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Gianna Lai
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Il coronavirus non interrompe la serie domenicale sulla storia di Carbonia. Ecco un nuovo intervento di Gianna Lai, il primo domenica I° settembre[1].
Il re in fuga verso il Sud della penisola, nelle mani dei
nazisti il capo del governo in fuga verso il nord: cosi finisce
l’Italia fascista, insieme ai suoi Imperi e alle sue sanguinose
conquiste. Una classe dirigente che ne segue l’esempio,
abbandonando fabbriche e imprese nelle mani degli operai, le più
sicure, tuttavia, ad impedire il trasferimento degli impianti in
Germania. Non così drammatico, eppure speculare, l’abbandono delle
miniere sulcitane da parte dei suoi dirigenti ACaI, in questo mito
a senso unico della città di fondazione e dei minatori
soldati del lavoro, ‘testimonianza della genialità creatrice del
Duce’. Che è funzionale alla propaganda di regime, a spingere
cioè a riconoscenza e devozione la gente del luogo, senza mai
tenerne in alcun conto il lavoro. A scapito, possiamo dire, del
lavoro stesso e dei suoi valori, delle esigenze primarie di un
territorio e di una popolazione, da sempre marginali nel contesto
della Paese, che di ben altre attenzioni avrebbe avuto bisogno per
sconfiggere la sua antica miseria. Certo, come dice Girolamo
Sotgiu, ‘un’impresa di dimensioni così imponenti’, introduce nella
arretratezza del sistema produttivo e della vita civile dell’isola
elementi di novità, perché Carbonia nasce in un territorio,
con l’espandersi della rivoluzione industriale fin dalla seconda
metà dell’Ottocento, già fortemente caratterizzato per la sua
attività produttiva, in buona parte concentrata sull’industria
mineraria. Un complesso di aziende nel Sulcis
Iglesiente Guspinese, tra Arbus e Guspini il maggior giacimento
metallifero di piombo-zinco d’Italia, dove la Montecatini
intensificò l’attività estrattiva e modernizzò il processo
produttivo: nei pressi di San Gavino, la costruzione di un
grandioso impianto metallurgico, giunto fino ai nostri giorni.
‘Modificazioni che andavano ben oltre la sfera dell’economia,
determinando trasformazioni profonde nella società’, in questo
territorio, dice ancora Girolamo Sotgiu, ’si venne formando
un personale di notevole livello tecnico, costituito da ingegneri,
tecnici minerari, procuratori legali, imprenditori, che
contribuì a elevare notevolmente il livello culturale nei comuni
minerari. Centro di aggregazione di forze culturali interessate
allo sviluppo delle attività estrattive divennero sia il Corpo
reale delle miniere, con sede ad Iglesias, sia la Scuola capi
minatori e periti minerari di Iglesias, fondata nel 1871′. E ne
trassero giovamento sia le strutture sanitarie sia quelle
assistenziali, fino a Montevecchio, Monteponi e Buggerru. Pur
se ‘questo complesso di aziende minerarie, nel quale trovava lavoro
il 26,5% dei minatori italiani, in una zona geograficamente così
limitata, la Sardegna sud occidentale, con una concentrazione
operaia notevole, una organizzazione del lavoro moderna e avanzata,
non incideva tuttavia nel complesso dell’economia sarda in modo
proporzionale ai capitali investiti, alla tecnologia utilizzata, ai
profitti ricavati’. Allo stesso modo la nascita di Carbonia che,
se ha contribuito ‘a integrare ancor più l’economia
dell’isola nel sistema economico nazionale’ non ha aperto ‘tuttavia
strade certe per accelerare lo sviluppo di un sistema
economico così fortemente arretrato’. Perché, nel tempo del
fascismo, ‘lo sfruttamento del carbone Sulcis, se consentì di
assorbire gran parte della manodopera disoccupata, non servì
tuttavia a creare le premesse di quel processo di
industrializzazione che aveva rappresentato la speranza di coloro i
quali con maggiore impegno, nei decenni precedenti, si erano
battuti per la rinascita della loro regione’. Dunque, sempre
’scarsa l’influenza del comparto minerario nello sviluppo
complessivo dell’isola’, secondo l’autore, nello sviluppo di questa
Sardegna cosi scarsamente popolata, 1milione e centomila abitanti
quando sta per scoppiare la Seconda guerra mondiale e, senza
ricambio alcuno di classe dirigente, ancora caratterizzata da
una stratificazione sociale priva di mutamenti significativi. Dove
le attività fondamentali restano agricoltura, pastorizia in
forme, spesso, quanto mai tradizionali, e poi industrie
minerarie e di produzione del cemento e di energia elettrica,
sempre modesto l’apparato burocratico. La maggior parte della
proprietà frazionatissima, la grande proprietà ancora concentrata
in un numero limitato di famiglie, e poi una massa di piccoli e
piccolissimi proprietari e un esercito di braccianti, in condizione
di miseria. Ancora approfondita dallo sciagurato protezionismo dei
dazi doganali di fine Ottocento, che aveva messo in ginocchio
l’intero Meridione d’Italia, esportatore, come la Sardegna, di
prodotti agricoli in Francia. Nè la battaglia del grano, nè
la bonifica integrale, già avviata, come detto, dai
precedenti governi liberali, o la legge del miliardo, avrebbero
potuto risollevarne le sorti, esito di un processo
lungo, che risale alla costruzione dello Stato unitario nazionale,
quando le differenze tra Nord e Sud si approfondiscono, piuttosto
che attenuarsi. ‘La borghesia settentrionale, dice
Gramsci, ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le
ha ridotte a colonie di sfruttamento…. le masse contadine
meridionali asservite alla banca e all’industrialismo
parassitario del Settentrione’, perciò, da un lato, ‘il
mezzogiorno la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi
allo sviluppo dell’Italia’, dall’altro lo Stato che continua ‘a
rastrellare gli ultimi risparmi del meridione’, compresi quelli
provenienti dalle rimesse degli emigrati, fuggiti in massa dalla
povertà dei loro paesi. Si applica alla Sardegna del
tempo del fascismo l’analisi gramsciana, un’economia
arretrata e ‘di scarse risorse finanziarie’, nonostante la
propaganda sulla modernizzazione e la politica dei lavori pubblici,
‘il quadro ancora determinato dalla povertà e dall’arretratezza
dell’immenso mondo delle campagne’, come fa notare lo stesso
Girolamo Sotgiu. Il fatto è che, per dirla con Giorgio Candeloro,
il processo di modernizzazione indubbiamente ci fu durante il
fascismo, ma ’si accompagnò a una notevole accentuazione degli
squilibri sia settoriali che territoriali. Aggravandosi, questi
ultimi, sopratutto per quanto riguarda il contrasto tra il Nord e
il Sud, nel campo agricolo, dove ebbe risultati parziali il
progetto di bonifica integrale, ma anche la battaglia del
grano, attuata in un periodo di diminuzione mondiale dei
prezzi delle derrate, e del grano in particolare, che ebbe
effetti negativi sul valore reale complessivo della produzione
agricola’.
In tale contesto, Carbonia sembra far parte di quella ‘politica
fascista delle zone industriali’, così ben descritta da
Ernesto Rossi, che ‘faceva sorgere miracolosamente grandi
stabilimenti industriali nelle lande più desolate, dove gli
imprenditori per loro conto non avrebbero mai pensato a
costruirli, e così il regime acquistava diritto alla
gratitudine della popolazione del luogo, mentre chi ne pagava
le spese non sapeva riconoscere in quella politica una causa
delle maggiori imposte e dell’aumento nei prezzi dei generi
di consumo.[…] Furono così costituiti, per la gran parte con i
quattrini dei contribuenti, molti stabilimenti industriali in
località non adatte, per le difficoltà degli approvvigionamenti, o
per la lontananza dei mercati di consumo, o per la deficienza di
manodopera qualificata, o per la cattiva qualità delle materie
prime disponibili sul posto’. Così Ernesto Rossi sull’industria
italiana, così Giorgio Candeloro, ‘artificioso accrescimento di
produzioni determinate dalla politica autarchica’, così
Ignazio Delogu, ‘imprevidenza, incapacità, corruzione, cinismo
hanno condotto l’operazione carbone, votata, in spregio di ogni
considerazione realistica delle sue vere possibilità economiche e
con una fretta che rasenta e supera l’irresponsabilità, al
fallimento totale’.
References
- ^ I° settembre (www.democraziaoggi.it)
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A.P.
Ecco la notizia. Stop al trasporto di passeggeri verso la
Sardegna. Il ministero dei Trasporti dopo l’appello[1]
del presidente della Regione, Christian Solinas, ha disposto la
sospensione dei collegamenti aerei e navali per il trasporto
passeggeri da e per la Sardegna. Il decreto firmato dalla ministra
Paola De Micheli, già operativo e valido fino al 25
marzo, permette soltanto i voli tra Roma Fiumicino e Cagliari,
mentre sulle navi potranno viaggiare solo le merci. Attenzione,
però, il trasporto delle persone su traghetti e velivoli può
avvenire soltanto su autorizzazione della Regione e per dimostrate
e improrogabili esigenze. Il Ministero ha giustificato la decisione
“per contrastare il diffondersi del Covid-19 in Sardegna, in
relazione anche alla particolare situazione dell’organizzazione
sanitaria della stessa Regione”.
Data, l’eccezionalità della situazione, c’è tuttavia un quesito
interpretativo che Solinas dovrà sciogliere. Che ne è di quanti
sono allegramente venuti in Sardegna dopo l’inizio dell’epidemia?
Beninteso di quanti sono sbarcati al solo fine di sollazzarsi ed
hanno invaso fino ai giorni scorsi le spiagge, rese più suggestive
dal fatto che sono quasi deserte, anche perché noi sardi ce ne
stiamo, ubbidienti alle regole, a casa: cioè eseguiamo
l’appello “stiamo a casa!”.
Ora, è evidente che chi è venuto dal “continente”, sardo o no, deve
stare in quarantena per 14 giorni. Ma, finita, la quarantena, chi
non è residente nell’isola e non è qui per lavoro o altra causa
consentita dal decreto Conte, a che titolo sta qui? Può farlo,
richiamando il decreto ministeriale che limita gli spostamenti
dalla Sardegna? O deve chiedere l’autorizzazione a Solinas? E
Solinas deve autorizzare la permanenza o consentire o, addirittura,
disporre il rientro nelle rispettive residenze in base al decreto
Conte? Costituisce questo uno dei casi in cui, in base al combinato
disposto dei decreti del Presidente del Coniglio e del Ministro dei
Trasporti, Solinas può o, addirittura, deve ordinare il rientro
nella residenza della penisola?
Ci son regioni, dalla Toscana al Trentino, che hanno invitato i non
residenti a rientrare nelle loro città. C’è la preoccupazione
legata alle debolezze del rispettivo sistema sanitario regionale, e
ai gravi oneri che tutta l’amministrazione ha di dover provvedere
non solo per i residenti, ma per un numero di gran lunga superiore
di persone, esterne al sistema sanitario e alla rete comunale e
regionale. E c’è anche una non immotivata indignazione verso
cittadini, che, mentre tutti stiamo buoni a casa, si comportano in
modo, a dir poco, indisciplinato. Comunque, quid
juris?, come dicono i giuristi. Come deve sbrogliare la
matassa Solinas? Aggiungo un elemento per risolvere il rebus: in
una gerarchia fra decreti, direi che il DPCM (decreto del
Presidente) prevale su un semplice D.M. (decreto ministeriale), il
che dispiega effetti anche nell’intepretazione e applicazione.
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Andrea Pubusa
Come al solito, c’è in giro un po’ di gente che rivela nelle
occasioni topiche, la sua piccineria. Cosa può dirsi, se non
questo, per quei continentali che si sono riversati nelle loro
seconde case in Sardegna. A Villasimius pare mille, a Calasetta non
si sa quanti e così via. Mossi dal loro egoismo, vengono in un
luogo poco colpito dal coronavirus, e però anche con poche
strutture (ah! i 150 milioni al Mater Olbia!).
Ora, credo che questo comportamento non possa essere tollerato,
perché va contro quello spirito di solidarietà e rispetto delle
persone che informa la nostra Costituzione fin dai primi articoli.
Si può fare qualcosa per reimbarcali, ossia per reprimere una
condotta e ancor prima un’istinto animalesco, antisolidale?
Intanto ribadiamo che l’art. 16 Cost. ammette le limitazioni della
libertà di circolazione e soggiorno con misure generali per motivi
di sanità e di sicurezza pubblica. Art.
16. “Ogni cittadino può circolare e
soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio
nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via
generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione
può essere determinata da ragioni politiche“.
Quindi una limitazione per motivi di sanità e sicurezza dei sardi
può essere adottata. I decreti del presidente Conte si fondano, per
l’appunto, sull’art. 16.
Si potrebbe obiettare però che un ordine di Solinas nel senso
indicato non supererebbe il limite del carattere generale (in via
generale) perché riguarda soltanto i non residenti nell’isola.
Ma non è così. La generalità delle restrizioni nell’art. 16 è
riferito ai luoghi, ossia la limitazione deve prendere in
considerazione, non le persone, ma una circoscrizione territoriale
(il comune, la provincia o la regione) interessata. Nel caso dei
continentali furbacchioni si deve disporre che in Sardegna possono
stare, per le note ragioni sanitarie e d’incolumità degli isolani,
soltanto coloro che risiedono stabilmente da noi, non gli
altri.
Solinas dovrebbe dunque procedere a reimbarcarli immediatamente,
anche perché le nostre strutture sanitarie non sono in grado di
curare neanche i sardi ove, malauguratamente, il coronavirus si
dovesse estendere.
A ben vedere Solinas deve solo dichiarare, esplicitare un ordine
già contenuto nel decreto Conte. In questo si stabilisce che ognuno
deve stare in casa propria, se non per i casi eccezionali
espressamente previsti, nei quali non è contemplata la paura, la
furbizia e tantomeno la coglioneria. Il decreto Conte già vieta lo
spostamento dalla propria residenza effettiva (abitazione abituale)
al di fuori dei casi ammessi (far la spesa, recarsi al lavoro
etc.), e venire dal “continente” nella casa al mare o in albergo o
in affitto, per allontanarsi dalle zone più critiche, non rientra
fra queste, anzi le viola palesemente. Del resto neanche noi sardi
possiamo spostarci nella nostra casa al mare o in campagna.
Anche perché se non si interviene e se la situazione (Dio non
voglia!) peggiorasse, in molti piccoli centri, dove tutti si
conoscono, potrebbero rispolverare un vecchio indirizzo proprio
della antica scuola pedagogica sulcitana. Così, ad esempio, mi
segnalava un amico del mio paese che una coppia di continentali che
si sono presentati, con aria furbesca e di chi la sa lunga, per le
vie di un paesino sulcitano, sono stati presi a male parole e, lui,
ha subito anche la vecchia sanzione prevista da una norma
consuetudinaria: ai prepotenti e ai furbi una “card’e
corpus“! Un bel po’ di botte …proporzionate, s’intende,
all’entità dell’arroganza del reo! Insomma, fuori dallo scherzo,
potrebbero sorgere problemi d’ordine pubblico.
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Amsicora
Cari continentali che siete venuti nella nostra isola ospitale
in vacanza-virus o virus-vacanza, a voi è destinato questo
scritterello, apparentemente pungente, in realtà amichevole.
Credetemi non possono, per mia natura e per la mia fede
democratica, essere contro di voi, ma la vostra condotta non è
accettabile. E allora? Allora, in Toscana il presidente ha fatto
un’ordinanza per indurvi a tornare a casa, io, da sardo, a voi
applicherei la Carta de Logu della nostra amata giudicessa
Eleonora. La Carta de Logu? Cos’è mai?, direte voi, convinti che
qui si sia vissuto come nella giungla fino a poco tempo fa? La
Carta de Logu è un codice in lingua sarda del Giudicato
d’Arborea[1], che fu promulgata,
nella sua prima versione, da Mariano IV
d’Arborea[2], poi aggiornata ed
ampliata dai figli Ugone
III[3] ed Eleonora[4]
verso la fine nel XIV secolo; è rimasta in vigore fino a quando
venne sostituita dal Codice feliciano, del massacratore di patrioti
sardi e non solo, Carlo Felice, nel 1827.
Voi obietterete, ma a quei tempi i virus e la loro diffusione non
erano conosciuti, ergo Eleonora nulla poteva dire sul
caso. Sì, questo è vero. Ma il codice di Eleonora si può
attualizzare. Interpretazione storico-evolutiva? Certo, un po’
forzata, ma ci provo. Siccome allora i virus non erano conosciuti,
si può interpolare l’art. V, che punisce l’avvelenamento,
ossia si occupa di colui che provoca la morte o l’infermità di una
persona, uomo o donna, mediante la somministrazione di sostanze
tossiche o di un veleno. “De chi darit, ovver fagherit dari ad
alcuna persona tossigu, ovvero venenu“, questa la rubrica
dell’articolo. In fondo chi, come voi, dal nord Italia viene da noi
senza motivo valido, lavorativo o altro, e si trattiene in
violazione del decreto Conte, sa che può infettare altri sardi,
diffondere l’epidemia, uccidere o far del male a uno o più sardi,
all’intera natzione sardesca. Ma chissene… avete pensato
voi, furboni, nel prendere la nave o l’aereo per scappare da noi. E
allora, continentali di tutto il settentrione e di tutte le
bandiere, che, a ben vedere, siete venuti qui in combriccola, con
provviste, auto e caravan, manifestando poco rispetto e un non
molto celato razzismo, come i sabaudi dei tempi di Giommaria che
consideravano i noostri avi “sardi molentis“,
somari, ecco a voi dico, solennemente, cosa prevede per i
malfattori come voi il più longevo codice del mondo, un monumeto
alla civiltà giuridica, la Carta de Logu della nostra
amata giudicessa Eleonora.
Cosa sanciva, dunque, per gente come voi la Carta? E’ molto
semplice e chiaro: se l’infettato muore, chi ha propagato il virus
“si est homini cussu, chi hadi fattu su dittu mali, siat
infurcadu, ch’indi morgiat; e si esserit femmina sia arsida, e non
campit pro dinari alcunu“. Traduzione per lumbard e
dintorni: “s’è uomo quegli, che ha fatto detto male, sia
inforcato, che ne muoja, e se fosse donna sia arsa, e non campi per
danaro alcuno“. Quindi, attenti!, nessuna conversione in pena
pecuniaria: forca per voi maschi, rogo per voi femmine.
E se l’infettato non muore? “E se colui, a chi se gli desse
detto tossico, ovvero veleno, non ne morisse, nè ne avesse
mancamento nella persona, siagli tagliata la mano destra, e
per danaro alcuno non iscampi, che non gli sia tagliata“;
testo originale: “siat illi segada sa manu destra, e pro dinari
alcunu non campit chi nolli siat segada“.
E i complici, ossia l’allegra brigata di famigliari o amici,
amiche, amanti e simili scesi festosamente insieme a voi in
terra sarda? “Et in su simili siat condennadu cussu, chi
si accattarit in culpa, et in consentimentu di tali casu…“.
“E nel simil modo sia condannato quegli, che si trovasse in
colpa, ed in consentimento di tal caso“.
Non basta, amici e amiche scesi chiassosameente dal Nord. Ci sono
anche i danni? Certo, Eleonora ha pensato a ogni cosa. “E
intendesi, che quegli che avrà commesso detto maleficio, paghi, e
pagar debba le spese, mancamenti, danni, ed interessi, che avrà
avuto, ed incorso colui a chi fosse dato quel veleno“. E come
stabilire il risarcimento? Niente paura donna Eleonora ha pensato
anche a questo. Consulenza tecnica d’ufficio! Per stabilire le
spese per medici e medicine ed altre cure necessarie sarà nominato
un collegio tecnico, precisamente il danno sarà quantificato “a
provvisione de duos o tre bonos hominis elettos per sa
Corti“.
Amici e amiche settentrionali calati con sentimenti negativi,
sentite a me: finché siete in tempo, torrei de abui seis
benius, tornate donde siete venuti. Chiedervi di chiedere
scusa, capisco che è troppo! Per il resto, amici come prima.
References
- ^ Giudicato d'Arborea (it.wikipedia.org)
- ^ Mariano IV d'Arborea (it.wikipedia.org)
- ^ Ugone III (it.wikipedia.org)
- ^ Eleonora d'Arborea (it.wikipedia.org)
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Giulio Lobina
In ginocchio stanno i siriani. Che hanno perso la casa, i figli,
i genitori, i nonni, i sogni, la terra. Non noi. Noi abbiamo una
casa.
Dobbiamo semplicemente starci. Abbiamo una casa e un lavoro, o un
reddito di cittadinanza. E, ancora mamma, babbo, fratelli, sorelle,
amici, spose. Chi è fortunato.
In ginocchio sta chi per un tampone spende 1400 dollari, non
noi.
In ginocchio sta chi muore di denutrizione e di morbillo, non
noi.
Noi perdiamo per un periodo che finirà aperitivi e stadi. La
socialità che “i social” si sono già mangiati dentro telefonini nei
quali leggiamo costantemente bufale contro gli africani create
dalle destre xenofobe che oggi stanno mute perché comprendono il
significato della “fuga” dalle epidemie, del divieto di attracco di
una Nave da crociera (non di un barcone), dello stare confinati in
un territorio dove si ha paura.
Mancherà, l’andare a scuola, a teatro, in palestra, al mare, in
piazza, chiesa, strada, ristorante, a passeggio…eccome se mancherà
tutto questo perché siamo nati per vivere con le persone, d’ogni
Paese e d’ogni colore. Senza muri. I confini noi non li vogliamo
nemmeno fino al 3 aprile, immaginiamoci se potremo mai vivere in un
mondo chiuso.
Siamo nati per abbracciarci e per baciare. Per camminare insieme,
mano nella mano.
Oggi ci fermiamo. Tutta l’Italia si ferma. Rallenta. Ma no, non
siamo in ginocchio.
In ginocchio sta chi, per la nostra ignoranza e superficialità
viene contagiato e non ha anticorpi per proteggersi.
In ginocchio sta chi, non ha scelta.
Noi scegliamo ogni giorno
di non contagiare,
di non gravare sulla Sanità,
di rispettare il lavoro dei Medici e di tutti gli operatori
sanitari,
delle forze di polizia,
di chiunque incessantemente collabora per preservare la vita.
Possiamo comportarci civilmente a lavoro e a casa. Perché siamo in
grado di scegliere come comportarci. Perché ci laviamo le mani con
acqua potabile, perché possiamo contattare il nostro medico, perché
possiamo andare a lavoro con una autocertificazione o stare a casa
finché è necessario per scongiurare una pandemia.
Morire “con il Coronavirus” è sempre morire. Un nonno ha un nome e
un cognome, non è un “immuno-depresso”. Non esistono vite di serie
B. Esistono comportamenti virtuosi che possono salvare molte
vite.
Io ho ancora una nonna e no, non posso nè baciarla nè abbracciarla
ora perché voglio continuare a credere che ci sarà un domani in cui
potrò farlo.
Siamo sardi. E proprio noi dobbiamo essere come i pastori, che mai
ho visto correre. Signori della campagna. Sanno attendere il
tramonto. La pioggia. Il vento. Lenti si godono i colori e i
profumi mentre tutto corre. Eppure lenti germogliano i fiori. Nove
sono i mesi in cui stiamo dentro la pancia di mamma.
Siamo educati alla lentezza. Lento è il lavoro di uno scultore, di
un pittore, di un chirurgo, di un maestro. Lenta è bellezza, il
respiro sereno, il sospiro.
Lento il passo dei pastori che s’accontentano di poco nei racconti
degli anziani vicino al fuoco, con un pezzo di pane, di formaggio e
dell’acqua.
In ginocchio stanno i siriani, al confine con la Grecia. Scarcerati
dalla Turchia. A piedi oltre i confini. Soli. Orfani di padri e di
figli, di madri e di figlie.
Noi dobbiamo solo smettere di correre e iniziare a camminare.
In piedi e speriamo, presto, di nuovo a testa alta.