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25 aprile. ANPI Cagliari. Perché arrendersi non è possibile

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By Democrazia Oggi
Democrazia Oggi

← Carbonia. Non è una città libera. La continuità col passato[1]

25 Aprile 2021
Nessun commento[2]


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Per i morti della Resistenza

Poesia di Giuseppe Ungaretti (scheda del poeta[3])
Qui
vivono per sempre
gli occhi che furono chiusi alla luce
perché tutti
li avessero aperti
per sempre
alla luce.

References

  1. ^Carbonia. Non è una città libera. La continuità col passato (www.democraziaoggi.it)
  2. ^Nessun commento (www.democraziaoggi.it)
  3. ^Biografia del poeta Ungaretti (www.isoladellapoesia.com)

Fonte: Democrazia Oggi

25 aprile | Resistenza, la guerra obbligata dei partigiani: come e perché “i buoni” furono costretti a scegliere il rischio di uccidere

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By Democrazia Oggi
Democrazia Oggi

 

Riteniamo fi fare cosa utile riportando materiali di riflessione sulla Resistenza da Il Fatto quotidiano

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In “Anche i partigiani però…” la storica Chiara Colombini mette in fila tutti i capi d’imputazione che ciclicamente, tra frasi fatte e sentenze un tanto al chilo, vengono riproposti nei confronti di chi partecipò alle battaglie per la Liberazione e li affronta uno per uno. Tra questi quella che sembra una contraddizione, la scelta dell’uso della violenza. La strada? “Per capire quei venti mesi bisogna conoscere ciò che è stato, rivendicarlo per come è stato”

 di Diego Pretini[1] | 24 Aprile 2021

 25 aprile | Dalla forza militare alla partecipazione: le ultime verità sui partigiani[2]

  • 25 aprile, i principi della Costituzione spiegati ai bambini (in 12 lingue) con giochi e attività. “Un libro anche per chi non è ancora italiano”
    25 aprile, i principi della Costituzione spiegati ai bambini (in 12 lingue) con giochi e attività. “Un libro anche per chi non è ancora italiano”[3]
  • 25 aprile, il frate ‘resistente’ David Maria Turoldo che organizzò la lotta in convento: “È un modo di essere, dà ragione e concretezza alla fede”
    25 aprile, il frate ‘resistente’ David Maria Turoldo che organizzò la lotta in convento: “È un modo di essere, dà ragione e concretezza alla fede”[4]

 

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image“Oggi le persone benpensanti cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo: e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede. I partigiani? Una forma di banditismo. I comitati di Liberazione? Un trucco dell’esarchia”. Erano passati solo 18 mesi dalla Liberazione e nell’ottobre 1946 Piero Calamandrei puntava il suo consueto cannocchiale visionario sulla Resistenza che aveva appena dato la democrazia e la libertà. Da allora, e non da oggi, sulla storia dei partigiani, quella del riscatto morale contro l’abiezione del fascismo e del nazismo, si posa ciclicamente una coltre di frasi fatte, facilonerie, mistificazioni, sollevate anche dal vento di libri di successo che durano una stagione. Una patina che rischia di inspessirsi via via che quei giorni si fanno più lontani: un brusio di fondo che, ogni volta come se fosse la prima, millanta “un’altra verità”, “quello che nessuno ha mai avuto il coraggio di dirvi” e intanto dura da ottant’anni. Fanatici che volevano fare come in Russia. Guerriglieri violenti, come gli altri, “i rossi come i neri”. Oppure bande di cialtroni, inutili perché se non c’erano gli americani a quest’ora… Anzi no: dissennati provocatori che si facevano scudo dei civili e che ai civili facevano pagare il prezzo di sangue delle loro azioni. Peggio, sterminatori assetati di vendetta: la Resistenza come un romanzo criminale. Venti mesi tramandati da un racconto mitico, cucito su misura, se non proprio contraffatto, perché “la storia la scrivono i vincitori”.L’ulteriore conferma di questo lento riproporsi di sentenze un tanto al chilo diventa non causalmente la cronaca sbalorditiva delle ultime ore. A Imola una consigliera di Fratelli d’Italia che si spinge dove ancora mai nessuno: secondo lei i partigiani lasciarono volontariamente che le SS scatenassero la loro ferocia bestiale a Sant’Anna di Stazzema e tornarono sul luogo di una strage in cui erano stati trucidati e dati alle fiamme anche i bambini per derubare i cadaveri. Ad Ancona un funzionario del ministero dell’Istruzione che definisce per iscritto “sogni” i progetti dei regimi nazista e fascista, forse a causa di un uso inconsapevole dell’italiano.

Il messaggio sul 25 aprile pieno di sfondoni del direttore dell’ufficio scolastico delle Marche. E riesce a non scrivere mai la parola “fascismo”

 

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Il messaggio sul 25 aprile pieno di sfondoni del direttore dell’ufficio scolastico delle Marche. E riesce a non scrivere mai la parola “fascismo”[5]

Qual è, allora, la strada per sottrarre la lotta partigiana, quella scelta eroica di pochi per tutti, al gioco sporco della politica grossolana e alle insidie che si nascondono dietro gli appelli per una “memoria condivisa”? “Alla logica che stipa il discorso pubblico sulla guerra partigiana di crimini e pagine oscure, non basta reagire con quella uguale e contraria che contrappone di volta in volta atti di eroismo e pagine edificanti” perché l’effetto è che “non si riesce a uscire dalla sensazione di uno squallido pareggio: 1 a 1 e palla al centro”. Al contrario serve “recuperare complessità, dare profondità storica e concretezza alla distanza che ci separa da quegli anni”. E’ la direzione indicata dalla storica Chiara Colombini in Anche i partigiani però… (Laterza, collana Fact Checking, 192 pagg., 14 euro), che mette in fila i principali capi d’imputazione formulati in questi decenni contro la Resistenza e ci passa attraverso. Non è una difesa d’ufficio né una difesa e basta: né celebrare né giustificare, sottolinea Colombini, piuttosto “conoscere ciò che è stato”, “farsene carico”, “rivendicarlo per come è stato” per svuotare di senso, smascherare la “volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico” della Resistenza.La scelta volontaria di rischiare di morire e di uccidere
A partire da quella che viene additata come la più cristallina delle contraddizioni: i partigiani usano la violenza. Sparano, ammazzano. Ma come, i “buoni”? “Quel che non si perdona ai partigiani – spiega Colombini – è non solo di essersi ribellati al sistema di dominio tedesco e fascista, ma soprattutto di averlo fatto in armi”. “Io ho sbaragliato tre battaglioni. Mario Fiorentini, il pacifista: più pacifista de me non ne trovi ‘n artro” dice uno dei più noti partigiani romani – Fiorentini appunto – in una delle testimonianze del Memoriale della Resistenza online. A Fiorentini viene un mezzo sorriso, autoironico, mentre racconta la sua decisione di usare le armi. Oggi ha 102 anni, nella vita ha fatto il matematico, con cattedra all’università. La notte del rastrellamento nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, fuggì attraverso i tetti mentre i nazisti portavano via da casa i suoi genitori. Fu uno dei protagonisti dell’attentato al reggimento Bozen in via Rasella, al quale gli uomini di Hitler risposero con la loro furia decuplicata alle Fosse Ardeatine. Mario Fiorentini, il pacifista, fu tra coloro che si trovarono costretti a prendere le armi, fabbricare ordigni, sbaragliare battaglioni. Sì, chi diventa partigiano “corre il rischio di essere ucciso e di trovarsi nella condizione di uccidere”, scrive Colombini, ed è “tutt’altro che semplice scegliere, senza essere obbligati, di rischiare di morire e di ammazzare qualcuno”.(Video da noipartigiani.it, il Memoriale della Resistenza che raccoglie 500 videotestimonianze di partigiani)[6]La violenza diffusa e il popolo soldato del Duce
L’Italia in cui si muovono i partigiani è dilaniata da una realtà di “violenza diffusa”, nella quale un’intera generazione è nata, si è formata e diventata grande. Il fascismo è stato al potere per oltre vent’anni e la cultura della sopraffazione è un suo cardine irrinunciabile: il fascista inteso da Benito Mussolini è il “cittadino soldato”, di Credere, obbedire, combattere, ripete spesso lo storico Emilio Gentile. La guerra voluta dal Duce e da Hitler espande quel mondo perché è “totale”: è ovunque, punta ad annientare il Paese nemico, stermina i civili. Usare la violenza come denominatore comune – e quindi banalizzante – tra partigiani e repubblichini significa annullare la differenza delle motivazioni per cui quella violenza veniva usata da una parte e dall’altra. Quello iniziato l’8 settembre 1943 è “un conflitto ideologico che spacca la società lungo una linea che non coincide con i confini nazionali – rileva Colombini -, anzi li attraversa di sbieco e, all’interno di ciascun Paese, separa irrimediabilmente due idee di mondo inconciliabili: una fondata sulla sopraffazione, l’altra sulla libertà”. Per rimettere in ordine le cose: “Non sono i partigiani a ‘creare’ la violenza, la accettano come mezzo perché già esiste, è la condizione in cui si trovano a vivere, provocata dal conflitto e dall’occupazione”. Di più: la violenza è “ precisamente il cuore della situazione a cui si ribellano”. La differenza è solo che ora fascisti e nazisti non ne hanno più il monopolio. “La moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l’Italia a costo di spargere sangue” spiega lo storico Sergio Luzzatto in La crisi dell’antifascismo (un libro del 2004, a riprova del ritorno circolare delle stesse obiezioni e delle stesse risposte). Leggi Anche

Le bufale del fascismo: pensioni, bonifiche, case, stipendi. Le cose buone che Mussolini non ha mai fatto[7]

Il sangue delle stragi nazifasciste
Eppure, in questo continuo tentativo di (pretendere di) raccontare “la vera verità”, succede che con un paradosso fraudolento, perfino il sangue dei civili nelle stragi compiute dai nazisti – spesso con la complicità dei fascisti – diventi una prova a carico delle azioni dei partigiani. Diventano loro i “veri responsabili” dice Colombini. Diventano l’alibi della ferocia delle truppe di Hitler e degli ultimi fedelissimi del Duce in fuga. “E’ come se a questi ultimi – sottolinea la storica nel libro – fosse concessa una sorta di attenuante”. Come invece dimostrano i 5862 eccidi compiuti da nazisti e fascisti negli ultimi due anni di guerra (24348 vittime) l’obiettivo delle forze di occupazione è sempre stato quello di avere il dominio assoluto del territorio. La bestiale violenza nazista e fascista “esiste non solo perché esistono i partigiani, ma perché l’occupazione disegna un mondo senza altra legge che non sia la sopraffazione”. C’è il caso non isolato della strage del bosco di Limmari, in Abruzzo: 125 morti ammazzati, senza un solo partigiano nei dintorni.

2017 – Stragi naziste, il giudice condanna la Germania a risarcire ma l’Italia sta con Berlino. “Paura di incidenti diplomatici”

 

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2017 – Stragi naziste, il giudice condanna la Germania a risarcire ma l’Italia sta con Berlino. “Paura di incidenti diplomatici”[8]

Il punto è che per nazisti e fascisti “tutto ciò che si frappone tra gli occupanti e i loro obiettivi è un ostacolo inaccettabile”. Così da paese a paese, da città a città l’interruttore delle stragi cambia: ci sono rastrellamenti, ci sono operazioni di controllo dell’area che si trasformano in bagni di sangue (come a Sant’Anna, come a Monte Sole), ci sono esecuzioni di ebrei. Ci sono le rappresaglie come l’eccidio delle Fosse Ardeatine, su cui Colombini si sofferma a lungo ribadendo giocoforza le falsità alimentate sui gappisti di via Rasella (prima fra tutte quella per cui avrebbero avuto il tempo di consegnarsi al posto degli ostaggi), ricordando che contrastare l’azione dei Gap non è solo un fastidio militare o un punto d’orgoglio per nazisti e fascisti, ma perché è pericolosa perché dimostra che “resistere è possibile, che il nemico non è invulnerabile, che il suo potere non è legittimo”. Ed è per questo che le operazioni dei nazifascisti, in tutta Italia, mirano a “radere al suolo” tutto ciò che trovano sulla strada, compresi i paesi inermi, compresi i vecchi di cent’anni e i bambini appena nati.

 

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Le ultime verità sui partigiani (di Giovanni De Luna)[9]

Arrendersi o perire, il “sangue dei vinti”
Infine, il “sangue dei vinti”, espressione che sarebbe neutra se non ponesse tutte le morti di chi era “dalla parte sbagliata” sotto l’alone del delitto comune, del crimine di strada. Anche i partigiani, però… ha la forza di una scrittura netta e densa e smaschera lo schema di gioco dei libri come quelli di Pansa: “Affastella una miriade di casi agghiaccianti, in cui i partigiani umiliano, brutalizzano e uccidono persone ormai indifese, come se vittime e carnefici non avessero un passato, come se tutto iniziasse di colpo il 25 aprile” scrive Colombini. Le violenze non ci furono? Figuriamoci: “Si tratta di rifiutare l’abitudine ormai consolidata di tramutare quei momenti in una sorta di ‘Pagine gialle’ dell’orrore”.L’80 per cento dei 10mila fascisti morti viene ucciso tra l’aprile e il maggio 1945: è l’insurrezione, la battaglia finale per la Liberazione, l’ora o mai più, l’arrendersi o perire scandito da Sandro Pertini. Al punto numero uno c’è mettere al tappeto per sempre il fascismo: per paura che torni, “per senso di giustizia” dopo vent’anni di soprusi “e anche per desiderio di vendetta – precisa Colombini – un sentimento di cui si deve tenere conto a meno che ci si rifiuti di ragionare in termini di comportamenti umani”.Il Cln manda circolari contro eccessi e processi sommari, istituisce tribunali di guerra. Ma non può controllare l’animo umano: insieme alla gioia per la libertà, dopo oltre vent’anni di regime, “esplode la rabbia“. “Irrompe sulla scena la folla”, come dice Colombini, e “c’è di tutto: la popolazione atterrita dalle bombe, esasperata dalle privazioni provocate dalla guerra, terrorizzata a causa delle angherie di nazisti e fascisti, devastata dai lutti”. Ricorda un partigiano di Genova, citato nel libro: “C’erano i partigiani del 26 aprile, c’era la schiuma che in ogni sommovimento di questa portata viene a galla”. Le violenze che seguono la Liberazione hanno origini tutte diverse tra loro: c’entra la mancanza di comunicazione tra comandi che spinge a decidere da soli e in fretta o ancora c’entra quanto è stata dura l’occupazione negli anni precedenti o ancora c’entrano le azioni compiute dai nazisti in ritirata. Come può essere una coincidenza il fatto che i luoghi in cui vengono passati per le armi i fascisti seguano lo stradario delle esibizioni macabre dei cadaveri dei partigiani da parte di nazisti e fascisti. Piazzale Loreto è l’esempio noto a tutti.La giustizia non giusta, la paura del ritorno del fascismo
Ma perché le uccisioni dei fascisti continuano oltre il 1945, sia pure calando? I fattori principali sono tre, secondo Colombini, ma non solo i soli. Il primo: l’eredità della politica delle armi, cioè la difficoltà di disinnescare il linguaggio violento della politica, ancora più comprensibile dopo che per anni le forze antifasciste hanno chiamato alla ribellione. Ma questo si intreccia con altri due fenomeni. Da una parte la paura del ritorno del fascismo, dopo che il suo regime aveva retto per oltre vent’anni il timore che fosse invincibile. Già subito dopo la guerra, nasce il Partito fascista democratico, i Fasci d’azione rivoluzionaria, il Msi a cui si iscrivono due irriducibili del Duce, Rodolfo Graziani e Junio Valerio Borghese. Dall’altra la giustizia non è giusta. I processi ai fascisti vanno a rilento, i condannati sono pochi, le pene eseguite solo una parte, a farne le spese sono spesso i pesci piccoli. Nell’amministrazione pubblica le carriere proseguono splendenti. La chiamano “continuità dello Stato”. Ha il volto di Gaetano Azzariti: presidente della Commissione sulla razza sotto il fascismo, ministro della Giustizia con Pietro Badoglio nel primo governo dopo il 25 luglio, presidente della Corte costituzionale della Repubblica democratica dal 1957. Si aggiunge l’amnistia di Togliatti che butta fuori 10mila fascisti su 12mila in carcere. Chi deve pagare, non paga. Spesso i fascisti vengono colpiti al rientro a casa, dopo la scarcerazione.La realtà del dopo 25 aprile è così complicata che mentre l’amnistia di Togliatti libera i fascisti, lo Stato processa i partigiani per le loro azioni. I processi sono migliaia. Ma dentro ci finiscono anche azioni di guerra: si arriva a processare chi ha arrestato un collaborazionista per sequestro di persona. Il 1948 è l’anno in cui questo processo alla Resistenza entra nel vivo e Colombini ricorda che è lo stesso anno in cui Graziani, il ministro della Guerra di Mussolini a Salò, il criminale di guerra, il macellaio del Fezzan, torna libero.I morti non fascisti, il caso di don Pessina
Poi, certo, le uccisioni di non fascisti. Secondo Mirco Dondi, storico che ha studiato a fondo il post-Liberazione, sono 12 e riconducibili a cellule indipendenti legate a un partito – il Pci – che però nel frattempo non solo aveva dato il più grande contributo alla guerra di liberazione, ma aveva scelto la strada della svolta di Salerno per dare all’Italia la democrazia e firmerà, con Umberto Terracini, la Costituzione repubblicana e liberale. Il filo a un certo punto si ingarbuglia con i vent’anni di regime appena abbattuto, i due anni di guerra civile, la guerra fredda appena cominciata. Germano Nicolini, Diavolo, emiliano di Fabbrico, comandante partigiano, finisce in carcere da sindaco di Correggio perché accusato di essere il mandante dell’omicidio di don Umberto Pessina. L’accusatore principale è Beniamino Socche, il vescovo di Reggio Emilia. Il Pci sa che il sindaco è innocente ma è scomodo perché cattolico. Nicolini sarà riconosciuto innocente dopo quasi 50 anni. “Rimasi in carcere dieci anni e mi sentivo ancora partigiano che doveva resistere” racconterà.Eccola l’Italia liberata dal fascismo, uscita dalla guerra e dalla Liberazione, il sacrificio della violenza. “Solo se ci si fa carico della fatica di calarsi nella realtà drammatica che accompagna la fine del conflitto e gli esordi dell’Italia liberata si riesce a contenere il senso di disagio che si prova davanti alla brutalità che allora si scatena. E.d è una fatica necessaria, perché sarebbe assurdo dimenticare che il nostro presente pacificato – e la sensibilità che ci accompagna facendoci inorridire di fronte alla violenza – nasce proprio grazie a quella cesura pagata a così caro prezzo.

References

  1. ^di Diego Pretini (www.ilfattoquotidiano.it)
  2. ^25 aprile | Dalla forza militare alla partecipazione: le ultime verità sui partigiani (www.ilfattoquotidiano.it)
  3. ^25 aprile, i principi della Costituzione spiegati ai bambini (in 12 lingue) con giochi e attività. “Un libro anche per chi non è ancora italiano” (www.ilfattoquotidiano.it)
  4. ^25 aprile, il frate ‘resistente’ David Maria Turoldo che organizzò la lotta in convento: “È un modo di essere, dà ragione e concretezza alla fede” (www.ilfattoquotidiano.it)
  5. ^Il messaggio sul 25 aprile pieno di sfondoni del direttore dell’ufficio scolastico delle Marche. E riesce a non scrivere mai la parola “fascismo” (www.ilfattoquotidiano.it)
  6. ^(Video da noipartigiani.it, il Memoriale della Resistenza che raccoglie 500 videotestimonianze di partigiani) (www.noipartigiani.it)
  7. ^Le bufale del fascismo: pensioni, bonifiche, case, stipendi. Le cose buone che Mussolini non ha mai fatto (www.ilfattoquotidiano.it)
  8. ^2017 – Stragi naziste, il giudice condanna la Germania a risarcire ma l’Italia sta con Berlino. “Paura di incidenti diplomatici” (www.ilfattoquotidiano.it)
  9. ^Le ultime verità sui partigiani (di Giovanni De Luna) (www.ilfattoquotidiano.it)

Fonte: Democrazia Oggi

Mario Melis: oggi sul “Presidente dei sardi” webinar organizzato dalla Scuola di cultura politica “E. Cocco”

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 Fernando Codonesu

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Entra nella riunione in Zoom

https://us02web.zoom.us/j/85839128295?pwd=aENuUHhETVRvTHEwcVhuM2hmTmpadz09[1]

Oggi alle 18,30 presentazione del libro di Anthony Muroni su Mario Melis a cura della “Scuola di cultura politica Francesco Cocco”. Alle presenza dell’Autore ne parlano Fernando Codonesu, Andrea Pubusa, Tonino Dessì, Franco Ventroni, Michela Melis (figlia), Efisio Pilleri e Claudia Zuncheddu.

Nel nostro ciclo dedicato al centenario della fondazione del PcdI e del PSd’Az abbiamo incominciato con Antonio Gramsci e a seguire con Renzo Laconi.
Ora passiamo da Mario Melis per chiudere con Emilio Lussu nel webinar programmato per il 30 aprile.
Una scelta non casuale: è un cammino circolare che parte dalle radici e vi ritorna perché come Scuola di cultura politica siamo convinti che la conoscenza delle nostre radici sia sempre una guida valida per affrontare i problemi del presente.
Incomincio subito dicendo che Anthony Muroni ha scritto un bel libro su Mario Melis nel doppio centenario della nascita di Melis e della fondazione del PSd’Az.
Nel leggere i ringraziamenti iniziali si comprende che per la scrittura di questo libro Muroni ha raccolto tanti materiali, tante testimonianze e indicazioni di vario genere da poter scrivere un volume di almeno 500 pagine, ma fortunatamente non lo ha fatto. Ha fatto un’altra cosa.
Muroni è un giornalista professionista, un bravo giornalista, per cui ha affrontato la scrittura del libro con un metodo sapiente e intelligente: ha scritto per sottrazione.
Ne risulta un volume ridotto all’essenziale, tanto sintetico quanto efficace nel descrivere a tutto tondo il personaggio Mario Melis.
Ne viene fuori un uomo onesto, politico accorto e colto, legatissimo alla famiglia, oratore raffinato e passionale, un vero leader guida di quella stagione di risveglio del popolo sardo, artefice di una stagione di semina di un sardismo diffuso, del senso della sardità e del sentirsi nazione, ancorché non teorizzata se non in piccoli e incisivi circoli e periodici culturali di allora, che mancano da diverso tempo nella politica isolana.
Melis è stato senatore nel 1976, diventa consigliere regionale nel 1979, presidente nel 1982 per la prima volta e successivamente dal 1984 al 1989, successivamente fu europarlamentare fino al 1994.
Qui ricordo che Melis è stato il padre della lotta contro le servitù militari che hanno impedito lo sviluppo economico e sociale in alcuni dei comuni maggiormente toccati da quell’infausto sistema, alfiere di quella richiesta netta allo stato centrale del loro  ridimensionamento con la ridislocazione più equa nel resto dell’Italia. Nella conferenza programmatica del 1981 dedicata alle problematiche delle servitù militari, Mario Melis ebbe a dire “La solidarietà intesa come fatto unilaterale è pura ipocrisia tesa a nascondere ed a mascherare il colonialismo.
L’italianità dei sardi si misura entro i limiti della sardità degli italiani “.
Quella presa di posizione viene ricordata ancora oggi da quei giovani e quei movimenti che continuano a battersi per il superamento definitivo delle servitù militari.

Con 146 pagine, di cui 16 dedicate a testimonianze fotografiche, Muroni ci restituisce la figura di Mario Melis e di quella stagione politica che tanto ha fatto per la Sardegna e per l’organizzazione della stessa struttura regionale. Emerge il personaggio politico, l’uomo, l’intellettuale che voleva portare la Sardegna con i suoi problemi e le sue potenzialità in Europa e nel mondo.
E’ Mario Melis che parla attraverso i suoi discorsi politici e le prese di posizione nei diversi ruoli ricoperti nella sua carriera politica e negli svariati luoghi in cui ha rappresentato la Sardegna, non la sua parte, ma la Sardegna intera. Così intendeva il suo ruolo di presidente e così ha cercato di essere: il Presidente dei Sardi. Di lui parlano anche alcuni testimoni a loro volta protagonisti di quel periodo e parlano i familiari, i tre figli.
Quando si tenta di accomunare al Partito Sardo d’Azione un programma o tendenze separatiste, Melis insorge con nettezza e forza e chiarisce che “Separatismo per me è uguale a isolamento e perciò è l’esatta antitesi del sardismo. Noi vogliamo integrarci non solo con l’Italia, ma con l’Europa con una forma statale di tipo federale”.
Con Melis, il PSd’Az è chiaramente schierato a sinistra e questo ha sempre creato molti problemi ad alcuni partiti nazionali, DC soprattutto, e settori dello Stato al punto da essere stato, a quel tempo, promotore di vere e proprie provocazioni ai danni del partito e di alcuni suoi esponenti di punta.
In pochissime righe questi episodi sono tratteggiati in maniera rigorosa.
Melis è presidente della Giunta, ma anziché limitarsi ad agire come espressione del solo esecutivo agisce sempre da Presidente dei Sardi , anche in virtù della grande importanza e del ruolo preminente da lui riservato al Consiglio Regionale, cosa questa non scontata e mai più ripresa dopo quella stagione politica. Infatti, a partire dalla seconda repubblica sia a livello nazionale che in campo regionale è sempre prevalsa l’idea e il progetto di ritenere l’esecutivo, cioè il Governo nazionale e le Giunte Regionali, al di sopra del legislativo, ovvero del Parlamento e dei Consigli Regionali. Nel periodo attuale ne abbiamo la riprova tutti i giorni.
Nei confronti dello Stato il comportamento di Melis non è mai stato subalterno o acquiescente, ma ha sempre interloquito da pari a pari. Melis era per l’autogoverno e nel suo ruolo ha esercitato al massimo delle sue energie, nelle condizioni date, gli spazi di sovranità permessi dall’ordinamento istituzionale.
Una persona mite, passionale e determinata. Una figura che emerge quale protagonista di quella costante resistenziale teorizzata da Giovanni Lilliu, di cui si trova più di una traccia in Bellieni, tra i fondatori del PSd’Az e in quello straordinario lascito politico e culturale di Giovanni Maria Angioy di oltre due secoli fa che abbiamo già affrontato nelle iniziative della nostra scuola di cultura politica.
Un libro che merita di avere tanti lettori perché genera curiosità, attenzione e voglia di approfondire per riprendere il filo di un discorso interrotto, quello del sardismo diffuso e del possibile ruolo della Sardegna nell’Europa dei popoli di oggi e di domani.

References

  1. ^https://us02web.zoom.us/j/85839128295?pwd=aENuUHhETVRvTHEwcVhuM2hmTmpadz09 (us02web.zoom.us)

Fonte: Democrazia Oggi

Occorre una spinta decisiva alla transizione ecologica

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 Andrea Orlando

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All’iniziativa del 17 aprile 2021 promossa dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Sì, Nostra, ha partecipato anche il Ministro Andrea Orlando. Ecco il suo intervento.

Vorrei partire da un ringraziamento ad Alfiero Grandi per l’invito a questa iniziativa. Un saluto particolare anche a Don Virginio Colmegna, un esempio di impegno a favore dei più deboli e, ai ragazzi di “Nostra” che insieme ad altri ne raccolgono l’impegno.
Ho letto con attenzione il documento proposto che è un ottimo contributo e aiuta a comprendere meglio la fase che attraversiamo e la sua principale sfida: la necessità di una “giusta transizione” che sia democratica, partecipata e orientata alla e dalla giustizia sociale in un processo che tenga al centro l’essere umano. Oggi, per imprimere una spinta decisiva alla transizione verso un modello di sviluppo sostenibile, dobbiamo condividere la profonda consapevolezza della necessità di un cambio di paradigma che abbracci la prospettiva di un’ecologia integrale. Tra le tante lezioni che possiamo trarre da questa pandemia, una su tutte deve interrogarci: la nostra società ha fondato storicamente il suo sviluppo sulla tecnica, oggi possiamo fare cose che solo vent’anni fa erano impensabili, sembravamo proiettati verso il superamento di ogni limite eppure, ci siamo resi conto che l’elemento più fragile di tutta questa costruzione è proprio l’essere umano, un essere intimamente legato al rapporto con l’ecosistema in cui vive.
Ci troviamo tuttavia su questo crinale per cui la sfida ambientale è soprattutto una sfida tecnologica e culturale. Dobbiamo definire nuovi modelli di sviluppo, nuovi standard qualitativi e nuove tecnologie ma dobbiamo avere molto chiaro che ogni nuova frontiera apre nuove sfide e nuove contraddizioni. In quest’ottica, la pandemia pone obiettivi sfidanti alla politica, a partire dalla necessità forte e ormai non più rinviabile di ridefinire il contratto sociale che ha regolato fino ad oggi il mondo del lavoro, i rapporti tra pubblico e privato, così come nel terzo settore.
Voglio sottolineare questo concetto, in particolare pensando a chi teorizzava che la storia fosse finita. Mi pare al contrario che ci troviamo davanti a uno scenario tutt’altro che definito. Non vedo una realtà in cui l’umanità sia destinata ad un progresso lento e continuo, in cui le società gradualmente e inesorabilmente siano destinate al progresso e all’aumento del proprio benessere, in cui la democrazia e i diritti dell’uomo siano destinati ad affermarsi nel mondo come un dato irreversibile. Al contrario, assistiamo a molti arretramenti, in molti luoghi e da tanti punti di vista.
Non esistono ricette preconfezionate davanti a tutto questo, esiste invece una certezza, se vorremo uscirne la politica dovrà avere la forza di recuperare il suo primato rispetto all’economia. Non vorrei però sembrare troppo astratto, questi concetti si delineano nella pratica e nelle decisioni quotidiane. Bisogna infatti prestare particolare attenzione in un momento come questo perché, il rischio di green washing politico va assolutamente scongiurato, individuando in primo luogo coerenza tra ciò che si fa nei singoli interventi e ciò che si dice. Se la transizione coinvolge tutti ci devono essere ricadute su tutti i settori, nessuno escluso. Per essere all’altezza di queste sfide dobbiamo, a mio modo di vedere, aver chiari tre pilastri: la tutela dell’essere umano nei suoi ecosistemi, la capacità di indirizzare la frontiera tecnologica, un sistema di valori forte.
•    Riguardo il primo punto oggi guido un Ministero che si colloca in prima linea: perché la tutela dei lavoratori evidentemente rappresenta una sfida centrale per concretizzare una “giusta transizione”. Pensiamo solamente che gli acquisti online sono cresciuti del 30% e, gli ordini di cibo online nell’ultimo anno sono aumentati del 70%. Secondo l’INPS i riders rappresentano solamente il 12% dei lavoratori della Gig economy. La politica deve porsi il problema di evitare che intere fasce sociali scivolino verso la povertà e si aggrappino nella disperazione a soluzioni semplicistiche e illiberali. Perciò stiamo ripensando gli ammortizzatori sociali in senso universalistico, tenendo conto dei tanti strumenti in campo. Un lavoratore va tutelato a prescindere dalla forma contrattuale con cui è inquadrato.
Si pone allo stesso tempo il tema della formazione, ovvero di come evitare che a pagare i costi della transizione siano i lavoratori meno qualificati. La transizione richiede nuove professionalità, questo gancio è quello che forse più di tutti è mancato in passato. Secondo le previsioni di Unioncamere, dei 2,7 milioni di persone che entreranno nel mercato del lavoro nei prossimi 5 anni, il 62% dovrà essere in possesso di competenze cosiddette green. Occorre quindi un forte investimento nel campo della formazione, università e aggiornamento professionale, nella ricerca e nella riforma delle politiche attive del lavoro, che in questi anni non hanno funzionato. Questi effetti sono già visibili. L’Italia è pronta ad individuare i target nazionali per contribuire a raggiungere gli obiettivi europei fissati nel Piano d’Azione: 78% di occupati nella fascia 20-64 anni, 60% dei lavoratori inseriti in programmi di formazione e aggiornamento delle competenze e 15 milioni in meno di europei a rischio povertà ed esclusione sociale.
Confindustria ammette per la prima volta che le ristrutturazioni al via dal 1 luglio comporteranno 389mila occupati in meno quest’anno. Avanza quindi lo spettro di una ripresa senza lavoro, per rispondere stiamo pensando di concentrarci sui distretti e avviare un censimento delle opportunità nelle aree dove la ripresa è più vivace, con l’intenzione di convogliare lì i lavoratori che riusciremo a formare. Penso a uno strumento sul modello dei “patti territoriali” che hanno funzionato bene in passato e che ora potranno registrare ulteriori elementi di innovazione.
Vi è poi l’azione su un altro fronte, troppo spesso terreno di dispute solo teoriche: il Reddito di cittadinanza e il Reddito di emergenza sono stati strumenti importanti per attenuare gli impatti di questa crisi sulle fasce povere, rispetto a cui è il momento di tirare concretamente le somme per capire cosa ha funzionato e come renderli più armonici ed efficaci. Abbiamo insediato un comitato scientifico, presieduto dalla professoressa Chiara Saraceno, che svolgerà un’analisi di merito a due anni di entrata in vigore della misura. Siamo già intervenuti con alcune piccole modifiche nell’ultimo decreto Sostegni, e con il sostegno ai lavoratori fragili, per evitare ad esempio che piccoli lavori saltuari possano interrompere il processo di accompagnamento al lavoro.
I fronti aperti sono molti, ci tengo a ricordarne un altro in particolare: dobbiamo evitare che questa crisi si scarichi sulle donne. La stragrande maggioranza dei posti di lavoro persi in questa pandemia sono stati persi dalle donne. Le forme di tutela del lavoro passano anche da battaglie come quelle per la parità salariale e, per arrivarci davvero dobbiamo consentire alle donne di esprimere tutto il loro potenziale, evitando che si scarichi su di loro l’intero carico della cura familiare. In questo senso il potenziamento degli asili nido, l’assegno unico familiare già varato e un profondo ripensamento delle forme contrattuali per favorire la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, sono fattori chiave.
•    Vengo ora al secondo punto, la frontiera tecnologica. Abbiamo compreso che la storia non è un naturale percorso lineare verso il progresso, le tecnologie non sono neutrali e la globalizzazione va governata e corretta nei suoi effetti distorsivi. Abbiamo oggi la necessità di ridefinire gli assi della politica industriale del paese concentrandoci sulle tecnologie verdi e sulle soluzioni basate sulla Natura, per non essere esposti agli umori del mercato. La ricostruzione di catene del valore strategiche in questo senso è una partita che non possiamo eludere, se non vorremo in futuro trovarci di nuovo nella situazione di non avere mascherine o non avere siringhe per fare i vaccini. Sulla frontiera tecnologica si gioca tuttavia una partita molto più sottile, l’autonomia dell’occidente rispetto a paesi e aree geografiche che non hanno sistemi di welfare, di tutela dell’ambiente e dei lavoratori. Lasciare che le nostre economie diventino preda di sistemi illiberali rischia di mettere in discussione l’intero sistema di valori occidentale e, di agevolare reazioni sovraniste ed autoritarie. Questa crisi ci impone di fare del rispetto dell’ambiente l’occasione di nuovo sviluppo economico, ripensando, come ho detto in apertura, le forme in cui abitiamo il pianeta attraverso nuovi strumenti: rigenerazione urbana, stop al consumo di suolo, pagamenti ecosistemici e taglio ai SAD (Sussidi Ambientalmente Dannosi), ripensamento e rivitalizzazione di borghi e aree interne, integrazione degli impianti per fonti di energie rinnovabili nel pieno rispetto del paesaggio. E ancora: mobilità sostenibile, agroecologia, rafforzamento della biodiversità e del capitale naturale e l’enorme miniera di opportunità data dall’economia circolare.

•    Mi collego così al terzo punto. Solo un sistema di valori forte può guidarci all’interno di questo mare in tempesta. Come ogni processo di cambiamento, la transizione creerà diverse tensioni sociali, dobbiamo esserne consapevoli e prevenirle. È fondamentale tenere la barra dritta rispetto alla tutela dei valori dei principi di democrazia e del rispetto dei diritti umani. Basta guardarci intorno per accorgersi che proliferano sistemi illiberali o autoritari; le democrature in fondo indicano che troppi paesi sono in un piano inclinato pericoloso.
Per concludere, tutti questi temi sono intrecciati, occorre dunque abbracciare una visione sistemica. Il PNRR rappresenta l’occasione di rimettere al centro la capacità della politica di indirizzare il futuro. Un futuro che deve avere al centro l’essere umano nella sua inscindibile relazione con la Natura, dunque la tutela della sua salute, dei suoi diritti, della sua libertà. Se avremo a cuore questo principio potremo prenderci cura della casa che abitiamo tutti.

Fonte: Democrazia Oggi

Pronto? Sono Mario Melis

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By Democrazia Oggi
Democrazia Oggi

Andrea Pubusa

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 Venerdì 23 alle ore 18,30 ci sarà la presentazione del libro di Anthony Muroni su Mario Melis a cura della “Scuola di cultura politica Francesco Cocco”. Alle presenza dell’Autore ne parleranno Fernando Codonesu, Andrea Pubusa, Tonino Dessì, Franco Ventroni, Michela Melis (figlia), Efisio Pilleri e Claudia Zuncheddu.
Ne approfitto per un ricordo affettuoso del nostro Presidente!

Gennaio 1986. Sono nel mio ufficio di presidente della Prima Commissione del Consiglio regionale. Squilla il telefono. “Pronto? Sono Mario Melis”. “Buongiorno Predidente!“. Colgo dalla voce che è ombroso. Viene subito al punto con tono puntiglioso. “Senti, se vuoi paralizzare l’attività amministrativa della Giunta dillo subito“. Intuisco a cosa si riferisce, non si parlava d’altro in quei giorni in Consiglio e sulla stampa sarda. Con la sentenza n. 371, depositata il 30 dicembre del 1985, la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, secondo comma, del d.P.R. 19 maggio 1950, n. 327, nella parte in cui si prevede che i regolamenti di esecuzione delle leggi regionali siano approvati con deliberazione della Giunta regionale, e dell’art. 2 n. 3 della legge regionale della Sardegna 7 marzo 1956, n. 37. Traduciamo in italianese? L’art. 27 dello Statuto sardo riserva la potestà legislativa e regolamentare al Consiglio regionale, tutti i regolamenti regionali, invece, sono stati approvati dall’esecutivo, seguendo il modello classico dello Stato e delle altre regioni. Dunque, tutti i regolamenti della Regione sarda sono illegittimi. Una bomba. Una tegola sulla giunta. Occorreva una veloce riapprovazione, pena la paralisi dell’amministrazione. In Consiglio fu avanzata l’idea di fare una leggina di riapprovazione generale. Come presidente della Prima (e studioso della materia) osservai che i regolamenti sono testi normativi che in Sardegna vanno approvati come le leggi, articolo per articolo e con votazione finale. Un’impresa che sembrava proibitiva. Approvare centinaia di regolamenti!
Fine della premessa.
“Caro Mario, nessun bicottaggio alla Giunta, immaginati da parte mia e del gruppo comunista! Ti assicuro che in due settimane, rimettiamo tutto a posto. Ho già allertato gli uffici per cercare e riesaminare tutti i regolamenti, riapprovarli e mandarli in Consiglio per il voto articolo per articolo e finale. Emanuele (Sanna, il presidente dell’Assemblea) è d’accordo ed è pronto“. Dall’altra parte del telefono, sentivo il respiro di Mario, che trasmetteva ansia e preoccupazione. “Tranquillo, Mario, un lavoraccio, ma siamo qui per questo”. C’erano in Consiglio allora fior di giovani funzionari (Alfonso di Giovanni, Tonino Dessì, Alessio Loi, l’attuale segretario generale Tack e altri) sempre pronti alle scommesse. Tonino, poi era anche dirigente del PCI, e dunque impegnato per la giunta non solo professionalmente, ma politicamante. Aveva anche scritto le dichiarazioni programmatiche del Presidente. Un comandante nel luogo delle operazionni. Ero sicuro che avremmo superato l’ostacolo.
“Tranquillo Mario, siamo tutti in trincea con te come nell’Altopiano!“. Sarà questa intrigante e non casuale battuta finale, il richiamo all’Altopiano di Lussu e Bellieni, a rassicurarlo. Si sciolse. “Mi fido, vai avanti!“. “Mario, piuttosto allerta qualche funzionario della giunta da assumere a referente. Ci serve la raccolta dei regolamenti”. “Andrea, mi dicono che non c’è raccolta!!”. Pausa. Mario trasmette dai fili telefonici ansia estrema. “Vabbe’, li scoviamo uno per uno, tranquillo! Vedrai che facciamo anche un po’ di pulizia in questi testi talora ormai superati”.
Così era l’uomo, ansiotico, spesso sospettoso, ma capace di grandi e totali fiduce, se aveva la prova di avere a che fare con persone leali. Da allora il rapporto con Mario, che prima era cordiale per via di un grosso processo politico che avevamo fatto insieme, dalla stessa parte della barricata, dieci anni prima, è stato scorrevole e molto cordiale.
Un’altra volta andiamo assieme a Roma. La Commissione bicamerale Stato/Regioni, presieduta da Livio Paladin, aveva organizzato un incontro alla presenza del Presidente Pertini, del capo del governo Craxi e di tutti i presidenti delle regioni. un grande evento istituzionale. Oltre Mario Melis, era presente Emanuele Sanna, nostro presidente del Consiglio regionale, ed io come presidente della Prima Commissione competente sulla materia istituzionale. Pertini, al suo ingresso in sala, ebbe un’attenzione forte dei fotografi e cameraman. Gli altri presidenti regionali poco o niente. Quando entrò Mario, col suo immancabile doppiopetto e i quattromori all’occhiello della giacca, fu un tripudio, e lui fiero e sorridente si concesse con evidente compiacimento ai flash e alle telecamere. Era e si sentiva il presidente dei sardi. Fece un discorso da capo dei sardi, bello e appassionato, seguito in silenzio da tutti. Alla fine un fragoroso e generale applauso. Grande! Emanuele ed io ci guardammo, eravamo soddisfatti, quasi commossi. Mario era il nostro presidente, l’attenzione verso di lui era un segno di attenzione per i sardi. Che bella e indimenticabile giornata!
Mario era rappresentante dei sardi in servizio permanente ed effettivo, in ogni luogo. Un giorno, nel volo Roma/Cagliari, una signora sarda ebbe una discussione con un addetto di Alitalia. Non ricordo l’oggetto della discussione. Il tono non fu dei più cortesi. Di scatto, istintivamente, Mario si alzò dal suo posto, si presentò e ottenne le scuse di quel signore. Qualla sarda, su quell’aereo, era in casa sua e meritava rispetto. Così era Mario. Talvolta sembrava eccessivo. Eppure, a pensarci bene, anche quel giorno aveva ragione lui. Era in ballo una questione di dignità e di rispetto. E su questo il nostro presidente era inflessibile.

Fonte: Democrazia Oggi

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