Paolo Bagnoli
L’attuale fase politica è contraddistinta da un punto fermo e due varianti: il primo è rappresentato da Draghi, gli altri due dai 5Stelle e dal Pd. Ecco una riflessione sulla situazione politica tratta a AdL del 1° aprile.
Punto fermo rimane Mario Draghi cui va il merito di aver rimesso
al centro della scena lo Stato; ossia, quanto di cui dovrebbe
occuparsi la politica: la motiva e la giustifica. Draghi sta
dimostrando di essere un uomo di Stato. A esso ha riconferito
quella dignità di cui tutti quelli ansiosi solo di apparire in
televisione con dichiarazioni – le quali, peraltro, sembrano tanti
panni stesi – non dimostrano di avere cognizione avvolti come sono
nell’esclusività del governismo populista. Nessuno da ciò marca
visita. Non è un caso che il richiamo del presidente del consiglio
allo “spirito repubblicano” non sia stato colto con il rilievo che
avrebbe richiesto. Ciò perché esso si è smarrito nella lunga
permanente crisi della “seconda” repubblica; quella che ha generato
la “terza” marcata dal grillismo, finita nell’arco di due anni,
investita da quello stesso “vaffa” che era stato il grido di guerra
con cui era nata conquistando la maggioranza parlamentare.
L’attuale fase politica è contraddistinta da un punto fermo e due
varianti: il primo è rappresentato da Draghi, gli altri due dai
5Stelle e dal Pd. Il travaglio grillino è intenso e intestino
segnato dal medesimo motivo dell’irrisolutezza di se stessi; da due
fallimenti paralleli in un intricato groviglio producente
sfarinamento. Ora cercano, affidandosi a Giuseppe Conte una pur
parziale salvezza che, nel caso fosse possibile, comporterebbe la
salvazione da se stessi, in primo luogo, per rifondarsi. Oltre
l’approdo del governo, tuttavia, non sanno andare chiusi come sono
nella dimensione sublimata dell’antipolitica. Impigliati in un
groviglio esistenziale cercano di uscirne; da un lato, liberandosi
del cordone ombelicale della logica Rousseau e, dall’altro,
affidandosi al loro ex presidente del consiglio. L’avvocato di un
popolo che ha perso, a quanto si capisce, non sa ancora che pesci
prendere. All’onere della prova lo strumento social su cui fondava
la propria presenzialità non esiste più. Ancora, quel qualcosa di
politico che oramai gli spetta dire, non riesce ad uscire. Quando
lo manifesterà si capirà cosa ne sarà dei 5Stelle; per ora si
registra la perdita di ben cento parlamentari e la riconferma della
perdita di voti ad ogni elezione.
Se i 5Stelle hanno una storia breve, diverso è il caso del Pd,
sulla scena da un tempo lungo, dal 2007: oggi paralizzato in se
stesso. Nato in un tripudio esagerato di ambizioni storiche e alla
fine, non sfondando elettoralmente, impropriamente appropriatosi
della definizione di forza di sinistra che è quanto di più lontano
dal vero tanto che il nocciolo dei voti caratterizzanti gli vengono
dalle zone ricche e moderate di Roma e di Milano – partito moderato
di centro, quindi - il Pd dimostra quello che non può dire. Ciò non
sfuggiva fin dalla sua fondazione ossia l’impossibilità di poter
essere un “partito”, intendendo con questo non una definizione
modale, bensì una categoria soggettuale della politica democratica.
Quale forza di novità si vantava di sorgere dalla fusione di due
culture politiche vecchie e superate, quindi, di due mentalità che
mai – alla prova dei fatti - sono riuscite a fondersi elaborando
un’identità vera, basata su una ragione storica. Non basta,
infatti, l’evocazione del riformismo o del centro-sinistra per
creare una sostanza solida di rappresentanza sociale e civile. Alla
fine anche per il Pd, in un turbinio di esperienze scriteriate – le
primarie di strada ne sono l’esempio più parlante – e di segretari
che non dovevano rispondere ad alcuna logica di impianto politico
razionale, si è rintanato nella mera dimensione del governo.
Questa, nell’accezione zingarettiana, prevedeva l’alleanza,
definita addirittura strategica, con i 5Stelle, con Giuseppe Conte
che, novello Romano Prodi, avrebbe, per il suo essere almeno
formalmente fuori da ogni militanza, guidato lo schieramento che ha
sorretto il suo secondo governo, verso sorti magnifiche e
progressive. Paura della solitudine e delusioni elettorali lo hanno
travolto; l’inadeguatezza operativa del Conte2 ha fatto il
resto.
L’arrivo di Draghi ha dimostrato la nudità del re e della sua corte
e così si è richiamato, non senza un qualche mal di pancia, Enrico
Letta cui bisogna riconoscere che ha la politica nella testa e,
cosa di non poco conto, è un europeista convinto. Che poi ce la
faccia a dare al Pd quell’ identità, ma forse sarebbe meglio dire
l’ideologia che non ha mai avuto, è tutto da vedere. E, quindi,
bisogna aspettare. Riteniamo che si smetterà di parlare del Pd come
di una forza di sinistra. Questa ancora non c’è, nemmeno nei suoi
presupposti culturali; non si può pensare che rinasca da quanto c’è
poiché non ci sembra esserci niente nonostante esista un “vulgo
disperso che un nome non ha”. Della sinistra quale pensiero
compiuto non vediamo niente. Crediamo che Letta disegnerà l’idea di
un partito neoulivista a trazione democristiana e, quindi, di
centrosinistra, ma che non è il centro-sinistra in quanto tale.
Torna a rimbalzare, nel Pd, il termine “riformismo”; una parola che
oggi non vuol dire niente e che sarebbe più onesto
intellettualmente lasciare in disparte. Così, però, non è. Goffredo
Bettini, ritenuto l’ideologo del Pd – ma sappiamo anche che non
disdegna di essere pure un consigliere di Conte – facendo il
proprio endorsement a Letta, ha sostenuto: «Il riformismo è
riformare il capitalismo. Questo è il dibattito che scuote tutti i
democratici e tutta la sinistra europea e con il quale si confronta
positivamente anche Macron. In secondo luogo il riformismo
democratico di sinistra significa svolgere un incessante lavoro per
accorciare le distanze tra chi sta sotto e chi sta sopra nelle
gerarchie sociali». (“Corriere della Sera”,10 marzo 2021)
Il ragionamento che può, a prima vista, apparire chiaro, è invece
di natura subliminale nel tentativo di salvare quanto di
postcomunista sta ancora nel Pd e che, con la vicenda Zingaretti e
il richiamo in servizio di Letta, ha subito un colpo cui sarà non
facile riprendersi. Preoccupazioni legittime, intendiamoci, ma ci
sembra solo raffinato politicismo di un professionista della
politica. Letta ha richiamato alla verità e questa non è assolta
dal ritornello sul riformismo.
Luciana Castellina ha fatto un’osservazione più che giusta: «il Pd
deve mettersi davanti a uno specchio e rendersi conto che finora ha
sbagliato tutto. Deve essere capace di ideare un progetto politico,
economico e sociale che non sia finalizzato solo al governo per il
governo, al potere per il potere». (“La Stampa”,14 marzo 2021)
Non si può che concordare. Le parole non bastano a colmare i vuoti
reali. Per quanto crediamo che il Pd sia stato un errore, crediamo
che la situazione del Paese e la vicenda della sinistra – se è di
questa che si vuole parlare – richiedano altro. Enrico Letta avrà
molto da fare per dare sostanza alla forza di cui è segretario. Se
ce la farà, al di là che ci si riconosca o meno nel Pd, bisognerà
riconoscergli di aver dato un contributo importante per la solidità
della democrazia italiana.
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