Gianfranco Sabattini
Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10
Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa
propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile
dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire,
essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni
Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come
problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali
hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero
mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come
strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più
sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero
state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie
centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze
ed alle inerzie delle dirigenze regionali, sino a prefigurare il
pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la
renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”.
Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto
autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani
dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda
– alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i
dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una
penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze
strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del
Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti
dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a
causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre
dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al
“gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la
riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre
rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna
è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti
pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il
“dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza
che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale
rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche
e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti,
malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta
del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha
privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione
senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un
reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei
sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di
amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di
condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente
canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione
nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse
utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito
disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area
regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti
i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun
processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito
il divario economico che continua ancora oggi a separare la
Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello
attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da
condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli
anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un
progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni
nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita
sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni
Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un
aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza,
un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni
di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito
disponibile ha causato un consistente incremento delle
importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a
favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di
altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi
diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna,
ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una
quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di
attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e
riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare
dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza
alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il
parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno
preteso di valutare il successo della politica di intervento
realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei
limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il
processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla
crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme,
della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo
accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a
liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento
casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per
rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle
autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato
di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura
sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti
residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono
determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi
presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è
consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a
svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso
come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate
specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe
tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove
decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che
l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole
comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione
delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità
di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle
politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio
alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base
del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il
superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato
recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con
conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai
relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e
di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità
locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone
che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica
di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di
“percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la
più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello
regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di
industrializzazione forte”privilegiato non ha avuto alcune
giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi
realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo
sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di
capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo
effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri
termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa
l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla
presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con
l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero
essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni
psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite
che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di
sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della
politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello
sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato
a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo
sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato)
sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di
sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di
abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di
crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche
di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e
propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene
eletti, non per le capacità amministrative o per la visione
politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul
territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse
svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio
regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche
delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la
presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi
trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma,
al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della
prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego
dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie
locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno
avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema
economico della Sardegna si può concludere osservando che,
contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione
Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi
trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato;
essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita
regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto
il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o
poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione
endogena.
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