Le agiografie di Draghi nei media servono a portare avanti un’ulteriore narrazione post-ideologica, che punta a sostituire i conflitti di classe e la dicotomia destra/sinistra con un presunto scontro tra competenti e incompetenti
Le imbarazzanti agiografie di Mario Draghi sui giornali italiani
hanno avuto il merito, se non altro, di formalizzare pubblicamente
i canoni di un nuovo populismo. Colto, beneducato, grammaticalmente
corretto, ma pur sempre populismo. Se i movimenti populisti di
destra e di sinistra sorti in questi anni hanno discorsivamente
tentato di sostituire la dicotomia destra/sinistra con quella
élite/popolo, la nostra stampa ha infine trovato nella
semplicistica antitesi tra competenti e incompetenti il giusto
grimaldello retorico per imporre una nuova narrazione
post-ideologica.
«Mario Draghi è un’indicazione, l’impressione è che competenza,
calma e affidabilità stiano tornando di moda», si ringalluzzisce
Beppe Severgnini sul Corriere[2], mettendo però in
guardia dalle illusioni, perché, dieci anni fa, anche il governo
del «competente» Monti «venne salutato con favore» e poi si sa
com’è andata – aggiungiamo noi – con il debito pubblico cresciuto
di più di
80 miliardi[3] in un anno, nonostante
le lacrime e il sangue, e la programmazione di 6,8
miliardi[4] di tagli alla sanità.
Nell’immaginario aziendalistico di Concita
De Gregorio[5], Mattarella è il
curatore fallimentare della democrazia, anzi è colui che «ha
dichiarato la bancarotta dell’incompetenza», mentre l’avvento di Draghi[6]
«segnala in maniera drastica la fine un’epoca […], quella della
politica scadente e senza orizzonte, dell’incompetenza al governo,
dell’uno vale uno». Nei corridoi di Repubblica la
palpitante metafora millenaristica dev’essere piaciuta, perché la
ripropone anche Riccardo Luna, che decreta[7], con sottile gioco di
parole, «la fine della fine della competenza […]. L’idea che possa
esistere “un governo dei migliori” è certamente utopistica e
ingenua, ma ha il pregio di provare a mettere fine alla supina
accettazione collettiva dei “governi dei peggiori”, o di quelli
senza alcuna competenza ma onesti». Su Wired[8]
Simone Cosimi, pur rallegrato dalla dipartita degli «incompetenti»,
riesce comunque a lamentarsi, perché «l’incompetenza andrebbe
infatti sanzionata alle urne, non con una soluzione
istituzionale».
Non è di certo casuale che il martellamento sia avvenuto in questo
frangente storico, mentre il Movimento 5 Stelle si incardinava
all’interno dello schema classico destra/sinistra, alleandosi
stabilmente con Partito democratico e Liberi e Uguali.
L’operazione, seppur raffinata, è stata quindi trasparente:
affibbiare lo stigma dell’incompetenza, dapprima esclusiva soltanto
dei grillini, a tutto il nascente fronte di centrosinistra per
renderlo inagibile, e contrapporgli un presunto fronte della
competenza a trazione tecnocratica, dove potessero accasarsi –
perché no – anche i salviniani, magicamente ripuliti dalle infamie
sovraniste con un opportuno riciclaggio mediatico.
Dunque una riconoscibilissima campagna di destra, presentata,
tuttavia, con l’impersonalità di un paradigma in apparenza
oggettivo con cui interpretare la politica: competenza vs.
incompetenza. Certo, qua e là si è notata una leggera negligenza
nel cancellare le tracce del movente reale dell’orchestrazione.
Il
Sole 24 Ore[9], nella frenesia di
congratularsi con Matteo Renzi per aver mandato a casa «un governo
di cialtroni, una massa di incompetenti populisti», fa firmare il
pezzo a Beniamino Picone, di professione proletarissimo private banker[10]. La fa ancora più
grossa l’Huffington Post[11], la cui pomposa
citazione «dopo gli anni dei mediocri e degli incompetenti e il
loro fallimento come ceto di governo, tornano le élites» appartiene
ad Antonio Calabrò, nientepopodimeno che responsabile cultura di
Confindustria[12]. Al Foglio[13], invece, non si fanno
scrupoli e, con Michele Masneri, si danno direttamente
all’apologetica di classe con un titolo nostalgico ma
programmatico: «quanta voglia di borghesia, possibilmente alta,
dopo la stagione degli incompetenti in ciabatte». Il vertice dello
spudoratezza lo raggiunge, però, Linkiesta[14], sulle cui pagine Luigi
Sanlorenzo arriva a stabilire una correlazione tra il gradimento
popolare di Conte e la «quota di chi non ha letto un libro o un
giornale», perché sarebbe proprio «il quadro desolante di ignoranza
e disinformazione [a spiegare] il consenso di cui ancora gode
Giuseppe Conte». Vi risparmiamo il seguito, così come il resto del
poco fantasioso repertorio di epiteti, da «incapaci[15]» a «scappati di casa[16]», cui hanno attinto i
giornalisti nostrani.
La velenosa grancassa mediatica non avrebbe tuttavia avuto tale
successo, se non sussistesse nell’opinione pubblica un effettivo
equivoco sul ruolo dei tecnici in politica. L’idea è che la cosa
pubblica sarebbe meglio amministrata se in parlamento e fra i
banchi del governo sedessero persone competenti. A prima vista,
un’affermazione di puro buon senso, quasi tautologica, che però
contiene almeno cinque fallacie.
In primo luogo, la macchina burocratica degli Stati è già, in larga
misura, dominio di tecnici, specialisti, competenti, che restano ai
loro posti a dispetto degli avvicendamenti politici, garantendo una
continuità del sapere e dell’agire all’interno delle istituzioni.
Non solo: in seconda battuta, sono gli stessi partiti, persino
quelli populisti, ad appaltare alle competenze di personale esterno
il disbrigo della complessità di governo. Lo ha ben segnalato lo
storico Lorenzo Castellani[17], osservando come la
sindaca di Roma Virginia Raggi, in mancanza di una classe politica
con un pregresso di esperienze, abbia per necessità costituito una
giunta esclusivamente tecnocratica. La tendenza si è ripetuta con
il governo gialloverde, dove i ministri tecnici erano ben quattro,
tra cui il più importante, quello dell’economia, era affidato
all’accademico Giovanni Tria. E un meccanismo simile è avvenuto
negli Stati uniti sotto la presidenza di Donald Trump, il cui
segretario al tesoro era Steven
Mnuchin[18], un ex banchiere di
Goldman Sachs, come, d’altronde, i suoi predecessori Robert Rubin[19] (con Clinton) e Henry
Paulson[20] (con Bush Jr.). Per
descrivere il fenomeno, Castellani parla di tecnopopulismo, ovvero
della «tensione e compenetrazione tra tecnocrazia e nuovi movimenti
radicalizzati e anti-politici» nelle democrazie occidentali.
Vi è poi una fondamentale illusione sul simulacro del «competente»,
che consiste nella mitizzazione delle sue capacità taumaturgiche,
come se potesse esistere il «competente definitivo», l’esperto che
sa tutto quello che si presume debba sapere nel proprio campo e,
per osmosi, persino in altre discipline. Un’illusione rumorosamente
crollata nella crisi pandemica, che ha visto la proliferazione[21] delle commissioni di
esperti, e dei consulenti al loro interno, di fatto per prevenire
la scontata incompetenza di alcuni competenti e, nei casi più
estremi, la loro imbecillità, visto che aver studiato e aver fatto
carriera non mettono al riparo né dall’essere imbecilli né
dall’aver scalato le gerarchie sociali proprio grazie a un’ottusa
adesione alle più stupide convenzioni del settore di appartenenza.
Le paradossali perversioni della competenza le ha recentemente
raccontate Raffaele Alberto Ventura nel saggio Radical Choc[22]: nella società del
rischio permanente, non solo a una maggiore competenza corrisponde
una minore elasticità nel venire a capo delle frequenti
imprevedibilità del sistema, ma la stessa competenza sembra
soffrire di una caduta tendenziale dei suoi rendimenti, esattamente
come il saggio di profitto del capitalismo, producendo costi sempre
più esosi e benefici sempre più marginali per la collettività.
La quarta fallacia è, invece, la più difficile da sradicare dal
senso comune. Si basa sull’ostinata presunzione che la competenza
in politica sia un valore neutro. L’esempio che spesso si riporta
per dimostrarla – nessuno si farebbe mai curare da un medico privo
di titoli – è fuorviante, perché il medico persegue sempre il bene
del paziente. È ovvio che, in questo caso, essendo la salute del
paziente un fine disinteressato, la competenza rappresenta sia un
valore in sé sia un bagaglio di conoscenze neutrali. Ma non lo è
per il politico, perché le motivazioni che lo muovono non sono mai
neutre e disinteressate. Le assemblee elettive non sono infatti
luoghi della competenza, a cui – a ben vedere – si accede piuttosto
per concorso pubblico, ma luoghi della rappresentanza e della
mediazione fra interessi particolari divergenti. Un politico è
dunque competente nella misura in cui riesce a rappresentare e
concretizzare gli obiettivi delle classi sociali di riferimento che
lo hanno eletto ed è, al contrario, incompetente se si mette a fare
gli interessi di qualcun altro. Non ci sono altri parametri della
competenza con cui valutarlo. Non ci vuole, perciò, molto per
comprendere che lo scopo di questa strategia non sia tanto negare
la competenza di una parte politica, quanto negare la realtà del
conflitto sociale, negare l’evidenza, sotto gli occhi di tutti, di
interessi economici contrapposti che lottano fra loro. Tutto ciò è
stato possibile perché, negli ultimi decenni, le sinistre hanno
anestetizzato il conflitto sociale, ritenuto divisivo, foriero di
tensioni, ma anche perché si sono conformate a un diffuso piano
inclinato della politica. Il politologo Paolo Gerbaudo definisce[23] questa degenerazione
«cartellizzazione dei partiti», i quali cessano di rappresentare
«blocchi di società con interessi diversi» e diventano «un grande
cartello alleato per tenere fuori dal mercato elettorale possibili
competitori. Il risultato è che i partiti smettono di rappresentare
i cittadini presso lo Stato, ma fanno il contrario, ovvero
rappresentano lo Stato (specie attraverso la partecipazione al
governo) presso i cittadini».
La distorsione del concetto di rappresentanza sembra realizzare,
come in una profezia che si autoavvera, la quinta e ultima fallacia
della retorica sui competenti, che postula l’esistenza di un
interesse pubblico generale, di un bene supremo della nazione
intellegibile solo alle menti superiori dei competenti. Si entra
così, come corollario delle fallacie precedenti, in una dimensione
salvifica, messianica. Il competente è il deus ex machina
della narrazione post-ideologica, è la divinità laica scesa fra i
mortali della politica per sanarne i fallimenti, è il Mister Wolf
di Pulp Fiction fatto sostanza. Siamo, insomma, nel sogno
bagnato di chi brama un amministratore delegato, o meglio un Ceo,
messo a comando di un Paese. Lo Stato come un’azienda, e il
governo, privato della sua imprescindibile funzione di
accountability, come un consiglio di amministrazione:
eliminati gli interessi di parte e cartellizzati i partiti, non c’è
più nessuno a cui rendere conto.
È una visione esplicitamente autoritaria. Il competente diventa
l’unico possibile interprete dei problemi di ciascuna classe
sociale, le sue stesse competenze agiscono come camera di
compensazione degli interessi contrapposti, come in una salomonica
scala gerarchica delle priorità che nessuno oserebbe contestare,
perché non abbastanza qualificato, non altrettanto competente. Si
sfocia, insomma, in una rappresentazione organicistica dello Stato,
in cui ogni parte collabora nell’interesse del tutto. Oggi questa
concezione dello Stato prende forma nell’abusata e ingannevole
metafora del «siamo tutti sulla stessa barca», ma i precedenti sono
antichissimi: si pensi all’apologo di Menenio Agrippa nel V secolo
a.C. (se le braccia si rifiutano di lavorare, lo stomaco non riceve
il cibo), con cui la plebe di Roma venne persuasa a rinunciare alla
secessione sull’Aventino, oppure al corporativismo fascista, che
tutelava la borghesia produttiva e predicava, al contempo, la
collaborazione di classe. La stessa suggestione di un Ceo
competente e illuminato, cui consegnare i destini della nazione,
assomiglia in modo inquietante a un’evoluzione manageriale del Duce
del fascismo.
Se si crede che il paragone sia esagerato, si consideri il
disprezzo delle istituzioni e delle procedure democratiche con cui
la stampa ha narrato la formazione del nuovo governo. Nella diretta
della fiducia al Senato, Aldo Cazzullo sul Corriere[24] irride la discussione
parlamentare – «ora per punizione Draghi dovrà seguire, composto e
senza distrarsi, sessantotto interventi» –, come se il dibattito
fra i rappresentanti eletti fosse una perdita di tempo, come se il
governo dei competenti non dovesse, appunto, rendere conto a
nessuno, tanto meno al parlamento.
Sempre sul Corriere della Sera[25], Antonio Polito si è
spinto persino oltre, in un editoriale in cui celebra l’incarico di
Mattarella a Draghi, senza previo consulto con i leader politici,
come un ritorno «allo Statuto». La citazione è significativa,
perché, come nota Carlo
Borghi[26], si rifà a un articolo[27] del 1897 di Sidney
Sonnino, in cui il deputato della Destra storica, denunciando «il
cumulo degl’interessi particolari» che avrebbero ostacolato «la
rappresentanza dell’interesse collettivo e generale», invocava il
ritorno all’interpretazione alla lettera dello Statuto Albertino:
responsabilità del governo solo davanti al Re che lo nominava, con
conseguente indebolimento della funzione di controllo delle
maggioranze parlamentari. L’auspicio di Sonnino era già reazionario
e autoritario nel 1897, figuriamoci quanto lo sia oggi, nel
ventunesimo secolo.
Insomma, la retorica sui competenti è, in superficie, il populismo
delle élite, ma in profondità nasconde una pericolosa pulsione
autoritaria contro la democrazia parlamentare.
*Jacopo Di Miceli è autore per varie riviste, tra cui The Vision, Left e Tagli Magazine, e si occupa di divulgazione storica sul tema delle teorie del complotto con il progetto Osservatorio sul complottismo.
References
- ^Jacopo Di Miceli (jacobinitalia.it)
- ^Corriere (italians.corriere.it)
- ^più di 80 miliardi (www.ilfattoquotidiano.it)
- ^6,8 miliardi (www.quotidianosanita.it)
- ^Concita De Gregorio (invececoncita.blogautore.repubblica.it)
- ^l’avvento di Draghi (invececoncita.blogautore.repubblica.it)
- ^decreta (www.repubblica.it)
- ^Wired (www.wired.it)
- ^Il Sole 24 Ore (www.econopoly.ilsole24ore.com)
- ^private banker (www.econopoly.ilsole24ore.com)
- ^Huffington Post (www.huffingtonpost.it)
- ^responsabile cultura di Confindustria (www.huffingtonpost.it)
- ^Foglio (www.ilfoglio.it)
- ^Linkiesta (www.linkiesta.it)
- ^incapaci (www.laverita.info)
- ^scappati di casa (www.ilfoglio.it)
- ^Lorenzo Castellani (legrandcontinent.eu)
- ^Steven Mnuchin (www.businessinsider.com)
- ^Robert Rubin (en.wikipedia.org)
- ^Henry Paulson (en.wikipedia.org)
- ^proliferazione (www.nextquotidiano.it)
- ^Radical Choc (www.einaudi.it)
- ^definisce (www.facebook.com)
- ^Corriere (www.corriere.it)
- ^Corriere della Sera (www.corriere.it)
- ^Carlo Borghi (ipettirossi.wordpress.com)
- ^articolo (it.wikisource.org)
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