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Andrea Pubusa
Vito Biolchini, con la sua solita acutezza, nel suo bel
blog[1] richiama l’attenzione su
una delibera della giunta regionale. Per rispettare il decreto
Conte e per “garantire il mantenimento dei servizi essenziali
di cura e di assistenza alla popolazione sarda e di tutelare, al
contempo, gli stessi operatori, i pazienti e i familiari degli
operatori”, la giunta Solinas lo scorso 17 marzo ha adottato
una delibera (la 13/24[2]) con la quale
innanzitutto si fissano in maniera precisa di quali protezioni
devono essere adottati dagli operatori sanitari in tutti i contesti
possibili (ecco l’allegato
con le tabelle[3]).
Ma il punto incandescente è un altro. Eccolo. “Considerato che
agli operatori in argomento (asintomatici e con tampone negativo) è
richiesta la prosecuzione dell’attività lavorativa, sebbene con le
cautele e le precauzioni riportate dettagliatamente nell’allegato
alla presente deliberazione, al fine della maggiore tutela della
popolazione generale e in particolare dei familiari, le direzioni
sanitarie aziendali, in collaborazione con le direzioni di presidio
ospedaliero, potranno allestire dei moduli abitativi in spazi
attigui alle strutture ospedaliere o dedicare allo scopo porzioni
degli stabilimenti ospedalieri, atti ad ospitare i predetti
operatori”.
Vito si chiede se son stati sentiti i sindacati
e la domanda mi sembra sacrosanta, come mi pare ovvia la risposta:
la concertazione è doverosa. D’accordo con Vito, su questo
punto.
E che dire sul merito? E cioè, è utile ai fini del contenimento
della pandemia prevedere che il personale sanitario rimanga in una
sorta di quarantena ospedaliera? Certo, quanto sta avvenendo in
Sardegna ha dell’incredibile. E’ paradossale che nella nostra isola
la maggior parte degli infetti venga dagli ospedali. All’ospedale
ci si dovrebbe curare e invece si prende il virus! Qui c’è una
questione organizzativa ineludibile. Questi esiti assurdi sono il
frutto di un deficit organizzativi gravi. Una struttura sanitaria
deve avere dirigenti e mezzi all’altezza di queste evenienze. A
Sassari e a Nuoro c’è stata la prova clamorosa di una grave
carenza. E su questi aspetti la giunta dovrebbe correre ai ripari
sulla base delle indicazioni di esperti di sicuro affidamaneto.
Altro che tentare di chiuderee la bocca a chi mette in luce le
criticità! Ma Solinas, fresco di laurea in Giuiriprudenza, ha mai
letto l’art. 21 Cost.? Lo legga così evita quantomeno di fare
brutte figure e di dedicarsi a quanto gli compete. I suoi sproloqui
sul tema sono vani e ridicoli.
E’ anche chiaro, per quanto se ne può capire, che questo personale
sanitario, nei casi in cui non presenta sintomi, può difondere in
modo esponenziale l’infezione. Neutralizzare questo possibile
focolaio non è insensato. Del resto, credo che gli stessi operatori
sanitari si pongano, con qualche angoscia e apprensione, il
problema. Ma obbligarli a stare nella struttura sanitaria dopo il
lavoro significa accrescerne lo stress, sminuirne l’operatività e
l’attenizone. Occorre semmai indirizzare a condotte prudenziali
questo personale al loro rientro a casa. Fuori servizio è evidente
ch’essi devono mantenere forme di isolamento e di distanza
superiori a quelle dei comuni mortali. Ma tenerli chiusi in
ospedale anche dopo l’orario di lavoro non giova.
References
- ^ suo bel blog (www.vitobiolchini.it)
- ^ 13/24 (delibere.regione.sardegna.it)
- ^ allegato con le tabelle (delibere.regione.sardegna.it)
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Bocazzu
Amici miei, l’epidemia è antica quanto l’uomo. Si può sfuggire in vario modo. Per scampare dalla peste scoppiata a Firenze nel 1348, ben si sa, dieci giovani decisero di andare in campagna, di soggiornare per due settimane in due residenze nel contado, dove trascorrono il tempo tra balli, canti e il racconto delle novelle. Ogni giornata ha un re o una regina eletti a turno tra i novellatori, che decide il tema delle novelle che dovranno essere raccontate, mentre alla fine viene intonata una ballata e si sceglie il re della giornata seguente. Noi non possiamo andare in campagna nè al mare, non possiamo ballare e cantare insieme. Dobbiamo stare isolati e lontani. Possiamo però narrar novelle e leggere.
Si narra che nel cimitero di Nughelles, che allora stava vicino
alla Chiesa sulla collina, ad un certo punto accadde una cosa
strana. Il paese aveva un fiume e due ponti d’ingresso nel lato
ovest, dove passavano i contadini che avevano le terre e gli
armenti oltre il fiume. Il ponte della parte alta passava davanti
al cimitero, vicino alla chiesa. Dall’altro lato, invece,
proprietari, braccianti e servi pastori potevano rientrare senza
problemi perché non c’era fiume e quindi ponte da attraversare e
sopratutto non c’era il cimitero che di notte fa sempre paura.
Tutto si volgeva serenamente, secondo su connottu,
l’antico modo, finché un bel giorno accadde qualcosa di imprevisto,
il solito tran tran fu interrotto e la novità fu sorprendente e
raccappriccinate per quella gente semplice e timorata di Dio. La
voce si sparse in baleno in ogni casa. Per questa ragione i
contadini presero a non passare da quel ponte dopo il calar del
sole; era il ponte che stava a nord e che attraversva il fiume
proprio all’altezza del cimitero. Al buio preferivano fare un lungo
giro e entrare dal ponte sud, risalendo poi il paese per chi abita
nella parte alta. I morti è meglio lasciarli in pace sopratutto se
decidono di uscire dalle tombe e d’incontrarsi. Infatti la novità è
che nel muro di cinta del cimitero hanno preso a comparire i
fantasmi, anzi, per la precisione, a detta di chi li ha visti, non
tanti ma solo due, ricoperti d’un ampio lenzuolo bianco.
Dicono però che, come d’incanto, i fantasmi comparvero, scomparvero
e poi ricomparvero. E le date delle comparse e delle scomparse non
parvero proprio casuali.
C’erano in quel tempo in Nughelles due giovani, Giuannica e Perdu,
che, a quanto si diceva, si erano innamorati. Una cosa seria.
Lui, insieme a babbo e mamma, l’aveva chiesta in sposa, ma era
unu massaju e lei la figlia de su meri. Il
matrimonio non s’ha da fare, non si può fare. Un bracciante non può
amare una merixedda, una padroncina, e lei non può mare
lui. Così andava il mondo a quei tempi. L’amore non ammetteva
sbilanciamenti: i figli dei padroni con padroncine, i braccianti
con figlie di braccianti e così via. E così i genitori di lei vanno
alla ricerca di un marito all’altezza, di un altro paese però, così
pensano, per lei è più facile dimenticare. E poi il solo parlare di
quel matrimonio mai nato, l’aveva già disonorata, difficile trovare
in paese un buon proprietario da darle in sposo. La ricerc è lunga,
si prendono in considerazione tutte le famiglie della zona e
finamente si trova un possibile sposo a Villmassargia, un
possidente naturalmente. Fidanzamento e sposalizio vengono
concordati in men che si dica, da padre a padre. Giuannica è così
moglie e presto madre. Nascono due figli, uno dopo l’altro. Ne
possono nascere altri. Il suo destino è tracciato, immancabilmente
senza varianti o fantasie.
Anche nel cimitero di Nughelles, come per incanto, tornò finalmente
la pace, tutto diventa tranquillo, niente più rumori, niente più
fantasmi, solo il rumore dell’acqua del fiume, nella notte. I
contadini ripresero a passare nel vecchio ponte anche di notte.
Però ogni tanto ci sono apparizioni di lenzuola bianche, e guarda
caso, solo quando lei, Giuannica, torna in visita dai genitori. Che
l’antica fiamma sia ancor accesa? Le voci - si sa - nei piccoli
paesi corrono e rimbalzano di villa in villa. Saltano i monti.
Giungono anche a Villamassargia e così un bel giorno, Giuannica
torna in paese su un carro a buoi, con la cassa sulcitana
contenente il corredo e senza figli. Così si divorziava in quei
tempi. E così i fantasmi ripresero a comparire nel cimitero vecchio
di Nughelles…Oggi non c’è più il fiume, il ponte e il cimitero e
non ci sono più neanche Giuannica e Perdu.
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Andrea Pubusa
Col Coronavirus torna d’attualità la
questione della costituzionalità dei decreti del presidente dell
Consiglio. Conte dispone limitazioni delle libertà individuali e
collettive con suo decreto. Ma è corretto tutto questo? Non è
esente da dubbi di legittimità costituzionale? E’ un lusso porsi
questi interrogativi nella grave situazione attuale? Pasquino
si domanda se un’emergenza di lunga durata accompagnata dalla
costante presenza di un solo decisore politico, non possa
costituire un pericolo per la democrazia. E osserva:
“cittadini-elettori abituati al fatidico “uomo solo al comando”
potrebbero affidarvisi anche una volta che l’emergenza sia
terminata”. Dal canto suoMarco Olivetti in un articolo
sull’Avvenire dei giorni scorsi evidenzia il rischio di
cadere nello “stato di eccezione”, nella sospensione delle libertà
fondamentali. E mette in luce come lo stato di eccezione sia
sempre presente negli ordinamenti civilizzati, fin dai romani, che
facevano ricorso alla Dittatura “in situazioni di
pericolo per la Repubblica, introducendo in quel caso una figura
giuridica – il dictator, appunto – che per sei mesi sostituiva i
consoli“. In epoca più recente non fu sulla possibilità dello
stato di eccezione che s’infranse la bella Costituzione di
Weimar?
Interrogativi comuni a tanti costituzionalisti da Flick a Pertici,
e (ben
riassunti da Riccardo Mastrorillo)[1]
e una comune considerazione sintetizzata così da Pasquino:
“terminata l’emergenza e sconfitto il coronavirus ci saranno
molte scelte difficili da fare. Si dovrà stilare una scala di
priorità. Risorse scarse dovranno essere motivatamente assegnate a
attività da privilegiare. Non basterà l’autorevolezza di un uomo
solo. Soltanto una società che abbia mantenuto l’attenzione alle
regole, alle procedure, alla necessità di un confronto potrà agire
in maniera soddisfacentemente democratica. Meglio riflettervi già
adesso“. Insomma, senza allarmismi, manteniamo l’occhio vigile
sulla nostra già troppo maltrattata Carta.
Vediamo più in dettaglio la questione. L’assemblea costituente ha
negato la possibilità di dichiarare lo stato d’eccezione nel nostro
ordinamento. Nel corso dei lavori preparatori della Costituzione fu
proposto dall’on. Crispo un articolo secondo il quale
“l’esercizio dei diritti di libertà può essere limitato o
sospeso per necessità di difesa, determinate dal tempo e dallo
stato di guerra, nonché per motivi di ordine pubblico, durante lo
stato d’assedio. Nei casi suddetti le Camere, anche se sciolte,
saranno immediatamente convocate per ratificare o respingere la
proclamazione dello stato d’assedio e i provvedimenti
relativi”. Questo testo, benché accolto dalla Commissione che
aveva predisposto il progetto, non fu mai posto in votazione e non
entrò quindi a far parte della Costituzione: è pertanto
manifestamente inaccettabile la tesi secondo cui esso potrebbe
trovare egualmente applicazione. La Costituzione contiene invece
all’art. 78 la previsione dello stato di guerra esterna, che è
deliberato dalle Camere le quali conferiscono altresì al governo i
poteri necessari. Ne deriva - ha osservato un autorevole
costituzionalista come Alessandro Pizzorusso - che una
dichiarazione di ’stato d’assedio’ avente una portata del tipo di
quelle che si ebbero durante la monarchia costituzionale o di
quelle previste da ordinamenti di altri paesi non è ipotizzabile in
Italia e che le situazioni che potrebbero giustificare
provvedimenti siffatti debbono essere fronteggiate con
provvedimenti ordinari, a cominciare dai decreti legge,
disciplinati dall’art. 77 della Costituzione e dall’art. 15 della
legge del 23 agosto 1988, n. 400, i quali non possono peraltro
derogare alle norme costituzionali che garantiscono i diritti
fondamentali di libertà e la forma di governo attualmente vigente.
E, se merita attenzione la tesi secondo la quale l’art. 78 potrebbe
venir applicato a situazioni di emergenza del tipo di quelle
derivanti da una guerra esterna ma dovute ad altre cause (come oggi
il Coronavirus - n.d.r.) , sembra per contro comunque certa la
competenza del Parlamento ad adottare ogni decisione definitiva in
proposito.
Quindi, si può osservare che se la sospensione delle libertà non è
ammesso in caso di guerra a maggior ragione non lo è in caso di
pandemia.
Il Governo italiano, in questi giorni, ha considerato la situazione
di emergenza generata dal coronavirus come un evento
igienico–sanitario idoneo a far scattare l’apparato della
Protezione civile e ha dichiarato a tal fine lo stato di emergenza
sanitaria. In conseguenza, ha adottato un decreto legge (il n. 6
del 2020), che ha individuato una serie di interventi limitativi
delle libertà e di altri diritti fondamentali e ne ha rimesso
l’attuazione a decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.
In questo quadro, tre dpcm (sigla che, appunto, indica i decreti
del Presidente del Consiglio) si sono susseguiti in pochi giorni,
per far fronte all’emergenza. Manca l’intervento del Parlamento.
Con il sistema attuale il Presidente del Consiglio viene di fatto
abilitato a stabilire quali limitazioni dei diritti fondamentali
possono essere adottate. Uno schema problematico proprio per
l’assenza di una base legislativa.
C’è un’elusione del principio di legalità. Il decreto legge
autorizza limitazioni assai invasive ai diritti fondamentali, ma lo
fa in modo generico, sicché tutte le regole sono delegificate, in
quanto il loro contenuto è rimesso a decreti del Presidente del
Consiglio. Questi ultimi sono sottratti a qualsiasi controllo
preventivo, dato che non sono emanati dal Presidente della
Repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono sottoposti
a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono
soggetti a esame successivo delle Camere. Il Presidente del
Consiglio diventa quindi il temuto “uomo solo al comando”,
abilitato a stabilire effettivamente quali limitazioni dei diritti
fondamentali possono essere adottate. Questo schema appare
costituzionalmente problematico perché il principio di legalità
richiede che tutti gli atti degli organi politici e amministrativi
abbiano un loro fondamento specifico nella legge, espressione della
rappresentanza parlamentare. Occorre, dunque, che la strumentazione
per le situazioni emergenziali coniughi le esigenze di efficacia
con soluzioni procedurali più compatibili con la struttura
costituzionale italiana. Per esempio una legge che dichiari
l’emergenza igienico sanitaria e indichi precisi principi e
direttive al governo, sul modello del decreto legislativo.
Per l’attuazione di interventi di emergenza si assume a riferimento
la legge sulla protezione civile (n. 225/1992). Ma anche questa è
problematica. Essa ammette che si provveda “anche a mezzo di
ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto
dei princìpi generali dell’ordinamento giuridico”. Tali
ordinanze “devono contenere l’indicazione delle principali
norme a cui si intende derogare e devono essere motivate.”
Esse, infine, “sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana, nonché trasmesse ai sindaci interessati
affinché vengano pubblicate” nell’albo pretorio dei
comuni.
Come si vede, colpisce anzitutto il potere di deroga delle leggi
sulla base di atti amministrativi. Le legge che prevede queste
ordinanze, infatti, non contiene e non può contenere principi
specifici sulla situazione che non è in atto nè è prevedibile nelle
sue caratteristiche. Viene violato, dunque, il principio di
legalità, che - si ripete - richiede vincoli legislativi specifici
e puntuali. Tuttavia, si deve subito considerare che le
“ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente” “devono
essere adottate “nel rispetto dei princìpi generali
dell’ordinamento” e, dunque anzitutto dei principi
costituzionali. E fra questi ci sono i diritti fondamentali, le
prerogative del parlamento e c’è anche quello di autonomia. Dei
diritti e delle prerogative del parlamento vale quanto già detto.
La deroga con atto di governo che s’imponga anche alle autonomie
significa che queste, dichiarato lo stato d’emergenza, non
esistono. Non vi sembra troppo? Qui la deroga non è alle leggi, ma
alla Costituzione e allo Statuto speciale (che è legge
costituzionale). Questo non è ammissibile e non è detto nella legge
225/92. Non a caso di solito si precisa che le ordinanze in deroga
devono essere assunte “d’intesa col Presidente della Regione”. E
dunque quest’ultimo che deve farsi garante del rispetto della
autonomia e della legge regionale e non deve dare l’intesa ove
questa glielo vieti.
Discutere di questi temi oggi - come hanno detto tanti, da Pasquino
a Flick - può apparire un lusso. Ma attenzione a non fuoriuscire
dai binari della legittimità costituzionale e della legalità perché
si scade, senza accorgercene, alle “vie di fatto“, ossia
si fuoriesce dalla legalità. Ed allora, attenzione, un potere che
si esprime con le vie di fatto è sempre abusivo e
pericoloso. Siamo fuori dallo Stato di diritto e dalle garanzie che
esso ci offre. Oggi lo si fa per il coronavirus, domani chissà… E
poi oggi c’è Conte, democraticamente affidabile, domani chissà! Con
certi personaggi in circolazione non c’è da star tranquilli!…Vien
da preferire il rischio del contagio! Su queste questioni non
c’è spazio per disattenzioni o pigrizie: dobbiamo essere
esigenti.
References
- ^ (ben riassunti da Riccardo Mastrorillo) (critlib.it)
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Amsicora
Squilla il telefono. Minchia, è Bruno! Quel compagno che l’altro
giorno mi ha detto che evocare Eleonora o Dante per sanzionare
i continentali che hanno pensato di farsi una bella vacanza nelle
nostre spiagge è antistorico. Uffa! Cosa vorrà ora? Sto leggendo i
giornali… “Pronto, Bruno!” “Come va?“, risponde
lui. Dopo gli immacabili “bene, ma ai domiciliari“,
“potrebbe andar peggio” oppure “non ci possiamo
riunire neanche all’Anpi”, “non ho neanche un cane per
saltare fuori di casa tranquillo…” e simili, mi dice a
bruciapelo: “Secondo te, come mai al Nord il coronavirus
impazza?“. “Che ne so“, faccio io, “non sono un
esperto e sono molto preoccupato“. E lui, secco: “ci vuole
poco a capirlo“. “Beato te!, boh, ho la sensazione che non
ne capisca niente nessuno“. E lui, didattico: “Come mai in
Cina non ci sono più infetti“. “Beh, lì hanno bloccato
ermeticamente tutto e tutti, il virus lo hanno isolato e
paralizzato“. “E allora?“, prosegue lui, col tono che
si usa coi bambini scemi. “Senti, Bruno, non so cosa
risponderti, ti ho già detto che la situazione mi
preoccupa, mi sembra sfuggita di mano“. E, per svincolarmi,
gli giro la domanda: “e tu come lo spieghi?“.
“Semplice - fa lui, sicuro - i cinesi hanno seguito le
istruzioni in modo ferreo e si sono bloccati. I lombardi, i veneti,
gli emiliani e un po’ i piemontesi se ne sono fregati. Secondo loro
le disgrazie toccano agli altri, a quegli sfigati e pelandroni di
meridionali. Ai nordici, che sono il meglio di tutti, non può
succedere nulla. Questo hanno pensato. E così hanno continuato a
girare e farsi i fine settimana alle montagne o al mare e a
spargere e prendere il virus da ogni parte. Hai capito perché
Fontana si è incazzato? Perché finalmente ha capito che i suoi
corregionali sono un po’ callonis“, sono
indisciplinati. “E sì forse - bofonchio - è
come dici tu, con lo stesso spirito sono scesi in massa nelle
seconde case al sud e in Sardegna“. Mai l’avessi detto! Ecco
che torna sull’argomento: “Beh, Amsicora, hai pensato a
un’altra sanzione applicabile a questi egoisti presuntuosi? Una
pena tutta sarda, s’intende“. Ahimè!, in effetti non ci ho
rifllettuto e cerco di scansare: “con tutto quello che sta
succedendo al nord, ti sembra che dobbiamo continuare a pensare a
queste cose? Sarebbe meglio lasciar perdere, in fondo stanno già
pagando duramente, poveracci…“. Ma Bruno insiste:
“buttiamola sul culturale, tanto tempo ne abbiamo“. In
fondo ha ragione, tempo per cazzeggiare ne abbiamo. Bisogna pur
alleggerire la mente! E così, lì per lì, mi viene una pensata
e gliela comunico, tra la proposta e la domanda: “si potrebbe
applicare l’ordinamento barbaricino“. E Bruno: “beh siamo
sempre un po’ a su connottu, ma già va meglio“. Meno
male, penso fra me e me, gli propino due cosette con aria
professorale e torno a leggermi i giornali. Ma ora viene il bello
devo declinargli sui due piedi l’applicazione delle regole
dell’ordinamento barbaricino alla fattispecie. Con tono
trionfaistico: “Vendetta, caro Bruno, niente di più, ma niente
di meno che vendetta“. E gli sciorino i fondamentali.
Per il barbaricino è un dovere, se non si vendica, una volta
offeso, non è uomo, risulta inaffidabile alla sua comunità, alla
sua famiglia, infedele al suo stesso sangue, alle sue amicizie, a
tutte le fondamentali ragioni della sua stessa esistenza, non è un
balente, non è capace di farsi valere, est unu
remitanu, un miserabile, un uomo privo di onore. Per questa
sua debolezza non merita rispetto, può essere offeso. Può essere
oggetto di satira sociale, di stalking, diremmo oggi. Se non vuole
lui una sanzione sociale così severa, deve disporsi a lanciarsi
contro il nemico “a su inimigu parare“, è un portato
di una legge morale dei sardi.
Bruno sembra interessato e compiaciuto, sto toccando le sue corde
con questo richiamo identitario, e chiede, curioso: “e in cosa
consisterebbe in questo caso la vendetta?”. E io con
tono sacente: “Beh, la vendetta dev’essere proporzionata e
prudente. La sanzione non deve arrecare un danno maggiore, ma
analogo a quello fatto”. “Bene“, dice Bruno, “mi
piace, risponde al senso di giustizia dei sardi. E allora come li
puniamo? Come bilanciamo severità e prudenza?“. Ed io con aria
sentenziosa: “loro son venuti dae su mare, senza
mettere in conto che potevano infettarci; hanno egoisticamente
pensato solo a se stessi, individualismo allo stato puro, assoluta
mancanza di solidarietà”. “Parole sante, caro Amsicora - dice
Bruno dall’altro capo del filo -, in antico si diceva
“furat su chi benit dae su mare“, oggi mettono a rischio
la nostra salute. E allora come li puniamo alla
sardesca?”. E io riprendo il tono salomonico: “Direi
che la vendetta adeguata è il contrppasso: li assegnamo agli
ospedali sardi dove ci sono infettati, li mandiamo lì a svolgere
funzioni di servizio e di assistenza“. E Bruno, manifestamente
soddisfatto: “Va proprio bene, un bel contrappasso contro il
loro egoismo iniettiamo una bella dose di altruismo, una bella
lezione! Ma in Sardegna siamo pochi gli infettati, molti
virus-vacanzieri rimarranno inutilizzati…“. “Neanche per
sogno! - rispondo pronto - gli altri li mandiamo negli
ospedali del loro Comune di residenza, lo ha detto anche Fontana:
lì serve gente. Che te ne pare?“. “Va benissimo“,
risponde Bruno, entusiasta. Tiro un sospiro di sollievo. Meno male!
Questa storia mi ha già preso molto tempo. Anche se, a pensarci
bene, questi virus-vacanzieri l’han fatta proprio grossa. Con la
loro superficialità e supponenza hanno fatto dilagare il virus in
casa loro e lo hanno esportato anche al sud. Chissà se l’hanno
capito.
A Bruno non l’ho detto: l’offesa dev’essere vendicata, ma c’è
un’eccezione, si può rinunciare per un superiore motivo
morale. E io mi appello a questo. A voi posso confidarlo:
rinuncio.
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Tonino Dessì
Premetto che fin da piccolo, anche poi al liceo classico, sono
sempre stato incuriosito dalle scienze naturali.
Per questo ho sempre ritenuto che una familiarità culturale con le
materie scientifiche non dovrebbe mancare a chiunque svolga
attività nei campi e nelle professioni umanistiche, sociologiche,
economiche.
L’ignoranza dei fondamenti delle scienze della natura da parte
della maggioranza degli intellettuali e dei politici che ho
conosciuto mi ha sempre impressionato negativamente.
Oggi provo molto fastidio verso chi approccia le questioni poste
dall’emergenza epidemica inseguendo sciocchezze esoteriche o
sposando mistificazioni.
Prendiamo la questione dell’immunità di gregge.
Se si lasciasse correre un agente infettivo secondo il suo ciclo
spontaneo, nessuno è in grado di prevedere quante vittime potrebbe
fare prima che i superstiti suscettibili di contagio abbiano
sviluppato spontaneamente le specifiche difese immunitarie.
La peste nella Grecia classica prima dell’era romana e nell’Europa
del XVI e XVII secolo arrivò a mettere in pericolo l’esistenza
stessa di città, nazioni, dell’intera popolazione continentale. Le
malattie infettive portate o scientemente diffuse dai colonizzatori
(pensiamo al vaiolo) distrussero i nativi nelle due Americhe.
L’influenza spagnola del 1919 sterminò un numero che ancora oggi
non si sa valutare nel range fra i cinquanta e i cento milioni di
individui.
Ecco perché c’è poco da scherzare col Covid-19.
All’inizio dell’epidemia si riteneva sulla base di dati
esperienziali che avendo già avuto il nostro organismo contatti con
dei coronavirus, almeno in parte il sistema immunitario avrebbe
dovuto riconoscere il nuovo virus e almeno in parte reagire
attenuandone gli effetti. Oggi non solo sappiamo che non è così, ma
non siamo nemmeno certi che chi guarisca dall’infezione non possa
nuovamente ricaderci.
Sui virus, in particolare, anche la divulgazione scientifica, nel
tentativo di spiegarne le dinamiche, talvolta induce a “umanizzare”
il meccanismo di diffusione di questo organismo-non organismo. Si
legge spesso, infatti, che, quasi come fosse controllato dalla
consapevolezza parassitaria che per poter sopravvivere non dovrebbe
sterminare la totalità dei potenziali ospiti, dopo un determinato
periodo il virus assumerebbe una forma attenuata compatibile con la
sopravvivenza di quantità residue delle specie infettate.
Non è esattamente vero. È vero piuttosto che nell’infinita
replicazione mutagena capita che la virulenza dei ceppi si
annacqui, questo si. Se però nelle specie infettate non si
sviluppassero difese in tutto o almeno in parte efficaci, il virus
proseguirebbe ciecamente a riprodursi, a infettare e ad
ammazzare.
Ecco perché ci troviamo oggi nella necessità di rallentare al
massimo, con misure generalizzate di limitazione dei contatti fra
persone, il ciclo epidemico, riducendone la capacità e la velocità
di diffusione, in attesa del vaccino. Speriamo che arrivi presto,
il vaccino, ma prestissimo non sarà.
Altre due lezioni si ricavano indirettamente da questa vicenda,
l’una non meno importante dell’altra.
Tutti i naturalisti ci dicono che i virus nuovi provengono da un
salto intraspecifico dovuto alla violazione, da parte umana, dei
confini e dell’integrità della natura selvatica. Ecco: forse sarà
ora che la smettiamo di violare le restanti aree naturali del
pianeta. Cosa possa scatenarsi da certi scrigni incontaminati non
lo sa nessuno, ma ormai sappiamo che potrebbe essere micidiale.
L’altra lezione è il vistoso crollo delle emissioni inquinanti in
aria e in acqua dovuto al rallentamento di attività produttive e di
trasporti, prevalentemente alimentate da combustibili fossili.
Addirittura canali lagunari veneziani e fiumi come l’Arno sarebbero
tornati puliti e trasparenti, così come i cieli padani sarebbero
stati ampiamente rischiarati.
Il virus sta dando un segnale di funzione ecologica specifica per
l’uomo, in qualche modo agendo per correggere le condizioni
ambientali a noi nocive che noi stessi abbiamo creato.
Ora, non voglio certo auspicare che il virus (non lo farebbe
coscientemente o per finalità filantropiche, del resto) porti a
termine una radicale attività di bonifica: fermiamolo prima, ma al
resto per il futuro pensiamoci meglio noi.