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Lucio Garofalo
La paura è, com’è noto, una pulsione ancestrale del genere
umano, è un impulso ferino ed irrazionale, preesistente ad ogni
stadio della civiltà e a qualsiasi forma di cultura e di
raziocinio, è un elemento insito nella stato di natura animale ed è
riconducibile all’istinto più antico e primordiale di
auto-conservazione della specie. La paura discende da un sentimento
più che naturale, ossia il terrore inconscio ed incontrollabile
della morte. Perciò, la paura è una pena che si sconta e si vince
vivendo.
Sin dai suoi lontani primordi, l’umanità ha imparato (per una
necessità insopprimibile, e non per volontà) a convivere con lo
sgomento destato dalla furia naturale e dalle sue terribili
manifestazioni più frequenti: tuoni e fulmini, terremoti, eruzioni
vulcaniche ed altri cataclismi. Nel corso dei millenni della
preistoria, l’uomo ha provato ad esorcizzare la paura, cercando di
interpretare i vari fenomeni fisici come eventi soprannaturali di
origine divina. In tal modo sono sorte le antiche religioni
mitologiche che affondano le loro radici nei timori più ancestrali
e remoti dell’umanità. Ancor oggi, in un’epoca apparentemente
soggiogata dal razionalismo e dal delirio/complesso di onnipotenza
tecnicistica ed utilitaristica dell’uomo, la paura è un elemento
costante della nostra esistenza. Essa assume innumerevoli
manifestazioni, si insinua nei meandri più oscuri e reconditi
dell’animo umano, come un “virus” subdolo e letale che genera più
danni e iatture di qualsiasi morbo e di ogni epidemia
infettiva.
È fuori discussione che la paura sia uno dei tratti più tipici e
peculiari della natura animale che è insita nell’uomo, ma non
dev’essere un’ossessione che non concede pace o tregua. Eppure, la
realtà che viviamo oggi, è sempre più assillata da paure, a
cominciare dalla paura di morire fino alla paura di vivere. Non a
caso, il triste e lugubre primato dei suicidi, in modo particolare
tra le generazioni più giovani, è conteso dalle nazioni più
opulente ed evolute dell’Occidente, il Giappone in testa. Non a
caso, le società vengono governate anche con il ricorso alla paura,
e gli Stati più avanzati sul fronte tecnologico si avvalgono anche
delle paure per esercitare una forma di controllo sociale sempre
più esteso e capillare. Non a caso, si vincono le elezioni
politiche proprio “giocando” la carta dell’idiosincrasia o della
fobia isterica verso qualcuno, un nemico, un diverso, da
demonizzare ed agitare come uno spauracchio. In primis, la “paura
del comunismo”, che costituisce tuttora un’avversione ed
un’inquietudine ossessiva della borghesia. Lo “spettro del
comunismo”, dopo il fallimento del “comunismo reale”, dopo la
caduta del muro di Berlino ed il tracollo dell’URSS, viene agitato
assai più che in passato, proprio allo scopo di conquistare e di
preservare il potere e l’ordine costituito.
In passato, in Italia venne importata dall’Estremo Oriente una
nuova paura incarnata nel virus dell’Aviaria, meglio nota come
“influenza dei polli”, che suscitò timori assai spropositati,
infondati ed isterici, prefigurando vari scenari apocalittici
addirittura di stragi “pandemiche”, paragonabili alle peggiori
pestilenze dei secoli passati. Invece, come si è verificato in
altre occasioni, il panico si rivelò assai più pernicioso della
stessa patologia “ornitologica”. Che polli! I veri “polli” si
rivelarono gli utenti e gli spettatori più sciocchi e passivi delle
campagne di disinformazione di massa. L’aviaria si dimostrò essere
una bufala. Già nel 1998/99 numerosi polli perirono a causa del
contagio, ma i mass-media non ne parlarono e tutti continuarono a
mangiare polli senza allarmismi di ordine sanitario. Lo spavento
suscitato dall’aviaria in anni successivi, mise in ginocchio
un’intera economia agricola, contribuendo ad incrementare i già
colossali profitti delle multinazionali farmaceutiche. La vicenda
conferma l’abnorme ruolo dei mass-media, la cui “influenza” è assai
più deleteria di ogni virus influenzale. Aveva pienamente ragione
il ministro della propaganda nazista, Goebbels, quando affermava:
“Una bugia, ripetuta continuamente, è accettata dalle masse
popolari come una verità incontestabile”.
Negli anni ‘80, il virus HIV (l’Aids) seminò un’enorme psicosi nel
mondo occidentale, ma fu presto scongiurato, tuttavia ancor oggi
rappresenta una delle principali malattie infettive in Africa e nel
Sud del mondo, un morbo assai più letale della tubercolosi e della
malaria, che provocano stermini di massa. Mentre in Occidente il
virus dell’AIDS è oramai debellato grazie ai risultati ottenuti sul
versante della ricerca, nei Paesi del Terzo mondo esso uccide più
di ogni altra malattia a causa degli esorbitanti costi dei vaccini,
imposti dalle multinazionali farmaceutiche, che risultano potenti e
totalitarie quanto lo sono le compagnie petrolifere e quelle legate
all’industria bellica, per cui si configurano come i padroni
assoluti ed incontrastati del nostro pianeta.
Nei secoli bui della storia, il terrore provocato dalla peste
bubbonica causava più danni del morbo stesso. Ad esempio,
nell’Europa medievale la paura degli untori era assai più nociva e
deleteria della stessa peste che sterminava milioni di vite umane.
Le testimonianze che ci hanno lasciato il Boccaccio ed il Manzoni
nelle loro opere (Decameron e Storia della colonna infame) ci
trasmettono degli insegnamenti assai preziosi. Ma, come spesso
accade, la storia insegna, ma non ha scolari (cit. Antonio
Gramsci).
Le vicende relative al nuovo virus, il Covid-19, meglio conosciuto
come il Coronavirus, temo che confermino il fatto che la paura è
assai più subdola e più perniciosa di qualsiasi morbo epidemico,
eppure, nel contempo può rivelarsi lucrosa per chi, in modo cinico
e spregiudicato, riesca a trarne profitto. L’isteria collettiva
generata dal nuovo virus, assai meno nocivo dell’influenza
stagionale, è un fenomeno di proporzioni immani e spaventose. La
mia ipotesi, dettata dalle esperienze storiche, è che le attuali
campagne mediatiche di allarmismo e di terrorismo psicologico di
massa, serviranno a giustificare e ad incentivare la corsa futura
all’acquisto di milioni di dosi di vaccino ad un titolo preventivo
e cautelativo, che farà la fortuna dei principali colossi
farmaceutici multinazionali.
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Andrea Pubusa
Impazza il coronavirus. Niente messe, niente funerali, niente
ristoranti, niente incontri, niente, di niente. Ho già detto che
questa situazione non mi piace. Stride con la democrazia, che è
incontro, coraggio, dialogo. E qui c’è il contrario: paura,
isolamento. e silenzio.
Mi verrebbe da dire: disobbediamo, continuiamo la nostra vita,
teniamo le nostre assemblee, le manifestazioni. Ma non lo dico,
anche perché so che oggi la gente non verrebbe alle riunioni, non
sarebbe disponibile a manifestazioni o altro. Dico però che
dobbiamo sviluppare l’iniziativa nel modo possibile in questa
situazione del tutto eccezionale. Per esempio, utilizzando al
massimo le nuove tecniche di dialogo a distanza. E’ possibile in
breve tempo trasformare i nostri incontri diretti in incontri in
videocoferenza? Penso di sì. Forse anche le assemblee possono farsi
così. Può addirittura darsi che, affinando queste tecniche e
maturando un’esperienza nuova, possiamo determinare un
ampliamento degli spazi di democrzia.
Le crisi, si sa, sono sempre un campanello d’allarme, ci dicono che
una situazione non è più sostenibile, che c’è da cambiare e guai a
rimanere fermi o peggio ad avere nostalgia del passato, sarebbe la
fine.
Per esempio, in vista del 25 aprile dovevamo tenere una serie di
incotri nelle scuole sulla Resistenza, sulla Costituzione e sulle
libertà. Non possiamo più avere l’agibilità delle aule? Non
fermiamoci: al silenzio possiamo sostiuire relazioni in streaming.
La Scuola di cultura politica, ormai prossima
all’apertura, non può tenere le riunioni previste? Stiamo
muti? Aspettiamo, girandoci i pollici? No. Al silenzio esiste
un’alternativa: conferenze e lezioni in video. Facciamo in forme
nuove quanto dovevavmo fare nel modo tradizionale. Evitiamo di
seguire la via consolatoria dello stare in casa, perché non si può
far nulla. Mettiamoci al lavoro con fantasia.
Iniziamo a pensare al 25 aprile. Stiamo zitti, come vorrebbero i
fascisti? No, inventiamoci qualcosa. La riconquista della libertà
non può non essere festeggiata. Rimbocchiamoci le maniche e non
molliamo! Vediamo come stare insieme, anche se a distanza.
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Il manifesto dell’ANPI per l’8 marzo ideato e realizzato dal Coordinamento donne della nostra Associazione
Articoli recenti
-
5 marzo 2020
Nespolo: “L’Unione europea non può e non deve accettare il nuovo ricatto di Erdogan!”[2]
Dichiarazione della Presidente nazionale ANPI, Carla Nespolo, sui fatti di Idlib e del confine greco-turco
-
4 marzo 2020
Referendum sulla riduzione dei parlamentari: l’ANPI è per il NO[3]
Il testo del documento del Comitato nazionale ANPI che illustra le ragioni della scelta. “Una legge improvvisata e opportunistica. L’ANPI non aderirà ai Comitati del NO e realizzerà iniziative in …
-
3 marzo 2020
L’ANPI sbarca su Instagram[4]
Aperto il nuovo profilo social. La nostra Associazione è attiva anche su Facebook e Twitter.
#patriaindipendente
Il quindicinale dell’antifascismo.[5]
References
- ^ Nessun commento (www.democraziaoggi.it)
- ^ Nespolo: “L’Unione europea non può e non deve accettare il nuovo ricatto di Erdogan!” (www.anpi.it)
- ^ Referendum sulla riduzione dei parlamentari: l’ANPI è per il NO (www.anpi.it)
- ^ L’ANPI sbarca su Instagram (www.anpi.it)
- ^ #patriaindipendenteIl quindicinale dell’antifascismo. (www.patriaindipendente.it)
- ^ Notizie dal mondo ANPI. (www.anpi.it)
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- Scritto da Democrazia Oggi
Gianna Lai
Nuovo appuntamento domenicale con la storia di Carbonia, a partire dal primo settembre[1].
Il fascismo si nutre di simbologia, di propaganda e di miti. Se,
come abbiamo appreso dalle parole del Prefetto, al luglio del 1941
gli attacchi nemici hanno già causato in provincia oltre 200
morti, 213 dispersi, oltre 380 i feriti e 413 i prigionieri,
e già si registrano, nel solo mese di Ottobre, 6
allarmi e 4 mitragliamenti a bassa quota. Se, ‘nell’anno di
guerra’, scoramento ed angustia già opprimono la popolazione in
provincia, di fronte all’esaurimento delle scorte alimentari, del
grano per la semina, di oli lubrificanti e gasolio, pur
assegnati dal ministero alle popolazioni civili, e tuttavia spesso
direttamente requisiti dalle forze armate. Se, mancando tutto in
provincia, tutto si deve importare dal Continente, tranne la
carne, il formaggio e il vino, mentre gravissimo si registra, fin
da subito, il ritardo delle navi, subito irregolare il traffico nel
Tirreno, in seguito ai continui attacchi nemici sul mare,
ormai senza orario e date prefissate lo sbarco delle navi. Se
siluramenti e affondamenti di piroscafi, tra Capo Carbonara e Capo
Ferrato, provocano morti e impediscono gli approvvigionamenti, se
lo sganciamento continuo di mine dai sommergibili nemici, nei porti
di Cagliari e di Sant’Antioco, impedisce l’attracco delle navi,
obbligando a continue e impegnative operazioni di sminamento. Se il
quadro economico. tracciato nelle informative, segnala il
fallimento del regime, ‘tranne l’oasi Mussolini, nessuna bonifica è
stata ultimata, nella gran parte perduti i lavori eseguiti e le
somme spese, mentre su tutta la provincia sempre infierisce la
malaria’, a suonare quasi ironiche, in quelle stesse note al
ministro, per adombrare forse l’imminente catastrofe, le
rassicuranti osservazioni del prefetto Leone. Costretto,
evidentemente, sempre a chiudere, o ad aprire, col più sereno
ottimismo. ‘Lo stato di guerra, per l’innato spirito di disciplina
e di devozione alla Patria, che anima tutti i sardi, dal più colto
professionista al più umile lavoratore, non ha creato
particolare stato d’animo: come si è saputo silenziosamente
sopportare il periodo non favorevole alle nostre armi, così
si è sempre virilmente tenuto alto il sentimento e mai è
venuta meno la fiducia nella vittoria’, al mese di luglio del
1941. Ma già, fin dal novembre del 1940, per esaltare in una
nota al ministro, la funzione salvifica di Mussolini, ‘il discorso
del Duce alle gerarchie di partito, salutato dal più vivo
entusiasmo da quanti credono ciecamente in Lui, è servito a
sollevare tempestivamente lo spirito dei deboli e dei sofisticoni
pessimisti, i quali pretenderebbero di leggere, in ogni bollettino,
vittoriose avanzate e annientamento del nemico, senza pensare al
sacrificio eroico dei nostri soldati di terra di mare e dell’aria,
che combattono con fede per ottenere la più bella e la più grande
delle vittorie. Sui dubbiosi e sui tentennanti si vigila e non si è
mancato di adottare opportuni provvedimenti di polizia’.
Proprio come, esemplarmente, è finito quell’amministratore del
Fascio a Uta, ‘arrestato il Segretario amministrativo del
Fascio di Uta, per aver troppo drammatizzato la situazione: subito
deferito alla Commissione per il confino’. E poi, sempre
sorvegliato nei modi il prefetto Leone, anche di fronte al dramma
degli approvvigionamenti, come nel gennaio del 1941, ‘la
popolazione si mantiene tranquilla e fiduciosa e conferma i suoi
sentimenti patriottici e la sua devozione al Duce’, dopo la chiusa
della nota precedente, ‘altissimo si mantiene lo spirito pubblico
nei confronti della guerra; son sicuro che lo spirito di
patriottismo, che anima questa popolazione, saprà superare ogni
scoramento’. Ed ancora, ‘la popolazione non ha cessato mai di avere
fiducia assoluta nel Duce nella forza delle nostre armi e nella
vittoria finale’, il 4 marzo dello stesso anno. E poi ancora, ‘il
recente discorso del Duce ha avuto vasta e profonda risonanza
nell’animo popolare in provincia e ha rinsaldato la sua fiducia
nella vittoria, pronta anche a qualsiasi sacrificio’. E il 3
aprile, ‘non scossa la fiducia e anzi rafforzata la volontà di
vincere, anche se, per conseguire la vittoria, si dovranno
sostenere nuovi e grandi sacrifici’. E il 2 maggio, ‘nessuna
offensiva, neppure ad aprile: […..] la popolazione di questa
provincia ha esploso con entusiasmo e gioia alle notizie delle
nostre vittorie, dando ancora una volta prova del suo profondo
sentire patriottico’.
Fino ai toni celebrativi adottati nei primi mesi del 1942, ‘le
vittorie su tutti i fronti hanno contribuito a mantenere alti gli
spiriti e ad accrescere la fiducia nel trionfo finale. Tale fiducia
si è riscontrata molto più sentita per la popolazione umile
che tra i militari, per i quali il mito dell’invincibilità delle
forze dell’Impero inglese, dopo l’entrata in guerra dell’America,
non è ancora superato. Vinceremo’. Ed esaltanti ancora i toni a
maggio, ‘l’incontro di Salisburgo ha suscitato viva soddisfazione,
essendo nella coscienza di tutti che i due grandi capi dell’Italia
e della Germania, ogni qualvolta si sono incontrati, hanno
determinato l’inizio di nuove gloriose imprese’. Così la dedica al
‘radioso maggio per la visita del Duce: le masse operaie e rurali
di questa provincia, dimenticando ogni personale angusta
restrizione e dolore, hanno tributato al Duce calorosissime
accoglienze, confermandogli completa dedizione e ferma certezza
nella vittoria’.
Poco importa se, proprio dal giugno successivo di quell’anno 1942,
si intensificano i bombardamenti sul capoluogo e sulla
provincia, provocando a Cagliari lo sfollamento di 15mila persone,
verso un territorio stremato dalla fame, che non riceve più beni di
prima necessità dal Continente, il grano distribuito in
quantità irrisorie una tantum. ‘15 mila persone lasciano la città,
mantenendo un contegno fermo e dignitoso’. Perché in quella stessa
nota si comunica come sia ’svanita la depressione,
all’annuncio della brillantissima vittoria aerea e navale: nei
giorni 13, 14 e 15 giugno vendicati i danni prodotti dal nemico in
città, con viva soddisfazione della cittadinanza’. E poco importa
se, ad agosto, il mitragliamento nel Sulcis provoca feriti tra la
popolazione dell’isola di Sant’Antioco, dato che ‘l’offesa
contro un convoglio nemico, dopo il mitragliamento di
Calasetta, è stata seguita con vivo interesse dalla popolazione,
manifestando la propria soddisfazione per gli efficaci risultati
conseguiti. Confermo che lo spirito pubblico si è mantenuto sempre
all’altezza della nazione in guerra’. Così come nella nota
successiva, ‘lo spirito della popolazione si è mantenuto altissimo,
sorretto principalmente dalle vittorie conseguite dalle truppe
dell’Asse sul fronte dell’Est’. E poco importa se poi, nel mese di
ottobre, la popolazione risulta ’scossa alla notizia dei
danni e delle vittime delle incursioni aeree nell’Italia
settentrionale e per il ripiegamento delle truppe, in seguito
alla fortissima pressione del nemico’: di fronte a un ‘
morale un pò depresso’, il dato fondamentale resta, ‘come anche
rilevasi dalla censura postale, che la fiducia nella vittoria non è
venuta meno e solo si depreca il momento poco favorevole che si
attraversa e che coincide (sic) con un periodo scarso di generi
alimentari, scarsi i mangimi e scarsa la carne, mentre non arrivano
dal Continente patate e legumi’. E poco importa se tra la
popolazione si è diffuso il convincimento che la difesa della
Sardegna non sia molto efficiente, avendo imposto, l’occupazione
della Corsica, il distaccamento di una delle tre
Divisioni di stanza nell’isola’; o se nella popolazione si
riscontra una certa ‘depressione per le notizie dei bombardamenti
nelle città del Nord e per effetto dell’attività aerea su questo
territorio, durante il mese’, dato che, ‘per quanto un pò depresso,
lo spirito pubblico si mantiene fiducioso e nessun perturbamento è
da prevedere nell’ordine pubblico’. Pur avendo, il Comando di corpo
d’armata, chiesto alla Questura ‘ausilio per uno studio sull’ordine
pubblico nel capoluogo’, di fronte al nuovo sfollamento di oltre
10mila persone, in un capoluogo che, a detta delle autorità,
avrebbe dovuto essere del tutto evacuato: ad impedirlo la
malaria su buona parte del territorio e la mancanza di
abitazioni.
Solo dopo i bombardamenti di febbraio, di marzo e di maggio, pur
tranquillizzato il ministro, non essendo registrata alcuna
‘manifestazione contraria al regime in provincia’, si
annuncia drammaticamente ‘di nuovo piombata in stato di depressione
l’opinione pubblica’ nel territorio: a Cagliari ‘i superstiti,
dentro i rifugi, non escono neppure a cercare cibo’, e si
propagano incontrollate le malattie infettive. E mentre si
registrano proteste di donne ad Iglesias e a Fluminimaggiore
e, dapertutto, circolano voci sul prossimo intensificarsi
degli attacchi aerei e su possibili sbarchi nella Sardegna
meridionale, ci sono 85mila persone che vorrebbero, per questo,
allontanarsi dalla costa, mancando del tutto nell’entroterra i
mezzi di trasporto e gli alloggi. Grande disordine nella vita
civile, si denuncia il totale assenteismo delle autorità anche per
la mancata rimozione delle macerie, e quindi delle vittime, e per
il mancato soccorso alla popolazione, tanto che a marzo,
nell’informativa del prefetto, resta ‘ancora imprecisato il
numero dei morti’, dopo il bombardamento di febbraio.
‘Irreperibili i capi di industria e di aziende e gli impiegati’,
denunciano i Carabinieri Reali indignati contro le autorità locali,
‘dirigenti, funzionari, ed impiegati hanno abbandonato Cagliari
presi dal panico e mischiandosi alla folla in fuga’. Assoluta
mancanza di assistenza agli sfollati e ai sinistrati, così
nelle note dei carabinieri come nelle relazioni del prefetto,
quelle autorità esse stesse ‘confuse col popolo nel panico e nella
fuga senza controllo’. Fino alla informativa sulla
‘distruzione di Cagliari’ quando il prefetto annuncia ‘non
dissimula il suo vivo malcontento la popolazione, anche per il
disservizio degli uffici pubblici e delle organizzazioni
sindacali’. Apparendo fulgida protagonista di questi ultimi giorni
di guerra in provincia, una classe dirigente imbelle, sempre al
riparo della politica del regime e ora in stato di completa
disgregazione, di fronte agli esiti di tale sciagurata alleanza. In
fuga, come nel resto d’Italia, ma pronta, nella fuga stessa, a
costruirsi nuove fortune e garantirsi continuità alla fine del
conflitto. Mentre esposta inesorabilmente alla guerra resta
l’intera popolazione, priva di protezione alcuna e di
difesa, neppure sfiorati i dirigenti dall’idea di preparare e
attuare seri piani di sfollamento, come avviene invece in tante
altre città italiane. Malumori, reclami, lamentele, lagnanze,
‘le donne brontolano’, ’si registra un certo malcontento tra i
lavoratori’, ‘ un po’ depresso risulta il morale degli abitanti’,
frasi fatte ed eufemismi, attraverso i quali le note prefettizie
descrivono terrore e morte sotto i bombardamenti, o per fame e
malattie da denutrizione. Riuscendo a mantenersi dentro
gli schemi rigidi e propagandistici di una informativa ufficiale
sempre, a dir poco, scarsamente attendibile, anzi reticente, nel
descrivere le condizioni di vita dei ceti meno abbienti e, per
questo direttamente responsabile, a sua volta, del mancato
soccorso.
References
- ^ primo settembre (www.democraziaoggi.it)
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- Scritto da Cagliari in Verde
Le piante succulente sono poco trattate nel blog, perché
rappresentano un mondo particolare che richiede competenze
specifiche, che io non ho: però non ho mancato di presentarvi
piante comuni da noi, come l'Agave americana, o
particolarmente interessanti, come l'Agave
attenuata, la Beaucarnea recurvata o anche il
Pachipodium lamerei.

Si tratta di una Crassula ovata, nota con il nome comune di Albero di giada, che ho incontrato nel parco CIPLA, quello di via Dei Donoratico (post del 30/9/11[1]), la cui parte anteriore ha preso recentemente il nome di parco Lions (post del 12/3/18[2]).
Non è un parco molto frequentato ma ha degli scorci gradevoli, qualche notevole pianta di alto fusto (Ficus retusa, Cipressi, Fitolacca...) e poi consente simpatici incontri, come quello odierno della Crassula.

La Crassula ovata ha una gradevole ed abbondante fioritura, tanti fiorellini bianco-rosa stellati riuniti in infiorescenze, come si vede nel primo piano a destra.
Questa pianta succulenta è molto resistente e si accontenta veramente di poco; questo però significa che spesso viene posizionata in vaso in luoghi oggettivamente difficili, come gli androni dei palazzi senza alcuna luce, ed abbandonata a se stessa o maltrattata, tanto da finire per vivacchiare brutta e malata ed essere vissuta come pianta di scarto.
Bene, adesso sappiamo che non sempre è così, può essere una pianta gradevole e dare delle buone soddisfazioni estetiche, pur rimanendo una pianta rustica e di poche pretese.