Fiorella Farinelli
L’articolo di Fiorella Farinelli, che proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori - pubblicato sulla rivista Rocca del 15 maggio - è l’ottavo contributo condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno per una riflessione comune.
Aver vissuto la pandemia ci farà diventare migliori? Impareremo
a non massacrare il pianeta in nome del profitto e del mercato,
saremo meno complici di un modello economico e sociale devastante,
ci convinceremo che il bene di ciascuno passa dal bene di tutti?
Non fa bene, forse, un troppo facile ottimismo. Ma è certo che
stiamo reimparando l’essenziale. Come il valore di una scuola di
tutti e per tutti, capace di tener conto delle caratteristiche di
ciascuno, fiduciosa nella possibilità di chiunque di imparare e di
migliorare.
Per molto tempo è stato sottovalutato o distorto, e troppi –
proprio come per i sistemi sanitari pubblici e per la ricerca
scientifica di base – hanno applaudito distratti e distruttori. Ma
ora sappiamo cosa significa avere le scuole chiuse. Sembrava un
problema dei soli Paesi poveri, quelli massacrati da guerre
infinite o da ricorrenti catastrofi ambientali, quelli sotto il
giogo di poteri determinati ad escludere. Oggi è diventata
esperienza anche dell’Occidente ricco, evoluto e più o meno
democratico.
A marzo l’Unesco, l’Agenzia delle Nazioni Unite che promuove
l’istruzione e la cultura, ha calcolato che più di tre quarti del
miliardo e 500.000 studenti del mondo erano rimasti senza scuola.
Per quanto tempo e con quali prospettive di ritorno alla normalità
non è chiaro neanche a maggio. Non era mai successo, con questa
durata ed estensione, neppure sotto le bombe o dopo i
terremoti.
I costi sociali sono altissimi. Ci sono quelli dei genitori di
bambini piccoli, le mamme soprattutto, che non possono lavorare
perché i figli sono a casa. E quelli del mancato apprendimento che
colpiscono gli studenti, anche se non tutti con la stessa gravità.
Secondo alcuni studi, per le troppo lunghe vacanze estive i bambini
della scuola primaria perdono tra il 20 e il 50 per cento di quello
che imparano in un anno, cosa ci lascerà la lunga chiusura del
2020? Ma non è tutto, la scuola che funziona bene è anche lo spazio
pubblico in cui tutti sono eguali «davanti alla legge», e dove
talento e impegno possono liberare dal destino sociale iscritto
nelle condizioni familiari. E poi le relazioni tra coetanei e con
gli adulti, tra poveri e ricchi, bianchi e neri, sani e disabili,
che insegnano intelligenza e solidarietà, e l’equilibrio così
prezioso nei due primi decenni di vita tra bisogno di tutela e
desiderio di autonomia. Non che la scuola sia l’unica agenzia
educativa, ma anche l’educazione familiare ha un gran bisogno del
controcanto dell’educazione pubblica. E la seconda di una certa
distanza dalla prima.
utilizzo delle tecnologie
Nei paesi che se lo possono permettere, si è cercato di rimediare
con la didattica online, detta didattica a distanza. Anche in
Italia, dove sembrava più problematico che altrove se non altro per
l’alta età media degli insegnanti, tutti hanno dovuto misurarsi con
l’utilizzo delle tecnologie. Cantano vittoria gli entusiasti della
Dad (dentro, oltre a una parte dei docenti e a un grappolo di
pedagogisti, c’è un ampio e variegato mondo di editori, produttori
di software, giganti delle telecomunicazioni come Google e
Microsoft, enti di formazione). Sostengono che sarà questo il
cavallo di Troia per il superamento dell’obsoleto modello
trasmissivo dell’insegnamento –
lezioni-esercitazioni-verifiche-valutazione – e dell’ingresso
trionfale di una didattica creativa, interattiva, liberatoria. Tra
gli entusiasti anche la ministra dell’istruzione Azzolina, figlia
di un movimento che alle piattaforme telematiche avrebbe voluto
consegnare addirittura tutte le carte della partecipazione e del
gioco democratico. Sono bastate poche settimane perché apparisse il
rovescio della medaglia. Fatto non solo dell’improvvisazione dovuta
alle circostanze emergenziali della prima attuazione, ma anche di
una diffusa e tenace tentazione di travasare nel «nuovo» gran parte
del vecchio: inclusi il disciplinarismo, le valanghe di compiti, le
ansie di programmi smisurati. Ma se a questi limiti si potrà porre
rimedio più avanti, lavorando sulla falsariga delle esperienze
migliori e sull’analisi delle peggiori, la criticità principale sta
nell’intreccio forzato tra utilizzo delle nuove tecnologie e
homeschooling – cioè nel trasferimento in toto dell’attività
scolastica in ambiente domestico. Perché sparendo la «comunità di
eguali» dello spazio scolastico pubblico, sull’apprendimento e
anche sull’insegnamento si sono scaricate le diseguaglianze della
dimensione familiare. Non solo l’ineguale disponibilità di devices
e connessioni (che ora si cerca di risolvere con il modesto impegno
degli 85 milioni del Decreto Scuola del 17 marzo) ma la variabilità
delle abitazioni, in tanti casi prive di spazi dedicabili
all’apprendimento, tanto più per la diffusione dello smart working.
E poi c’è la differenza fondamentale – già esaltata dall’eccessiva
valorizzazione dello «studio individuale», ovvero dei compiti a
casa – fatta della diseguale disponibilità di tempo, attenzione,
strumenti culturali necessari ai genitori per supportare l’accesso
alle piattaforme e la gestione delle attività dei più piccoli,
quelli che, pur «nati digitali», non sono ancora autonomi nel
rapporto con l’informatica.
Non che non lo si sapesse che una cosa è realizzare nelle scuole
«ambienti di apprendimento» per la didattica digitale e un’altra è
affidarsi alle risorse familiari (secondo Istat 2019 il 14,3% delle
famiglie con almeno un minore non ha né computer né tablet, e anche
in quelle che ne sono provviste è raro che ce ne siano di indivi-
duali per ogni componente), né che le dimensioni medie di un
appartamento non superano in Italia gli 81metri quadrati.
diseguaglianze che si aggiungono a diseguaglianze
Non è una novità, d’altra parte, che anche tra le fasce più giovani
della popolazione, quella con figli in età scolare, decenni di alti
tassi di abbandoni precoci e di percorsi scolastici poco capaci di
sviluppare e consolidare gli apprendimenti hanno depositato livelli
troppo bassi di istruzione e di cultura. E tuttavia molti si sono
sorpresi di fronte all’evidenza di una Dad che, nelle condizioni
date, scarica altre diseguaglianze su un sistema scolastico
peggiore di altri per «equità sociale», cioè per capacità di
affrancare il successo scolastico dalle condizioni economiche,
sociali, culturali di origine. Diseguaglianze che si aggiungono a
diseguaglianze, dunque. In cui a pagare i costi più alti sono i più
deboli. I bambini e i ragazzi più poveri, quelli con problemi di
disabilità, quelli con back ground migratorio, ben più del 20%
ammesso anche da viale Trastevere.
Le notizie che arrivano dalle scuole non sono buone. Troppi gli
studenti che non si sono mai connessi, che partecipano spo-
radicamente alle lezioni a distanza, che stentano a stare al passo,
che hanno abbandonato. E troppi, al momento, i limiti di una
didattica on line ancora troppo standardizzata rispetto alla
pluralità delle caratteristiche e dei bisogni formativi
individuali. La situazione più grave, energicamente sollevata dai
genitori e dalle loro associazioni, è quella dei ragazzi disabili o
con «bisogni educativi speciali», che con la scuola fisica hanno
perso anche relazioni preziose e stimoli essenziali, e che hanno
spesso enormi difficoltà ad adattarsi alle tecnicalità e alla
manualità richiesta dalla Dad. Ma la perdita colpisce tutti.
un’estate insieme
Anche per tutti questi motivi, oltre che per l’esigenza dei
genitori di riprendere le attività lavorative, in tutti i Paesi si
guarda con ansia alla riapertura delle scuole. A quando e a come
bambini e ragazzi potranno ritornarci, sia pure con le precauzioni
che dovranno esserci finché non si verrà a capo, con terapie e
vaccini, della maledetta pandemia. Un’ansia che in Italia viene
alimentata non solo dall’incertezza sul quando e sul come, ma anche
dall’evidente sottovalutazione da parte dei responsabili
istituzionali del bisogno di recuperare da subito, anche in forme
leggere e simboliche, il rapporto fisico con la scuola, i compagni,
gli insegnanti. Si potrebbero almeno salutarli
gli studenti, in spazi aperti e nel rispetto della sicurezza, alla
fine dell’anno scolastico. Si potrebbe dedicare un po’ di tempo,
dopo il 9 giugno, a incontri individuali o di piccoli gruppi con
gli insegnanti. Invece niente, neppure per i mesi estivi, quando
molti non potranno andare in vacanza perché i genitori devono
lavorare e i nonni, questa volta, non potranno occuparsene.
Si dovrebbe fin d’ora organizzare una «estate insieme», come
suggeriscono molte associazioni, nelle scuole, negli spazi
pubblici, nei parchi, giardini, strutture sportive e musei deserti,
con attività di socializzazione, giochi e educazione ambientale.
Molti in questi mesi hanno subìto discriminazioni, esclusioni,
sofferenze psicologiche, talora anche lutti, non ci si può limitare
a prevedere soltanto, a settembre e ottobre, momenti di recupero
didattico. E invece niente, dovranno essere i Comuni, le
associazioni, il volontariato ad organizzare i «Centri estivi», ma
senza impegno alcuno delle scuole e degli insegnanti. Una volta
stabilito che, grazie alla Dad, l’anno scolastico è «valido» e che,
grazie a passaggi all’anno successivo esenti da bocciature, non ci
sarà spazio per possibili ricorsi, viale Trastevere sembra al
momento lavarsene le mani. Non va bene. E preoccupa se per
settembre non si fosse capaci di prevedere niente altro che un mix
tra scuola in presenza e scuola a distanza, con sequenze che
potrebbero costringere ancora le famiglie a barcamenarsi tra il
lavoro e la cura domestica dei figli e del loro rapporto con le
piattaforme telematiche. Cosa succederà ai più piccoli, quelli che
a settembre entreranno per la prima volta, senza aver mai visto in
faccia gli insegnanti e senza conoscere ancora i loro compagni,
nelle scuole per l’infanzia e nella primaria? Anche tra i più
convinti delle grandi potenzialità dell’uso didattico delle
tecnologie, sono ormai in tanti ad augurarsi che il ricorso alla
Dad in alternativa alla didattica «in presenza» non sia necessario,
o almeno che vi si debba ricorrere solo in condizioni di assoluta
emergenza e per periodi brevi. Anche se questo dovesse richiedere,
per una volta, investimenti straordinari in nuovi spazi fisici e in
nuove risorse professionali.
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L’articolo di Fiorella Farinelli, che proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori - pubblicato sulla rivista Rocca del 15 maggio - è l’ottavo contributo condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno comune che qui si richiama.
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