del mercato del lavoro”, trasferendo sulla forza
lavoro tutto “il carico dei rischi e dell’instabilità del sistema
economico. Il risultato è stato – sostiene Standing - la creazione
di un “precariato globale”, i cui componenti sono stati privati di
un “qualsiasi punto di riferimento stabile”, diventando una “nuova
classe esplosiva”, pronta a dare ascolto a proposte politiche
destabilizzanti e a indirizzare il proprio voto verso i partiti
politici portatori di tali proposte. Il successo dell’”agenda
neoliberista”, ha perciò favorito l’insorgere, all’interno delle
società industriali ad economia di mercato, di “un autentico mostro
politico”; per fermarne l’espansione, è opportuno elaborare
un’adeguata strategia politico-istituzionale e prepararsi a
un’azione di contrasto.
Per ragioni anagrafiche, gli economisti neoliberisti, osserva
Standing, privi di ogni ricordo degli esiti della Grande
Depressione del 1929-1932 e di quelli socialmente positivi
originati dalle riforme sociali realizzate nel secondo dopoguerra,
con la loro “pessima opinione” nei confronti del ruolo di
regolatore dell’economia svolto dallo Stato, pensavano che
l’attività economica dovesse essere concepita come un’azione
inquadrata in “uno spazio sempre più aperto, dove investimenti,
lavoro e reddito avrebbero così avuto agio di muoversi in cerca di
condizioni sempre più convenienti”.
Il risultato dell’accoglimento del pensiero neoliberista è
consistito nel fatto che, mentre apparivano plausibili alcuni
aspetti della diagnosi neoliberista circa le cause dell’instabilità
che caratterizzato le economie industriali nella seconda metà degli
anni Settanta del secolo scorso, le proposte avanzate per il
superamento dei motivi di crisi sono state invece controindicative
sul piano economico e “brutali” sul piano sociale. Inoltre, secondo
Standing, il risultato dell’attuazione delle proposte neoliberiste
è stato peggiorato dal fatto che, i partiti socialdemocratici,
ovvero i creatori del sistema di sicurezza economica che i
neoliberisti criticavano, dopo aver opposto scarse obiezioni alle
proposte che venivano avanzate, alla fine le hanno condivise
passivamente.
Delle proposte neoliberiste, una particolare rilevanza ha assunto
quella che suggeriva la necessità di fare ricorso alla flessibilità
del mercato del lavoro, per garantire alle attività produttive la
possibilità di variare i livelli salariali (in particolare verso il
basso), diminuendo così la sicurezza economica del lavoratore;
inoltre, l’accoglimento della flessibilità proposta dai
neoliberisti ha consentito alle attività produttive di spostare
liberamente al loro interno i lavoratori, modificandone
inquadramento professionale. Il principio di flessibilità è stato
inteso in termini tanto rigidi che ogni crisi del sistema
economico, grande o piccola che fosse, “era attribuita, in parte, a
torto o a ragione, a una mancanza di flessibilità e a una carenza
di una ‘riforma strutturale’ del mercato del lavoro”. In Tal modo –
nota Standing – è accaduto che, mentre la globalizzazione si
allargava e si approfondiva e le attività produttive facevano largo
ricorso a rapporti produttivi sempre più flessibili, è aumentato il
numero dei lavoratori che si sono trovati ad occupare posti di
lavoro che, oltre ad indebolire la loro sicurezza economica, ne
hanno “cancellato” la loro identità professionale.
Le nuove politiche pubbliche ed imprenditoriali attuate sulla base
delle proposte neoliberiste hanno così dato origine ad un trend
generale dell’economia del tutto imprevisto, nel senso che migliaia
di lavoratori in ogni società industriale sono entrati a fare parte
del precariato, un fenomeno del tutto nuovo, privo di qualsiasi
rapporto con la “classe operaia” o con il “proletariato” delle
origini della società industriale, in quanto non costituente una
“classe per sé” in senso marxiano, ma piuttosto solo una “classe in
divenire”.
Quel che manca ai lavoratori precari, rispetto alla classe operaia
del passato, oltre alla sicurezza economica, è infatti l’identità
professionale; sia che siano trasferiti ad altre mansioni (se già
occupati), oppure (se nuovi occupati) siano assegnati a svolgere
ruoli lavorativi che non danno prospettiva di carriera, i
lavoratori perdono o mancano di maturare una memoria condivisa che
nega loro la consapevolezza di “appartenere a una comunità
occupazionale inquadrata in pratiche consoliate, con codici e norme
di comportamento e rapporti di reciprocità e fraternità”. I
lavoratori precarizzati perciò mancano di sentirsi integrati in una
collettività lavorativa solidale; fatto, questo, che vale ad
accrescere il loro senso di alienazione e strumentalizzazione,
perché l’assolvimento delle mansioni loro assegnate non condente di
proiettarli verso un futuro nel quale essi possano credere di
potere portare a termine un proprio progetto di vita.
La precarizzazione dei lavoratori è la conseguenza di un processo
perverso, intrinseco al funzionamento del sistema economico fondato
sulla flessibilizzazione del lavoro; una politica, questa,
consistente per lo più nell’assegnare mansioni “i cui simboli di
mobilità lavorativa e crescita personale - afferma Standing –
devono mascherare la vacuità di un certo lavoro”. E’ questa la tesi
sostenuta, con molta efficacia, anche da David Graeber, docente di
Antropologia presso la London School of Economics, in “Debito. I
primi 5.000 anni”.
Secondo Graeber, infatti, per contrastare la crisi del lavoro, le
politiche pubbliche neoliberiste avrebbero provveduto a “gonfiare”
settori totalmente nuovi, quali, ad esempio, quelli delle relazioni
pubbliche e delle cosiddette attività ausiliarie dei settori
produttivi. Queste ultime sono quelle che Graeber considera “lavori
privi di scopo”, in quanto svolti come se una qualche “entità”
esterna costringesse gli addetti a compierli solo per tenerli
occupati.
La proliferazione degli impieghi privi di scopo, ha continuato ad
espandersi nonostante che il fenomeno costituisse una vera e
propria contraddizione dal punto di vista della logica
capitalistica. Per la teoria economica, su cui tale logica è
fondata, è impensabile – afferma Graeber – che un’attività
produttiva debba “sborsare soldi a lavoratori di cui non ha affatto
bisogno. Eppure, per qualche ragione succede proprio questo”. Così,
negli ultimi decenni, è accaduto che il numero dei “passa carte”
abbia contribuito ad allargare a dismisura le burocrazie di ogni
tipo.
In realtà, dal punto di vista dell’ideologia neoliberista, la
spiegazione esiste, ma non è di tipo economico, bensì di natura
politica; gli establishment dominanti, formatisi sotto l’influenza
dell’ideologia neoliberista, si sono resi conto che una
disoccupazione crescente avrebbe costituito un “pericolo mortale”
per la crescita dell’economia sorretta dalla flessibilizzazione del
lavoro. Di conseguenza, per “sventare” il pericolo di una
recessione di lungo periodo, gli establishment dominanti non hanno
esitato a ribadire l’idea che il lavoro sia un valore etico in sé,
e che nulla spetti a chi non è disposto a sottostare, per la
maggior parte delle sue giornate, alla severa disciplina che
comporta lo svolgimento di una qualsiasi mansione lavorativa.
E’ stata così valutata opportuna la scelta di creare posti di
lavoro (anche se di dubbia utilità) che valessero a “controllare”
la crescente disoccupazione causata dall’automazione dei processi
produttivi; ciò è stato fatto indirizzando i soggetti disoccupati
verso lavori che, indipendentemente dalla loro giustificazione
economica, tenessero occupati i lavoratori anche in attività poco
condivise. In tal modo, si è formata – sostiene Standing - una
“nicchia sociale” nella quale si è accumulata una profonda violenza
psicologica potenziale, espressa oltre che dai lavoratori
perennemente disoccupati, anche da quelli impegnati in lavori privi
di scopo, in quanto privati della loro dignità e di ogni
legittimazione sociale; una situazione, questa, che, a parere di
Standing, non può che rendere il precariato una categoria sociale
“esplosiva”, la cui “rabbia”, dovuta al fatto d’aver perso ogni
possibilità di controllare la propria vita, induce a presagire
possibili e gravi ripercussioni sul piano della stabilità economica
e sociale.
Come uscire – si chiede Standing – da questa situazione? Egli
ritiene che, per evitare le possibili ripercussioni economiche e
sociali negative dovute ad una continua espansione del precariato,
occorra garantire a chi perde la stabilità del posto di lavoro un
“sistema di solidarietà sociale rinnovato”, idoneo a fornire ai
lavoratori disoccupati involontariamente o destinati a svolgere un
lavoro non gradito “una forma di autonomia sostenibile, al di là,
sia del modello di sicurezza sociale tradizionale sia del
paternalismo di Stato”; ciò perché le vecchie politiche
socialdemocratiche hanno perso efficacia nel contrastare le
crescenti disuguaglianze distributive affermatesi dopo l’avvento
dell’ideologia neoliberista. Per le politiche socialdemocratiche,
la ridistribuzione del prodotto sociale era realizzata attraverso
la leva fiscale e l’offerta di servizi e beni pubblici.
Nelle attuali società industriali, le politiche ridistributiva, non
potendo più essere effettuate attraverso la leva fiscale e la spesa
pubblica, devono poter garantire a tutti, precari inclusi, una
forma di sicurezza economica sostenibile, attuando proposte da anni
avanzate, ma sinora oggetto solo di lunghe discussioni. Tra tali
proposte, ve ne è una formulata da economisti autorevoli con una
lunga storia alle spalle e conosciuta sotto molti nomi, il più noto
dei quali è quello di “reddito di cittadinanza universale e
incondizionato”.
I vantaggi di questa forma di reddito consisterebbero, non solo nel
garantire a tutti una forma di autonomia economica sostenibile, ma
soprattutto nell’assicurare a ciascun cittadino la capacità di
vivere al di fuori del mercato, senza la pressione di dover
accettare forme di occupazione indesiderate, per evitare di
conservarsi in uno stato di perenne povertà.
Con un precariato che costituisce la nuova classe sociale creata
dalla logica di funzionamento delle moderne società industriali, se
le politiche pubbliche risditributive non sapranno correggere gli
esiti negativi della dinamica propria di tali società, il pericolo
è – conclude Standing - che tale classe sociale “sia del tutto
incline ad ascoltare le sirene più attraenti e nel contempo più
pericolose”. Perciò, prima gli establishment dominanti si
convinceranno che le crescenti disparità distributive sono
controindicative sul piano della stabilità economica e su quello
della stabilità sociale, meglio sarà per tutti; non solo per i
precari, ma anche (e forse soprattutto) per chi sinora ha tratto
vantaggio dall’applicazione incondizionata, in assenza di
correttivi, del principio della flessibilizzazione dei livelli
occupazionali.
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Andrea Pubusa
In un’intervista al
Fatto Marco Revelli enuncia i punti chiave di Salvini e
della Meloni: le tre O (odio, oblio e oltranzismo). Sono il gancio,
così lo chiama Marco Revelli, a cui si appende la triste e crudele
eredità del ‘900. Quel tempo del Male si rifrange e si ripropone,
ora come esibizione scenica ora come piega intellettuale.
Il politologo fa una analisi della situazione politica e del
ritorno di fenomeni di estrema destra. Il mercato fascista e
nazista in crrescita con ciondoli, manganelli e perfino il vino
“nero” sono la tragicomica replica del simbolismo del ventennio.
Una tragedia, “che è incredibile ci sia qualcuno che possa
augurarsi di rinverdire o farla rivivere“. Un simbolismo del
male. Ed ecco le tre O. “Odio non di classe o di sistema, ma
individuale, anarcoide, che si aggrega occasionalmente, si
riversa e ribolle in mille tinelli“. E l’oblio? “Narcosi
della memoria, pulizia mentale, un reset, che pialla le teste e
seppellisce le responsabilità“. Infine l’oltranzismo.
“Proliferano i demaghoghi, ci somministrano le idee più enormi,
eccessive, improbabili, l’ipertrofia come sistema“.
Le sue tre “O” hanno un grande mercato politico, chiede Caporale,
l’intervistatore. La risposta di Revelli è
affermativa:”Producono un fatturato invidiabile. È sangue vivo
per leadership altrimenti anemiche. Noi abbiamo Salvini e la Meloni
che hanno costruito la propria fortuna. L’ America ha Trump“.
Noi abbiamo Truzzu e Solinas, aggiungo io.
Ora è difficile togliere o aggiungere una virgola all’analisi di
Revelli. Eppure, sempre tenendo a mente le sue considerazioni, a me
pare che Salvini e la Meloni e più in generale le destre, Truzzu e
Trump compresi, non vincono per le tre O, o soltanto per quelle,
vincono perché parlano di problemi reali e danno risposta ad
esigenze materiali di persone in carne ed ossa.
Prendete a Cagliari. Agli abitanti di Marina interessano le tre O?
Oppure sono disposti a dare a Truzzu il consenso perché affronta la
questione del casino notturno nel quartiere? Chi non dorme la notte
per il chiasso di nottambuli sfacendati o maleducati e all’indomani
deve recarsi al lavoro, pensate che stia a sottilizzare su odio,
oblio e oltranzismo. O vuole semplicemente riposare in pace? E
appoggia gli amministratori per ragioni ideologiche o perché
risolvono questo problema? E chi vive o passa in piazze e quartieri
dove stazionano in permanenza soggetti, bianchi o neri poco
importa, che rendono difficile il passaggio e impossibile la sosta?
Pensate che siano affascinati dai ciondoli fascisti o dal desiderio
di vedere quei luoghi ricondotti alla normalità? Forse più che del
vino “nero”, sono desiderosi di una bella pattuglia che passi e si
fermi con frequenza in modo da scoraggiare presenze indesiderate,
fonte d’insicurezza, vera o presunta.
Insomma, la sicurezza è di destra o di sinistra? Poter uscire la
notte tranquilli, non solo le donne, ma anche gli uomini, che segno
politico ha? Ho sempre pensato che limitare gli spazi ai male
intenzionati sia sicuramente di sinistra e che i malintenzionati,
consapevoli o no, sono obiettivamente di destra o non
progressisti.
La leader del centrosinistra cagliaritano in consiglio comunale ha
denunciato lo sgombero dei portici di via Roma dai clochards che vi
stanzionano giorno e notte. Ha lamentato la drastica pulizia del
luogo in vista delle feste natalizie. Ma pensate che curare la
pulizia e la decenza della più importante via della Sardegna sia di
destra? O si tratta di una semplice e doverosa misura di buon
senso? E il problema dei poveracci è una questione da affrontare
non occupandosene (ognuno faccia come vuole) o, invece, è un tema
da discutere in sede politica e ammistrativa e da risolvere nel
rispetto assoluto delle persone, ma anche del decoro dei
portici?
E se andiamo ai temi del lavoro, della moralità pubblica, della
serietà della politica, cosa pensate voglia la popolazione? Vuole
esponenti che dicono d’essere di sinistra e fanno cose da
liberisti? O ama quelli che dicono di volere la trasparenza e si
fanno i cavoli loro nelle secrete stanze?
Insomma, le cose che dice Revelli sono importanti e da tenere
sempre presenti, ma i temi su cui si batte la destra sono altri.
Sono le questioni del lavoro, delle prestazioni pubbliche (sanità,
scuola, etc.), sono i temi della democrazia e dell’uguaglianza in
concreto. E’ qui che si vince o si perde la partita.Il resto è
contorno. O no?