Gianfranco Sabattini
La Terra non soffre solo del problema climatico, ma anche di
altre crisi che stanno esponendo l’umanità a diverse gravi
tipologie di rischio. In un recente rapporto della Fondazione
Lancet-Rockefeller sullo “stato di salute” del pianeta (inclusivo,
oltre a quello dell’ambiente, anche di quello degli uomini e degli
animali) denunciava che le sue alterazioni dovrebbero essere colte
dall’umanità come la più grande opportunità per affrontare
responsabilmente i propri problemi di salute. Pertanto,
sottolineano Paolo Vineis, Luca Carra e Roberto Cingolani nel
volume “Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica”, per cogliere
questa opportunità, è giunto il momento in cui “solo un radicale
mutamento nella gestione e organizzazione della vita pubblica […]
può metterci al riparo dalla convergenza di così tante tendenze
negative, come l’epidemia di obesità e di diabete, l’uso sempre più
frequente di ansiolitici, il disagio ambientale, gli effetti del
cambiamento climatico, la fiducia negli esperti (quale si manifesta
per esempio nei movimenti contro i vaccini) e le crescenti
disuguaglianze”.
Tuttavia. gli autori avvertono che lo stato di salute del globo non
può essere trattato senza considerare il carattere ambivalente dei
cambiamenti che oggi minacciano l’umanità; al riguardo, essi
osservano che, se per motivi legati all’urgenza ci si riferisce
soprattutto ai cambiamenti negativi ed ai rischi che ne conseguono,
devono però essere considerati anche i cambiamenti positivi occorsi
nel passato, che hanno consentito di realizzare notevoli passi in
avanti sulla via del progresso e del miglioramento degli standard
di vita. Ciò non toglie che l’umanità debba essere pronta a
cogliere i “segnali di peggioramento” presenti nei cambiamenti che
si verificano nel mondo contemporaneo, soprattutto se minacciano la
stabilità delle relazioni intercorrenti tra le sue molte componenti
antropiche e naturali.
Alcuni di questi cambiamenti, per quanto possano sembrare molto
piccoli, se costanti e incrementali, cessano di essere
trascurabili; la dimostrazione di ciò può essere offerta dalla
considerazione dei climatologi che “solo una differenza di 5-6
gradi separano le ere glaciali da quelle interglaciali”;
considerazione, questa, che, a parere di Vineis, Carra e Cingolati,
dà senso all’affermazione che anche i piccoli cambiamenti
giustificano la “definizione della nostra epoca come Antropocene,
in cui per la prima volta gli esseri umani sono divenuti una ‘forza
geologica’”.
Pur in presenza delle disuguaglianze distributive oggi diffuse a
livello globale, lo stato di salute del quale gode gran parte della
popolazione mondiale può definirsi complessivamente buono; seppure
dipenda dal convergere di fattori quali lo sviluppo economico, la
“rivoluzione verde” e l’uso dei vaccini, esso non è però da
attribuirsi alla maggior disponibilità di beni materiali e di cure
più efficaci, ma al miglioramento qualitativo degli alimenti, delle
abitazioni, dei trasporti, alla riduzione delle fatica e a più
efficaci e meno invasivi metodi di cura. Cosicché, oltre alla
notevole diminuzione della malnutrizione, i progressi tecnologici
hanno consentito grandi successi, quale è stato ad esempio
l’aumento dell’aspettativa di vita, passata a livello globale dai
50 anni del 1960 agli oltre 71 attuali.
A tale risultato ha contribuito la disponibilità di una maggior
quantità di risorse, resa possibile dalla rivoluzione verde
lanciata negli anni Sessanta del secolo scorso, alla quale si deve
la diffusione di varietà geneticamente selezionate di piante
nutrizionali sottratte alle malattie (ciò che ha consentito un
incremento di produzione tale da sottrarre alla denutrizione
milioni di persone). Anche i vaccini hanno contribuito all’aumento
dell’aspettativa globale di vita, come dimostra il fatto che,
mentre nel 1967 morivano 15 milioni di bambini per vaiolo e a 2
milioni e mazzo per morbillo, oggi le morti per vaiolo sono state
azzerate, mentre quelle per morbillo sono state ridotte a
110.000.
Attualmente, però, il quadro degli effetti dei cambiamenti sta
rapidamente mutando, a causa soprattutto della crisi economica che
grava in particolare sui Paesi di più antico sviluppo, per via del
debito pubblico (detto anche debito socio-economico), delle
politiche di austerità perseguite e del peggioramento delle
disuguaglianze distributive internazionali e interne ai singoli
Paesi. Secondo Vineis, Carra e Cingolani, le preoccupazioni create
dal debito pubblico non possono essere disgiunte da quelle indotte
da altri tipi di “debito”, qual ad esempio quello di natura
soprattutto “ambientale”. Se non sarà posto un limite alla
persistenza delle varie forme di debito, i pericoli ed i rischi cui
è esposta l’umanità possono diventare irreversibili. Questo
scenario potrà presentarsi con certezza, se saranno oltrepassate
alcune soglie caratteristiche dei processi che presiedono alla
“autoregolazione del sistema-Terra”.
Il possibile travalicamento di tali soglie caratteristiche è da
ricondursi alla crescita incontrollata della popolazione e allo
sviluppo economico, proprio delle economie industriali
contemporanee. Negli ultimi cento anni, la popolazione mondiale è
aumentata di quattro volte, superando i sette miliardi, mentre il
PIL conseguito si è ventiplicato. Questa eccezionale crescita della
popolazione e del PIL planetari – osservano gli autori del libro –
“è stata accompagnata da cambiamenti radicali nell’interazione
uomo-pianeta, che hanno generato effetti senza precedenti
sull’ecosistema rispetto ai millenni passati. Il progresso tecnico
[ha provocato] perturbazioni complesse del sistema ecologico, che a
loro volta [hanno scatenato] conseguenze di medio-lungo termine
scarsamente prevedibili”. L’aumento della popolazione e lo sviluppo
economico sono i principali responsabili globali del debito
ambientale, originato dall’aumento della produzione e del consumo
di energia, dall’espansione dei trasporti, dalla crescita
dell’urbanizzazione e della globalizzazione; la dinamica di questi
fenomeni e le loro connessioni consentono di valutare l’impatto
complessivo e richiedono la predisposizione di politiche economiche
correttive per il contenimento dei loro effetti negativi.
Fare tuttavia un bilancio dei fenomeni che stanno alla base del
debito ambientale è un’impresa molto complessa e difficile; a tal
fine, ci si serve del modello dell’”impronta ecologica”, sulla base
del quale si tenta di pervenire a una stima contabile del deficit
ecologico che caratterizza in negativo il pianeta, a causa
dell’aumento della popolazione. Nel modello messo a punto negli
anni Novanta, l’”impronta ecologica” esprime la quantità di risorse
naturali che vengono prelevate dal pianeta per far fronte al
crescente consumo della popolazione mondiale, mentre la
“biocapacità” indica quanto il pianeta può offrire in termini di
“produttività biologica”. Se l’impronta ecologica costituisce la
stima della domanda, la biocapacità eiguarda l’offerta di risorse
vitali per il mantenimento della crescente popolazione; domanda ed
offerta che vengono espresse in termini di ettari di suolo
pro-capite necessari per soddisfare i bisogni umani.
Dal bilancio effettuato è emerso che l’impronta ecologica della
popolazione attuale risulta pari a 2,8 ettari di suolo pro-capite,
mentre l’offerta è pari a 1,7 ettari; si ha quindi un deficit pari
a 1,1 ettari, vale a dire oltre 10.000 metri quadrati per persona,
eccedenti la capacità del pianeta di rigenerare quanto viene
consumato in termini di risorse naturali per l’impatto negativo
della popolazione sull’ambiente. Come viene rilevato, tutto ciò,
espresso in termini globali, significa che il funzionamento del
sistema economico, preposto al mantenimento della popolazione
attuale, richiede prestazioni ecologiche “pari ormai a ben oltre
una Terra e mezza”.
La conseguenza del sovrautilizzo del suolo terrestre è
“l’impoverimento del capitale naturale del pianeta”; con un debito
ambientale globale che esprime, però, solo una media, che manca di
indicare come esso si distribuisce in modo diseguale a livello
internazionale; per cui esistono al riguardo Paesi “debitori” e
Paesi “creditori”, nel senso che le parti più sviluppate del
pianeta (Stati Uniti, Paesi dell’Europa occidentale, Cina e
Giappone) hanno un’impronta ecologica “che eccede di oltre il 50%
la biocapacità media [globale]”, mentre altre aree (Sudamerica, e
Africa) hanno ancora un credito di biocapacità. A livello
complessivo, quindi, le differenze dell’impronta ecologica
denunciano disuguaglianze internazionali profonde, dovute a un
differente grado di sviluppo economico; si tratta di
disuguaglianze, la cui persistenza, ove non fossero attenuate (o
non rimosse), lascia prevedere un ulteriore appesantimento
dell’impronta ecologica globale, dovuto unicamente all’aspirazione
dei Paesi arretrati a migliorare le loro condizioni di vita, per
imitazione di quelle godute nei Paesi più sviluppati.
I bisogni antropici sono sorretti dal funzionamento di un sistema
produttivo costantemente in espansione, i cui livelli di attività
minacciano oggi i processi che presiedono alla “autoregolazione del
sistema-Terra. Negli ultimi decenni, gli sudi ecologici ed
economici hanno teso più volte a stabilire i “limiti dello
sviluppo” e “a stimare i valori soglia per ciascuna delle
perturbazioni che stanno interessando il sistema Terra”. Con la
Rivoluzione industriale, l’attività antropica è diventata il
principale agente di tali perturbazioni. Se nei primi decenni in
cui si compiva la Rivoluzione è stato possibile, per le condizioni
ambientali favorevoli e la limitata dimensione della popolazione
mondiale, organizzare il funzionamento del sistema produttivo su
basi sempre più ampie, grazie al progresso scientifico e
tecnologico, successivamente il continuo espandersi dei processi
produttivi ha dato luogo su scala planetaria a cambiamenti
climatici irreversibili; se non si rinuncerà alla logica della
crescita economica illimitata, questi ultimi potrebbero mettere a
rischio la sopravvivenza dell’umanità o portare a un arretramento
delle condizioni di vita attuali. Spingendo il sistema Terra oltre
i limiti di sicurezza, è inevitabile l’aumento del rischio,
sottolineano nel loro libro gli autori, l’innesco di “processi non
lineari, che potrebbero fare regredire o collassare interi
ecosistemi e organizzazioni sociali”.
Ciò che maggiormente preoccupa dell’impatto dello sviluppo
antropico ed economico sul sistema Terra, è dovuto agli effetti
sugli ecosistemi, in grado di modificare le relazioni nella rete
degli esseri viventi (inclusivi di tutti gli animali, uomini
compresi). Perché tali relazioni possano svolgersi correttamente,
occorre che i livelli dell’attività antropica diminuiscano; a
parere dei bioecologi, se anche un solo anello della rete degli
esseri viventi si inceppasse, potrebbe portare a squilibri generali
non prevedibili (ne sono un esempio le malattie infettive). In un
documento del 2015, la già citata Fondazione Lancet-Rockeffeller
ricordava come le infezioni provocate da numerosi virus, che da
tempo stanno ormai minacciando lo stato di salute della popolazione
globale, siano la conseguenza di tali eventi; lo dimostra il fatto
che circa la metà delle malattie infettive globali, registrate tra
il 1940 e il 2005, siano la diretta conseguenza delle attività
antropiche ad alto impatto ecologico che hanno ridotto la
biodiversità del pianeta.
Affrontare i rischi espressi dal deficit socio-economico e da
quello ambientale costituisce, a parere di Vineis, Carra e
Cingolani, una sfida complessa; le difficoltà nell’affrontarla sono
date dai limitati strumenti dei quali si dispone e dalla
persistente separazione tra cultura umanistica e cultura
scientifica. La loro conclusione è che vi sono diversi motivi per
cui è auspicabile che, nell’affrontare i rischi impliciti nel
mancato contenimento dei suddetti deficit, le due culture si
integrino: innanzitutto, perché il contenimento comporta la
necessità di un “innalzamento sostanziale della consapevolezza e
della competenza scientifica dei cittadini”; in secondo luogo,
perché, al punto cui è giunta la crescita della popolazione e dei
livelli di attività produttiva, occorre che la scienza e la
tecnologia occupino un posto di rilievo nella cultura generale;
infine, perché sia rimossa la tendenza a considerare la scienza e
la tecnologia come attività portatrici di potenziali minacce.
Per il futuro dell’umanità e per le sorti del pianeta, quindi, è
importante, in particolare, che la scienza aumenti il suo
accreditamento presso tutti i cittadini, al fine di garantir loro
la capacità di capire l’evoluzione del mondo e di approfondire la
propria attitudine critica. Sono queste le condizioni che possono
consentire all’uomo la possibilità di prevenire i guasti che un
aumento incontrollato della popolazione ed una crescita economica
senza limiti possano rendere il futuro indesiderabile.
- SARDA NEWS -
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