Andrea Pubusa
Tonino Dessì, nel suo bel post di ieri[1], riassume le reazioni
alla decisione della Consulta sulla legge regionale che, derogando
alle norme di tutela di ambiti ambientali particolarmente delicati,
sembra insidiare in particolare le zone umide adiacenti ai centri
abitati e segnatamente alla conurbazione cagliaritana. Da un lato
c’è chi (l’attuale assessore e l’ex assessore regionale degli
Affari generali della Giunta Pigliaru Gianmario Demuro, docente di
diritto costituzionale), trae spunto dalla sentenza per
rilanciare la necessità di adeguare il riparto delle competenze fra
Stato e Regione, di modificare sia lo Statuto speciale sia le
relative norme di attuazione. Dall’altro, c’è il mondo
ambientalista che plaude indiscriminatamente alla sentenza, perchè
avrebbe nuovamente sventato un tentativo di travolgere la
pianificazione paesaggistica con una disciplina derogatoria.
Più pensoso, giustamente Tonino Dessì osserva: “ogni volta che
ci si trova di fronte a queste vicende, chi abbia una certa
sensibilità sul versante dell’autonomia istituzionale speciale
sarda, ma nel contempo ne abbia una non meno radicata sulla tutela
del territorio e dell’ambiente, non può non provare una certa
intima lacerazione“. Chi è per l’autonomia sente stretta
l’attuale disciplina e le interpretazioni restrittive del giudice
delle leggi, ma questa istintiva e razionale pretesa di decidere in
autonomia sopratutto su questioni così legate alla struttura e alla
vita dell’isola (e cosa lo è di più del paesaggio?) si scontra con
la deprimente constatazione che la co-odecisione Regione-Stato
solitamente irrobustisce anziché sminuire la tutela. Insomma, i
sardi, se lasciati soli, si fanno male da sé.
Questa considerazione solleva un quesito più generale, le
insoddisfazioni e i limiti dello Statuto del 1948 devono
indurci a batterci per un allargamento, per un suo superamento, per
una soluzione federalista? Certo, se una carta di autogoverno
deve fondarsi sul pensiero di chi intende autogovernarsi su quale
pensiero possono poggiarsi i sardi se non su quello, alto e
potente, che va da Angioy a Lussu, passando per Tuveri e Gramsci,
tutti federalisti?
Questo pensiero, com’è noto, fu portato con forza alla Costituente
da Emilio Lussu, ma fu respinto. Ma si può riproporre? Pare proprio
di sì. Del resto, se per l’autogoverno si batterono grandi sardi
del passato, primo fra tutti Angioy fino al movimento
combattentistico di Lussu e al primo partito comunista di Gramsci,
non si vede perché non lo si possa riprendere, aggiornandolo alla
nuova realtà europea, oggi? Ma qui sorge un ulteriore quesito,
sensato ma inquietante, e riguarda l’oggi. Se - come credeva Lussu
- il popolo sardo è entrato nella storia come soggetto collettivo
con le formazioni socialiste a fine Ottocento e col Movimento
combattentista e sardista nella Grande Guerra, è forse tornato ad
uscirne oggi con l’azzerarsi della tensione autonomista? La storia
di oggi è la storia del popolo sardo o quella della Sardegna, ossia
di chi nell’isola governa in nome d’altri, al seguito e sotto il
comando di gruppi politici ed economico-finanziari nazionali ed
internazionali? Che disastro! Non esistono più organizzazioni
socialiste nè cattoliche nè sardiste. Non esistono veri partiti.
Sono tornate - come al tempo di Tuveri - le consorterie attorno ad
un notabiliato politico che usa gli slogans per conquistare voti,
ma che sostanzialmente non ha progetti o visioni generali. E sono
immancabilmente tornate le caste instancabilmente combattute da
Tuveri, da Asproni, Gramsci e dal grande Capitano dei
rossomori.
In questo mutato contesto politico, dopo mezzo secolo, bisogna
ammetterlo: il sistema delle Regioni ha introdotto fattori di
frantumazione dell’unità nazionale e ha scombinato le finanze del
nostro Paese. Alla prova della pandemia l’assetto politico,
istituzionale e amministrativo italiano, non è apparso capace di
rispondere alle esigenze unitarie del paese e ancor meno a quelle
locali. Molte Regioni hanno mostrato un volto anarco/feudale,
frutto di un’ambiguità costituzionale, che la riforma del Titolo V
ha ulteriormente aggravato, talché l’ampliamento del perimetro
della legislazione concorrente, anziché essere veicolo di maggiore
partecipazione alle decisioni interne e nazionali, è divenuto
fattore di disgregazione. La Conferenza Stato-Regioni, fuori da
ogni controllo del Parlamento, è incapace di stimolare la soluzione
pattizia e politica dei problemi, per la liquefazione dei partiti.
Ne esce sconfitto non solo il federalismo di Lussu, ma anche il
quadro concettuale e programmatico dei comunisti italiani che, a
partire dall’idea della “democrazia progressiva”,
concepiva la Costituzione come la summa delle aspirazioni
emerse dalla lotta di liberazione, un programma organico ed
essenziale per l’avanzamento sociale e politico delle masse
popolari nell’Italia democratica. E risultano deluse anche le
aspettative della DC e dei cattolici progressisti che dalla riforma
regionale si aspettavano un cambiamento profondo. Questo è,
nell’attuale contesto politico-sociale, il risultato, per molti
versi, imprevisto del testo licenziato dall’Assembea costituente e
risultante dalla sua revisione del 2001.
Ne è uscito un regionalismo confuso: non è federalista, tale da
imputare alla Regione precise responsabilità fiscali e di spesa. Le
linee di spesa non hanno criteri, se non quello della “spesa
storica”, costruita lungo i decenni per rapporti di forza e di
favore politico-partitici. E’ venuta meno l’idea dell’unità della
finanza pubblica ed ogni regione tenta o fa scorribande
irresponsabili, tanto alla fine paga lo Stato. Il Nord vuole
separarsi dal Sud con l’autonomia differenziata.
Che fare? Tornare - come si diceva - a Lussu, a Gramsci e sù sù, a
Giommaria, ad un’ipotesi federalista da calibrare col mutato quadro
nazionale ed europeo o, alla luce dell’esperienza dell’autonomia,
questa è un’idea insensata? Sennonché la follia non sta nel pensare
che, per cambiare, occorre risalire al pensiero dell’Alternos di
fine ‘700, quanto nell’osservare la situazione attuale. Riguardo ai
partiti siamo tornati ad una situazione simile a quella precedente
all’ingresso dei sardi, come popolo, nella storia. Oggi non ci sono
più i soggetti del cambiamento, i partiti strutturati, cosicché -
si ripete - esiste una storia, meglio una cronaca, della Sardegna
come cronaca di chi sull’isola comanda, ma non una storia del
popolo sardo. Questo, dopo una breve apparizione, è di nuovo
scomparso e non si vedono indizi per una rapida riemersione. A
quando il rientro nella storia? Solo allora si potrà riprendere
credibilmente il discorso istituzionale e, chissa!, anche sul
federalismo. Ora è meglio lasciare il testo della Carta com’è, è
saggio fare come Lussu in Assemblea costituente: votò lo Statuto
sardo per paura del peggio. Si accontentò di avere un gatto,
anziché il leone cui aspirava. Per noi il pericolo è più
grande: perdere anche il gatto e tenerci un pugno di mosche.
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