Gianfranco Sabattini
Al Seminario che il Comitato Direttivo dell’Associazione “Il
Mulino” ha organizzato nel 2019 sul problema del “rapporto fra
sistema economico e sistema politico”, , nell’articolo “Il debito
italiano in Europa. Un problema mal posto” (pubblicato sul n.
2/2020 della Rivista edita dall’Associazione), Paolo Bosi si chiede
se la preoccupazione di diminuire il rapporto debito/PIL non crei
“più problemi di quanti ne possa risolvere”; converrebbe – egli
afferma – “non tanto ragionare se ridurre e come ridurre il debito
pubblico italiano, quanto piuttosto chiedersi che cosa possa
significare, per la sopravvivenza dell’Europa e in generale di una
società democratica, l’esasperata attenzione portata al debito
pubblico”. Ciò soprattutto se, nell’attuale assetto istituzionale
europeo, il problema di natura politica del rientro dall’alto
rapporto debito/PIL viene legato al ruolo prevalente dei mercati
finanziari, poco “interessati” alla vita democratica ordinata dei
singoli Paesi.
Secondo Bosi, per ridimensionare l’eccessiva preoccupazione
dell’alto livello del debito avvertita in Italia, occorre rimuovere
due pregiudizi: il primo riguarda la presunta natura del debito
come “macigno” che condiziona fortemente la vita politica ed
economica del Paese; il secondo espresso dalla necessità che, per
gestire l’alto livello del debito, l’Italia debba essere
“credibile” in Europa.
L’Italia deve liberarsi dal primo pregiudizio, in considerazione
del fatto che il debito non sempre è un onere. Prima del 2008 –
sottolinea Bosi – il debito pubblico forniva ai risparmiatori
italiani la possibilità di impiegare il loro risparmio in attività
prive di rischio; un Paese dotato di un alto grado di sviluppo
economico e di un assetto istituzionale stabile può indebitarsi fin
che vuole, se può sopportare la pressione fiscale aggiuntiva, senza
compromettere la propria stabilità politica ed economica,
necessaria per far fronte al pagamento degli interessi. Per
l’Italia, la pressione aggiuntiva rispetto ai restanti Paesi
europei è pari a circa 2-2,5% del PIL e costituisce – afferma Bosi
- un fatto spiacevole, ma non intollerabile; del tutto “spiacevole,
ma pur sempre non intollerabile, se il debito attivato in passato è
stato usato male. Meno spiacevole e forse anche lodevole […] se è
servito a creare opere pubbliche, istituzioni ben funzionanti,
ecc,”.
Tutto ciò è vero, se il Paese che si indebita ha il controllo della
propria moneta ed è in grado di garantire il rimborso del debito;
non lo è però, se il Paese fa parte, come l’Italia, di un’unione
monetaria, le cui istituzioni siano mal disegnate. In linea di
principio, all’interno di un’unione monetaria, lo “spread”
(differenza di rendimento tra i titoli dello stesso tipo e durata
emessi dagli Stati membri dell’unione) dovrebbe essere
tendenzialmente nullo. Poiché in assenza di un’organizzazione
statuale, l’unione monetaria, di per sé, non può offrire alcuna
garanzia, in sua vece agiscono i mercati finanziari, sulla base del
presupposto che la loro valutazione di ciò che è bene per un Paese
sia migliore di quella che può essere formulata dal “legittimo
governo del Paese medesimo”. Sennonché, accade che i segnali in
base ai quali “i mercati finanziari valutano il grado di rischio
non siano correttamente disegnati e mettano in pericolo un corretto
rapporto tra democrazia ed economia, tra Stato e mercato, con
privilegio dei secondi (economia e mercato) rispetto ai primi
(democrazia e Stato)”.
Il secondo pregiudizio da rimuovere è quello che impone all’Italia
la necessità che, per gestire l’alto livello del proprio debito
pubblico, debba essere credibile al cospetto degli altri Paesi
europei membri dell’unione monetaria. L’Italia, però, non ha
bisogno d’essere credibile, in quanto non è a rischio di “default”;
la “sua posizione netta sull’estero è quasi in pareggio”, essendo
il saldo della bilancia dei pagamenti positivo per circa due punti
di PIL. Stando così le cose, perché l’Italia – si chiede Bosi –
deve risultare credibile, se l’unione monetaria manca di adeguati
meccanismi elettivi e rappresentativi a livello
soprannazionale?
Comunque, la mancanza di credibilità non implica necessariamente la
fuoriuscita dell’Italia dall’eurozona, perché una simile azione
avrebbe costi universalmente giudicati insostenibili. Ciò però non
significa che il Paese non possa valutare la possibilità di
“individuare linee politiche alternative” in tema di moneta comune,
soprattutto se si è gravati dal sospetto che l’entrata a fare parte
dell’unione monetaria, “in quel momento e a quelle date
condizioni”, sia stata l’esito di una decisione errata, o
quantomeno affrettata. Quando si è deciso acriticamente di entrare
a far parte dell’unione monetaria, si è “gettato – sostiene Bosi –
il cuore oltre l’ostacolo, con una fiducia nel progresso della
storia che non ha trovato realizzazione”, sottovalutando il fatto
che la liberalizzazione dei mercati finanziari e l’impatto della
globalizzazione avrebbero inevitabilmente comportato l’egemonia
ddella Germania sui Paesi dell’unione monetaria; un’egemonia cui
Berlino non è certo disposta a rinunciare.
Gli effetti della Grande Recessione del 2007-2008 hanno fornito
l’occasione per introdurre riforme volte a realizzare un “disegno
europeo” realmente coeso e condiviso, attraverso politiche fiscali
che favorissero rapporti più equilibrati fra gli Stati membri ed un
aumento dei livelli salariali; ciò però non è avvenuto, consentendo
alla Germania di conservare il proprio sistema economico
prevalentemente orientato all’export e garantendo alle banche
francesi e tedesche la loro posizione creditoria nei confronti dei
Paesi indebitati, fra i quali l’Italia. Questi ultimi, anziché
essere aiutati attraverso una reale solidarietà europea, sono stati
costretti ad attuare politiche deflazionistiche che hanno concorso
ad aggravare i loro problemi strutturali.
Non aver compreso che per far fronte alla crisi sarebbe stato
necessario un passo decisivo in avanti verso l’unificazione
politica dell’Europa, all’interno di un’organizzazione
istituzionale federativa, necessariamente ridistributiva e
rispettosa delle storie e delle culture degli Stati membri europei,
è stato – nota Bosi - l’errore più grave commesso dalle autorità di
Bruxelles. Con la rinunci a compiere tale passo in avanti, più
politico che economico, sulla via dell’unificazione dell’Europa, le
istituzioni europee hanno mostrato di non accorgersi che il vero
“tallone d’Achille” dell’Unione era in realtà l’euro e non il
debito pubblico di alcuni Paesi.
Essendo costretti a convivere all’interno di un’eurozona regolata
sulla base degli accordi stabiliti a Maastricht, negli Stati membri
indebitati si è diffuso - osserva Bosi – il dubbio che per
migliorare la UE sia necessaria “una revisione dei Trattati”; se
però la revisione deve avvenire nel rispetto della regola
dell’unanimità, essa diviene politicamente impraticabile, per cui
ai Paesi indebitati non resterebbe, come unica soluzione possibile,
che l’uscita, non solo dall’unione monetaria, ma anche dall’Unione
Europea. Tutto ciò perché – a parere di Bosi – non sarebbe
politicamente ed economicamente giustificabile continuare a “vivere
in un sistema politico in cui si sono definite regole […] che la
stragrande maggioranza degli osservatori ormai considera ‘stupide’,
incomplete, immodificabili, affidando la sanzione del dissenso alle
agenzie di rating e al mercato”.
Ovviamente, per i Paesi indebitati una diminuzione del debito
comporterebbe indiscutibili vantaggi, ma il suo scopo non dovrebbe
essere quello di sottrarsi ai diktat del mercati, quanto quello di
rendere più tollerabile la pressione fiscale e di migliorare
l’offerta dei servizi pubblici. Nell’attuale assetto istituzionale
europeo, una riduzione del debito che non sia orientata a
consentire una sua gestione più flessibile e meno ossessionata
dalle rigide regole del Patto di stabilità e crescita sarebbe
“impraticabile e controproducente”. In realtà, in Italia,
l’eccessiva ossessione per il debito rivela, secondo Bosi, solo una
“sfiducia eccessiva sugli effetti keynesiani dell’intervento
pubblico”; un’ossessione che origina dal fatto che non si riesce ad
accettare che le vere azioni per una gestione più flessibile del
debito richiedono “anche molta spesa pubblica corrente, su progetti
specifici”, quali istruzione, sanità, assistenza agli anziani,
contrasto all’evasione, lotta alla criminalità, sicurezza e
controllo del mercato del lavoro nero.
In mancanza di una riforma delle regole che disciplinano
attualmente la partecipazione all’unione monetaria, per affermare
un punto di vista diverso riguardo alla gestione del debito
pubblico, i Paesi indebitati, a parere di Bosi, non devono avere
come obiettivo la conservazione della loro credibilità presso le
istituzioni europee, ma la costruzione di “alleanze con forze
politiche trasversali alle nazioni che ne fanno parte”. Se la
regola dell’unanimità prevista a livello europeo per l’assunzione
di decisioni riformatrici non sarà sostituita dalla regola
maggioritaria, per sottrarsi al ricatto cui è sottoposto
l’accoglimento di qualunque proposta di riforma, ai Paesi
indebitati non resta che uscire dall’unione monetaria, ma non
dall’Unione Europea.
Bosi ritiene infatti che i vantaggi del far parte dell’Europa siano
connessi “più all’essere parte dell’UE che dell’UEM”, all’interno
della quale operare per promuovere “elementi di flessibilità nella
gestione della politica fiscale” (attraverso proposte radicali, sia
che vadano nella direzione della costruzione di una reale unione
politica dell’Europa, sia che comportino un temporaneo passo
indietro nella realizzazione del disegno europeo); ma soprattutto
per promuovere “una vera e propria riforma del sistema monetario
europeo”, che implichi “una condivisione dei rischi, con una
riformulazione degli obiettivi della banca Centrale […] e un
allentamento se non addirittura la sospensione del Patto di
stabilità”.
Dopo aver evidenziato i limiti che caratterizzano le attuali regole
che disciplinano la circolazione dell’euro, Bosi rileva che i
federalisti (ai quali egli dichiara di sentirsi molto vicino)
dovrebbero comprendere che qualsiasi proposta volta a modificare il
contesto economico-monetario europeo ora esistente è votata
all’insuccesso, a causa della regola dell’unanimità, mentre quelle
che potrebbero essere accolte spingerebbero “a un traguardo di
lungo periodo ben lontano dall’unione politica” dell’Europa. La
probabilità che riforme più rispondenti a una effettiva
condivisione solidale dei rischi fra tutti i Paesi membri dell’UE
siano attuate, – conclude pessimisticamente Bosi – è praticamente
nulla, “a causa dell’opposizione della Germania e dei Paesi del
Nord Europa”.
Per questa ragione, la previsione più attendibile, per Bosi, è che
un Paese come l’Italia non avrà la possibilità, attraverso la
classe politica della quale dispone, di avanzare con fermezza
proposte in grado, ove fossero accolte, di sottrarla alla
stagnazione dalla quale non riesce ad uscire; ma la causa di ciò
non è però – conclude Bosi - il debito pubblico.
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