Riteniamo fi fare cosa utile riportando materiali di riflessione sulla Resistenza da Il Fatto quotidiano
In “Anche i partigiani però…” la storica Chiara Colombini mette in fila tutti i capi d’imputazione che ciclicamente, tra frasi fatte e sentenze un tanto al chilo, vengono riproposti nei confronti di chi partecipò alle battaglie per la Liberazione e li affronta uno per uno. Tra questi quella che sembra una contraddizione, la scelta dell’uso della violenza. La strada? “Per capire quei venti mesi bisogna conoscere ciò che è stato, rivendicarlo per come è stato”
di Diego Pretini[1] | 24 Aprile 2021
25 aprile | Dalla forza militare alla partecipazione: le ultime verità sui partigiani[2]
25 aprile, i principi della Costituzione spiegati ai bambini (in 12 lingue) con giochi e attività. “Un libro anche per chi non è ancora italiano”[3]
25 aprile, il frate ‘resistente’ David Maria Turoldo che organizzò la lotta in convento: “È un modo di essere, dà ragione e concretezza alla fede”[4]
“Oggi le persone benpensanti cambiano
discorso infastidite quando sentono parlar di
antifascismo: e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano
agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir
vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede. I partigiani?
Una forma di banditismo. I comitati di
Liberazione? Un trucco dell’esarchia”. Erano passati solo 18 mesi
dalla Liberazione e nell’ottobre 1946 Piero
Calamandrei puntava il suo consueto cannocchiale
visionario sulla Resistenza che aveva appena dato la democrazia e
la libertà. Da allora, e non da oggi, sulla storia dei partigiani,
quella del riscatto morale contro l’abiezione del
fascismo e del nazismo, si posa ciclicamente una coltre di
frasi fatte,
facilonerie, mistificazioni, sollevate anche dal
vento di libri di successo che durano una stagione. Una patina che
rischia di inspessirsi via via che quei giorni si fanno più
lontani: un brusio di fondo che, ogni volta come se fosse la prima,
millanta “un’altra verità”, “quello che nessuno ha mai avuto il
coraggio di dirvi” e intanto dura da ottant’anni.
Fanatici che volevano fare come in
Russia. Guerriglieri violenti, come gli altri, “i
rossi come i neri”. Oppure bande di cialtroni, inutili perché se
non c’erano gli americani a quest’ora… Anzi no: dissennati
provocatori che si facevano scudo dei civili e che
ai civili facevano pagare il prezzo di sangue
delle loro azioni. Peggio, sterminatori assetati di vendetta: la
Resistenza come un romanzo
criminale. Venti mesi tramandati da un racconto
mitico, cucito su misura, se non proprio contraffatto, perché “la
storia la scrivono i vincitori”.L’ulteriore conferma di questo
lento riproporsi di sentenze un tanto al chilo diventa non
causalmente la cronaca sbalorditiva delle ultime ore. A
Imola una consigliera di Fratelli
d’Italia che si spinge dove ancora mai nessuno: secondo
lei i partigiani lasciarono volontariamente che le SS scatenassero
la loro ferocia bestiale a Sant’Anna di Stazzema e
tornarono sul luogo di una strage in cui erano stati trucidati e
dati alle fiamme anche i bambini per derubare i cadaveri. Ad
Ancona un funzionario del ministero
dell’Istruzione che definisce per iscritto “sogni” i progetti dei
regimi nazista e fascista, forse a causa di un uso inconsapevole
dell’italiano.
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Il messaggio sul 25 aprile pieno di sfondoni del direttore dell’ufficio scolastico delle Marche. E riesce a non scrivere mai la parola “fascismo”[5]
Qual è, allora, la strada per sottrarre la lotta partigiana,
quella scelta eroica di pochi per tutti, al gioco sporco della
politica grossolana e alle insidie che si nascondono dietro gli
appelli per una “memoria condivisa”? “Alla logica che stipa il
discorso pubblico sulla guerra partigiana di crimini e
pagine oscure, non basta reagire con quella uguale
e contraria che contrappone di volta in volta atti
di eroismo e pagine edificanti” perché l’effetto è che
“non si riesce a uscire dalla sensazione di uno squallido pareggio:
1 a 1 e palla al centro”. Al contrario serve “recuperare
complessità, dare profondità storica e
concretezza alla distanza che ci separa da quegli
anni”. E’ la direzione indicata dalla storica Chiara
Colombini in Anche i partigiani però… (Laterza,
collana Fact Checking, 192 pagg., 14 euro), che mette in fila i
principali capi d’imputazione formulati in questi decenni contro la
Resistenza e ci passa attraverso. Non è una difesa d’ufficio né una
difesa e basta: né celebrare né giustificare, sottolinea Colombini,
piuttosto “conoscere ciò che è stato”, “farsene carico”,
“rivendicarlo per come è stato” per svuotare di
senso, smascherare la “volontà di mettere in discussione il
significato storico, politico ed etico” della Resistenza.La
scelta volontaria di rischiare di morire e di uccidere
A partire da quella che viene additata come la più cristallina
delle contraddizioni: i partigiani usano la
violenza. Sparano, ammazzano. Ma come, i “buoni”? “Quel
che non si perdona ai partigiani – spiega Colombini – è non solo di
essersi ribellati al sistema di dominio tedesco e fascista, ma
soprattutto di averlo fatto in armi”. “Io ho sbaragliato tre
battaglioni. Mario Fiorentini, il pacifista: più
pacifista de me non ne trovi ‘n artro” dice uno dei più
noti partigiani romani – Fiorentini appunto – in una delle
testimonianze del Memoriale della Resistenza online. A Fiorentini
viene un mezzo sorriso, autoironico, mentre racconta la sua
decisione di usare le armi. Oggi ha 102 anni, nella vita ha fatto
il matematico, con cattedra all’università. La notte del
rastrellamento nel ghetto di Roma, il 16
ottobre 1943, fuggì attraverso i tetti mentre i nazisti
portavano via da casa i suoi genitori. Fu uno dei protagonisti
dell’attentato al reggimento Bozen in via Rasella, al quale gli
uomini di Hitler risposero con la loro furia decuplicata alle
Fosse Ardeatine. Mario Fiorentini, il
pacifista, fu tra coloro che si trovarono costretti a prendere
le armi, fabbricare ordigni, sbaragliare battaglioni. Sì,
chi diventa partigiano “corre il rischio di essere ucciso e di
trovarsi nella condizione di uccidere”, scrive Colombini, ed è
“tutt’altro che semplice scegliere, senza essere
obbligati, di rischiare di morire e di ammazzare qualcuno”.(Video da noipartigiani.it,
il Memoriale della Resistenza che raccoglie 500 videotestimonianze
di partigiani)[6]La violenza
diffusa e il popolo soldato del Duce
L’Italia in cui si muovono i partigiani è dilaniata da una realtà
di “violenza diffusa”, nella quale un’intera
generazione è nata, si è formata e diventata grande. Il fascismo è
stato al potere per oltre vent’anni e la cultura della
sopraffazione è un suo cardine irrinunciabile: il fascista inteso
da Benito Mussolini è il “cittadino soldato”, di
Credere, obbedire, combattere, ripete spesso lo storico
Emilio Gentile. La guerra voluta dal Duce e da
Hitler espande quel mondo perché è “totale”: è ovunque, punta ad
annientare il Paese nemico, stermina i civili. Usare la violenza
come denominatore comune – e quindi banalizzante – tra partigiani e
repubblichini significa annullare la differenza delle
motivazioni per cui quella violenza veniva usata da una
parte e dall’altra. Quello iniziato l’8 settembre 1943 è “un
conflitto ideologico che spacca la società lungo una linea che non
coincide con i confini nazionali – rileva Colombini -, anzi li
attraversa di sbieco e, all’interno di ciascun Paese, separa
irrimediabilmente due idee di mondo inconciliabili: una
fondata sulla sopraffazione, l’altra sulla libertà”. Per
rimettere in ordine le cose: “Non sono i partigiani a ‘creare’ la
violenza, la accettano come mezzo perché già esiste, è la
condizione in cui si trovano a vivere, provocata dal conflitto e
dall’occupazione”. Di più: la violenza è “ precisamente il cuore
della situazione a cui si ribellano”. La differenza è solo che ora
fascisti e nazisti non ne hanno più il monopolio. “La moralità
della Resistenza consistette anche nella determinazione degli
antifascisti di rifondare l’Italia a costo di spargere
sangue” spiega lo storico Sergio Luzzatto
in La crisi dell’antifascismo (un libro del 2004, a
riprova del ritorno circolare delle stesse obiezioni e delle stesse
risposte). Leggi Anche
Le bufale del fascismo: pensioni, bonifiche, case, stipendi. Le cose buone che Mussolini non ha mai fatto[7]
Il sangue delle stragi nazifasciste
Eppure, in questo continuo tentativo di (pretendere di) raccontare
“la vera verità”, succede che con un paradosso
fraudolento, perfino il sangue dei civili nelle
stragi compiute dai nazisti –
spesso con la complicità dei fascisti – diventi una prova a carico
delle azioni dei partigiani. Diventano loro i “veri responsabili”
dice Colombini. Diventano l’alibi della ferocia delle truppe di
Hitler e degli ultimi fedelissimi del Duce in fuga. “E’ come se a
questi ultimi – sottolinea la storica nel libro – fosse concessa
una sorta di attenuante”. Come invece dimostrano i
5862 eccidi compiuti da nazisti e fascisti negli ultimi due anni di
guerra (24348 vittime) l’obiettivo delle forze di occupazione è
sempre stato quello di avere il dominio assoluto del territorio. La
bestiale violenza nazista e fascista “esiste non solo perché
esistono i partigiani, ma perché l’occupazione disegna un mondo
senza altra legge che non sia la sopraffazione”. C’è il caso non
isolato della strage del bosco di Limmari, in
Abruzzo: 125 morti ammazzati, senza un solo
partigiano nei dintorni.
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2017 – Stragi naziste, il giudice condanna la Germania a risarcire ma l’Italia sta con Berlino. “Paura di incidenti diplomatici”[8]
Il punto è che per nazisti e fascisti “tutto ciò che si frappone tra gli occupanti e i loro obiettivi è un ostacolo inaccettabile”. Così da paese a paese, da città a città l’interruttore delle stragi cambia: ci sono rastrellamenti, ci sono operazioni di controllo dell’area che si trasformano in bagni di sangue (come a Sant’Anna, come a Monte Sole), ci sono esecuzioni di ebrei. Ci sono le rappresaglie come l’eccidio delle Fosse Ardeatine, su cui Colombini si sofferma a lungo ribadendo giocoforza le falsità alimentate sui gappisti di via Rasella (prima fra tutte quella per cui avrebbero avuto il tempo di consegnarsi al posto degli ostaggi), ricordando che contrastare l’azione dei Gap non è solo un fastidio militare o un punto d’orgoglio per nazisti e fascisti, ma perché è pericolosa perché dimostra che “resistere è possibile, che il nemico non è invulnerabile, che il suo potere non è legittimo”. Ed è per questo che le operazioni dei nazifascisti, in tutta Italia, mirano a “radere al suolo” tutto ciò che trovano sulla strada, compresi i paesi inermi, compresi i vecchi di cent’anni e i bambini appena nati.
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Le ultime verità sui partigiani (di Giovanni De Luna)[9]
Arrendersi o perire, il “sangue dei vinti”
Infine, il “sangue dei vinti”, espressione che sarebbe neutra se
non ponesse tutte le morti di chi era “dalla parte sbagliata” sotto
l’alone del delitto comune, del crimine di strada. Anche i
partigiani, però… ha la forza di una scrittura netta e densa e
smaschera lo schema di gioco dei libri come quelli di Pansa:
“Affastella una miriade di casi agghiaccianti, in cui i partigiani
umiliano, brutalizzano e uccidono persone ormai indifese, come se
vittime e carnefici non avessero un passato, come se tutto
iniziasse di colpo il 25 aprile” scrive Colombini. Le violenze non
ci furono? Figuriamoci: “Si tratta di rifiutare l’abitudine ormai
consolidata di tramutare quei momenti in una sorta di
‘Pagine gialle’ dell’orrore”.L’80 per cento dei
10mila fascisti morti viene ucciso tra l’aprile e il maggio 1945: è
l’insurrezione, la battaglia finale per la Liberazione, l’ora o mai
più, l’arrendersi o perire scandito da Sandro
Pertini. Al punto numero uno c’è mettere al tappeto per
sempre il fascismo: per paura che torni, “per senso di giustizia”
dopo vent’anni di soprusi “e anche per desiderio di vendetta –
precisa Colombini – un sentimento di cui si deve tenere conto a
meno che ci si rifiuti di ragionare in termini di
comportamenti umani”.Il Cln manda circolari
contro eccessi e processi sommari, istituisce
tribunali di guerra. Ma non può controllare l’animo umano: insieme
alla gioia per la libertà, dopo oltre vent’anni di regime,
“esplode la rabbia“. “Irrompe sulla scena la
folla”, come dice Colombini, e “c’è di tutto: la popolazione
atterrita dalle bombe, esasperata dalle privazioni provocate dalla
guerra, terrorizzata a causa delle angherie di nazisti e fascisti,
devastata dai lutti”. Ricorda un partigiano di Genova, citato nel
libro: “C’erano i partigiani del 26 aprile, c’era
la schiuma che in ogni sommovimento di questa portata viene a
galla”. Le violenze che seguono la Liberazione hanno origini tutte
diverse tra loro: c’entra la mancanza di comunicazione tra comandi
che spinge a decidere da soli e in fretta o ancora c’entra quanto è
stata dura l’occupazione negli anni precedenti o ancora c’entrano
le azioni compiute dai nazisti in ritirata. Come può essere una
coincidenza il fatto che i luoghi in cui vengono passati per le
armi i fascisti seguano lo stradario delle esibizioni macabre dei
cadaveri dei partigiani da parte di nazisti e fascisti.
Piazzale Loreto è l’esempio noto a
tutti.La giustizia non giusta, la paura del ritorno del
fascismo
Ma perché le uccisioni dei fascisti continuano oltre il 1945, sia
pure calando? I fattori principali sono tre, secondo Colombini, ma
non solo i soli. Il primo: l’eredità della politica delle armi,
cioè la difficoltà di disinnescare il linguaggio violento della
politica, ancora più comprensibile dopo che per anni le forze
antifasciste hanno chiamato alla ribellione. Ma questo si intreccia
con altri due fenomeni. Da una parte la paura del ritorno del
fascismo, dopo che il suo regime aveva retto per oltre vent’anni il
timore che fosse invincibile. Già subito dopo la guerra, nasce il
Partito fascista democratico, i Fasci
d’azione rivoluzionaria, il Msi a cui si
iscrivono due irriducibili del Duce, Rodolfo
Graziani e Junio Valerio Borghese.
Dall’altra la giustizia non è giusta. I processi
ai fascisti vanno a rilento, i condannati sono pochi, le pene
eseguite solo una parte, a farne le spese sono spesso i pesci
piccoli. Nell’amministrazione pubblica le carriere proseguono
splendenti. La chiamano “continuità dello Stato”. Ha il volto di
Gaetano Azzariti: presidente della
Commissione sulla razza sotto il fascismo,
ministro della Giustizia con Pietro Badoglio nel
primo governo dopo il 25 luglio, presidente della Corte
costituzionale della Repubblica democratica dal 1957. Si
aggiunge l’amnistia di Togliatti che butta fuori
10mila fascisti su 12mila in carcere. Chi deve
pagare, non paga. Spesso i fascisti vengono colpiti al rientro a
casa, dopo la scarcerazione.La realtà del dopo 25 aprile è così
complicata che mentre l’amnistia di Togliatti libera i fascisti, lo
Stato processa i partigiani per le loro azioni. I processi sono
migliaia. Ma dentro ci finiscono anche azioni di guerra: si arriva
a processare chi ha arrestato un collaborazionista per
sequestro di persona. Il 1948 è l’anno in cui
questo processo alla Resistenza entra nel vivo e Colombini ricorda
che è lo stesso anno in cui Graziani, il ministro
della Guerra di Mussolini a Salò, il criminale di guerra, il
macellaio del Fezzan, torna libero.I morti non
fascisti, il caso di don Pessina
Poi, certo, le uccisioni di non fascisti. Secondo
Mirco Dondi, storico che ha
studiato a fondo il post-Liberazione, sono 12 e
riconducibili a cellule indipendenti legate a un partito – il Pci –
che però nel frattempo non solo aveva dato il più grande contributo
alla guerra di liberazione, ma aveva scelto la strada della svolta
di Salerno per dare all’Italia la democrazia e firmerà, con
Umberto Terracini, la Costituzione repubblicana e
liberale. Il filo a un certo punto si ingarbuglia con i vent’anni
di regime appena abbattuto, i due anni di guerra civile, la guerra
fredda appena cominciata. Germano Nicolini,
Diavolo, emiliano di Fabbrico, comandante partigiano,
finisce in carcere da sindaco di Correggio perché accusato di
essere il mandante dell’omicidio di don Umberto
Pessina. L’accusatore principale è Beniamino
Socche, il vescovo di Reggio Emilia. Il Pci sa che il
sindaco è innocente ma è scomodo perché cattolico. Nicolini sarà
riconosciuto innocente dopo quasi 50 anni. “Rimasi in carcere dieci
anni e mi sentivo ancora partigiano che doveva resistere”
racconterà.Eccola l’Italia liberata dal fascismo, uscita dalla
guerra e dalla Liberazione, il sacrificio della violenza. “Solo se
ci si fa carico della fatica di calarsi nella realtà
drammatica che accompagna la fine del conflitto e gli
esordi dell’Italia liberata si riesce a contenere il senso di
disagio che si prova davanti alla brutalità che
allora si scatena. E.d è una fatica necessaria, perché sarebbe
assurdo dimenticare che il nostro presente pacificato – e la
sensibilità che ci accompagna facendoci inorridire di fronte alla
violenza – nasce proprio grazie a quella cesura pagata a
così caro prezzo.