Gianfranco Sabattini
L’informazione statistica resa disponibile dall’Istat evidenzia
i grandi cambiamenti avvenuti in l’Italia nell’ultimo quarantennio.
Come afferma Francesco Tuccari, in “La rivolta della società.
L’Italia dal 1989 a oggi”, essi “hanno investito praticamente
tutto”: pur restando immutati alcuni “residui” del passato (come,
ad esempio, l’annosa questione meridionale, il trasformismo
politico, una rilevante “pulsione alla corruzione”), molte cose
sono semplicemente scomparse (come la lira, il servizio militare, i
telefono a ghiera, e così via), altre sono emerse dal nulla (come
l’euro, i computer portatili, i cellulari, ecc.) ed altre ancora
sono state l’esito dell’evoluzione del mondo della politica, che ha
visto nascere la formazione di nuovi partiti come Forza Italia, il
Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e la post-padana Lega di
Matteo Salvini.
Le informazioni statistiche – sostiene Tuccari – “sono sicuramente
importanti, ma non certo sufficienti”; per capire il senso dei
grandi mutamenti nella struttura della società e dell’economia
italiane occorre “andare oltre i numeri […] e provare a riannodare
ciò che essi ci dicono in una trama più generale”. A tal fine,
Tuccari si rifà all’analisi che Karl Polanyi ha fatto, nella sua
celebre opera “La grande trasformazione” (scritta sul finire della
Seconda guerra mondiale, nel 1944), sulle convulsioni verificatesi
nell’arco di tempo compreso tra l’inizio del Settecento e gli anni
Venti e Trenta del secolo scorso; convulsioni che hanno causato il
collasso della “civiltà del XIX secolo”. Secondo Tuccari, l’analisi
di Polanyi risulta adatta per capire e interpretare i cambiamenti
che, dagli anni Ottanta del secolo scorso ad oggi, hanno investito
l’intero pianeta, e soprattutto la società e l’economia
dell’Italia.
Polanyi ha ricondotto il crollo della “civiltà del XIX secolo” alla
crisi dei suoi principi fondativi: il “balance of power” (che aveva
garantito la pace del “Cento anni” tra il 1815 e il 1914), il “gold
Standard” (che aveva assicurato l’unità del mercato
internazionale), l’”economia di mercato” (che, attraverso i suoi
presunti meccanismi di autoregolazione, era considerata la vera
forza propulsiva di quella “civiltà”) e lo “Stato di diritto
liberale” (espressione istituzionale del mercato autoregolantesi).
Sulla base della sua analisi, Polanyi ha evidenziato – nota Tuccari
- in primo luogo come “l’avvento dell’economia di mercato avesse
segnato una rottura radicale col passato”, affrancando l’economia
dalla sua subordinazione alla politica ed alla religione; ciò aveva
consentito che si affermasse il principio secondo cui era
l’economia che doveva subordinare a sé (grazie al libero mercato,
capace di garantire una crescente e diffusa ricchezza) le relazioni
sociali e la vita stessa dei componenti le singole società.
Il mercato autoregolantesi, del tutto autosufficiente, e dunque
affrancato dal bisogno dell’intervento di una qualsiasi “autorità”,
è apparso come “un’entità ‘naturale’, in grado di condizionare, al
di là degli Stati e della politica, le performances economiche dei
più svariati attori in un mondo teoricamente privo di confini e di
nazioni”. Il risultato di questo assunto ha prodotto alla lunga
risultati contrari alle attese di un più elevato benessere per il
maggior numero di persone, a causa degli alti costi sociali che il
funzionamento del libero mercato comportava.
Contro il primato assoluto del mercato, la necessità di difendere
la società ha determinato il ritorno dell’economia ad essere
subordinata “alla politica delle singole unità statal-nazionali”,
da cui è nata “la diffusione universale delle legislazioni sociali
e del protezionismo, la corsa alle colonie, il trionfo
dell’imperialismo, le crescenti rivalità tra le grandi potenze e
quindi la catastrofe della Prima guerra mondiale”; tutti eventi,
questi, che sono valsi a dimostrate il “carattere distruttivo della
market economy”. In particolare, la Grande Depressione del
1929-1932 ha concorso a motivare il ricorso alla protezione della
società, travolgendo le istituzioni liberali e, salvo il caso degli
Stati Uniti e del Regno Unito, a determinare la diffusione dei
fascismi, che alcuni anni dopo hanno provocato il secondo conflitto
mondiale.
Tuttavia, malgrado le affermazioni di Polanyi sulla fine della
“civiltà del XIX secolo”, quest’ultima, tre decenni dopo la fine
del secondo conflitto mondiale è risorta “più potente che mai”,
anche se in forme diverse rispetto al passato. Per Tuccari non è
possibile sottrarsi all’evidenza di trovarci “di fronte a un
déjà-vu”, nel senso che il principio del libero mercato è tornato
di nuovo in auge, giungendo a ridimensionare le legislazioni
sociali e lo Stato sociale di diritto introdotti nell’immediato
dopoguerra. Trascorsi, infatti i “Trent’anni gloriosi” successivi
al 1945, l’avvento dell’ideologia del neoliberismo ha favorito il
superamento di quanto era stato introdotto a tutela delle società.
A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, nota
infatti Tuccari, ogni argine alla riproporsi del principio del
libero mercato è crollato con la fine della Guerra Fredda, cui ha
fatto seguito la caduta dei regimi comunisti, l’irruzione della
Cina sulla scena del mondo, l’imposizione nella regolazione dei
traffici mondiali del “Washington Consensus”, la nascita
dell’Unione Europea (Trattato di Maastricht) e l’introduzione
dell’euro.
Da allora, in gran parte del pianeta “le logiche cosiddette
‘neoliberali’ del mercato hanno travolto e assoggettato tutto o
quasi tutto, incontrando resistenze sempre più deboli”. Esse hanno
esercitato anche un fortissimo effetto di omologazione sulle forze
politiche di governo e di opposizione, riducendo le distanze fra i
tradizionali partiti di destra e di sinistra, azzerando “la loro
vocazione più propriamente sociale, che doveva defluire in entrambi
i casi in piccole e per lo più poco influenti formazioni radicali e
antisistema”. Il neoliberismo ha provocato, nel 2007-2008, la
Grande Recessione dell’economia globale, che ha determinato la
propensione a difendere la società attraverso la rinascita di
movimenti nazionalistici e sovranistici, orientati a giustificare
l’attuazione di politiche che prescindevano dal fatto che il mondo
fosse ormai divenuto, attraverso la globalizzazione, sempre più
integrato. Anche l’Italia, osserva Tuccari, ha subito negli ultimi
decenni gli esiti destabilizzanti di questo processo, al quale ha
cercato di reagire “sottoponendosi volontariamente […] alle severe
regole dell’Unione Europea”; è stato questo il tempo della Seconda
Repubblica, segnato da una crisi strutturale dei partiti e delle
istituzioni democratiche tradizionali.
Con la Grande Recessione, abbattutasi sull’Europa a partire dal
2010-2011, ha ripreso vigore la propensione, da parte di nuovi
movimenti politici a difendere la società, con tale veemenza da
determinare la crisi della Seconda Repubblica e dei suoi principali
attori politici schierati sulla opposte sponde del centrodestra e
del centrosinistra, i quali “avevano rinunciato a farsi carico di
quel compito assoggettandosi al verbo dei pareggi di bilancio e
della market economy”. Tuccari ritiene che, per capire come
l’Italia sia giunta a questo punto, occorre considerare i vincoli,
sempre più stretti che, nel corso della Seconda Repubblica, hanno
legato il destino del Paese a quelli dell’Europa e del resto del
mondo. Anche a tale scopo, è necessaria l’adozione di una
prospettiva generale che consenta di tener conto di ciò che non
risulta riconducibile all’analisi della crisi della “civiltà del
XIX secolo” tracciata da Polanyi; ovvero, della differenza tra il
mondo della globalizzazione e quello al quale ha fatto riferimento
lo storico, sociologo ed economista ungherese.
A partire degli anni Ottanta, con l’avvento dell’ideologia
neoliberista e l’affermarsi progressivo della globalizzazione,
hanno perso d’importanza “le forme più tradizionali della sovranità
nazional-statale”, con la rinuncia alle funzioni da esse svolte
fino alla prima metà del Novecento”; funzioni che però non sono
sparite del tutto (perché conservate da importanti attori della
politica mondiale, quali, ad esempio, la Federazione Russa e la
Cina), sebbene erose, soprattutto in Europa, da alcune tendenze
largamente diffuse: innanzitutto, l’aspirazione alla costituzione
di “piccole patrie”, ovvero alla “ricerca spasmodica di
micro-sovranità sub-statali, spesso declinata in termini
etno-culturali; in secondo luogo, il progressivo consolidamento “di
grandi organizzazioni transnazionali e sovra-statali”, che sono
valse a sottrarre notevoli quote di sovranità ai singoli Stati;
infine, l’inarrestabile affermazione “del predominio capillare […]
delle grandi reti dell’economia e della finanza mondiali”, che
hanno dettato agli Stati le scelte politiche in materia di lavoro e
di welfare.
In questa situazione, caratterizzata da sovranità concorrenti, la
difesa della società da parte della politica dei singoli Stati si è
progressivamente indebolita. A tale stato di cose l’Italia non è
riuscita a sottrarsi, rivelandosi incapace di adattarsi alle
profonde trasformazioni economiche e politiche che
l’approfondimento della globalizzazione imponeva. Per il Paese, la
conseguenza è stata la propensione “ad assoggettarsi in modo
volontario […] al grandioso progetto di unione continentale”;
l’adesione a tale progetto, che soprattutto con l’introduzione
dell’euro si è prestata ad essere utilizzata come scudo protettivo
contro le turbolenze dei mercati globali, non ha però consentito
all’Italia il governo autonomo dei propri conti pubblici,
dissestati negli ultimi decenni dalla scarsa crescita e da un
welfare eccessivo rispetto alle rigide regole adottate per il
governo della moneta unica europea.
L’eccessivo indebitamento pubblico e la politica di austerità
perseguita dopo la Grande Recessione hanno determinato un
approfondimento del malcontento sociale, che le forze politiche
tradizionali e autoreferenziali non sono state in grado di
contrastare; di conseguenza, la difesa della società è stata
acquisita da robusti movimenti a forte vocazione sociale, che
“hanno assunto vesti in vario modo radicali e antisistema, con
profonde venature euroscettiche, sovraniste e no global”; ciò ha
costretto il Paese a risultare prigioniero e immobilizzato “nel
mondo turbolento, accelerato e soprattutto insocievole della
globalizzazione”, tra l’altro stretto nella morsa di due problemi
che hanno polarizzato il confronto politico (il problema
demografico e quello dell’immigrazione), destinati a pesare non
poco sul futuro. Mentre il primo di tali problemi demografico
(malgrado la sua gravità, quale risulta dalle serie statistiche
dell’Istat) è passato in secondo ordine, quello dell’immigrazione
“ha colonizzato – afferma Tuccari – l’agenda pubblica, che si è
schizofrenicamente divisa tra accoglienza e chiusure,
regolarizzazioni e criminalizzazioni nei confronti dei migranti”,
mancando di valutare in che misura i flussi di immigrati potevano
contribuire a risolvere gli squilibri nella distribuzione della
popolazione italiana per classi di età, causati dal calo della
natalità.
In conclusione, a parere di Tuccari, il risultato dell’evoluzione
dell’economia e della società dell’Italia degli ultimi decenni è
che “quella che trent’anni fa era la quinta potenza più avanzata
del mondo, viene oggi da più parti indicata come il ‘grande malato
d’Europa”. Naturalmente, niente esclude che il Paese possa uscire
dalla trappola che lo costringe da anni alla immobilismo.
Al riguardo, non è possibile sottrarsi al convincimento che,
sebbene il bisogno di una reale difesa della società sia sempre più
sentito in Italia (soprattutto dopo la drammatica esperienza della
pandemia da Covid-19), niente lascia presagire che le attuali forze
politiche al governo siano in grado di progettare un piano
d’azione sufficiente a smuovere il Paese dall’immobilismo; ne è
prova la loro litigiosità, che impedisce di varare un progetto
generale, sorretto da scelte e tempi certi, sull’impiego delle
risorse (del tutto insperate) rese disponibili dal “Recovery Fund”,
finanziato solidariamente dall’Unione Europea.
- SARDA NEWS -
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