Antonello Murgia
Nelle scorse settimane, stimolato dalle falle del sistema
evidenziate dall’emergenza Coronavirus e dall’intervista del
Messaggero a Sabino Cassese, in questo sito si è sviluppato un
interessante dibattito su come riportare in carreggiata la macchina
della salute che negli ultimi 20 anni se n’è allontanata. Senza
voler fare il giurista, sono convinto anch’io che la Costituzione
non debba essere toccata perché i suoi principi sono sempre validi
e perché quando la si è toccata, magari con le migliori intenzioni,
i risultati sono stati disastrosi: la Costituzione deve essere
applicata e non stravolta. Dico questo tenendo conto da un lato
delle considerazioni di Massimo Villone sul fatto che un quadro
unitario del sistema salute sia ancora possibile dopo le modifiche
del Titolo V della Costituzione, ancorché da queste ostacolato, e
dall’altro che, come hanno sottolineato nel tempo i giuristi,
introdurre elementi di decentramento in uno Stato con un impianto
unitario, ha un significato ben diverso da quello di costituire uno
Stato unitario federando Stati preesistenti come accaduto ad
esempio negli USA. Ma ciò che è stato è stato e auspicherei che
errori del passato ci servissero di monito per evitare di usare le
modifiche Costituzionali anche per decidere cosa cucinare per
pranzo. Premesso ciò, insieme al fatto che ritengo il federalismo,
il decentramento, una conquista democratica, il mio parere è che la
devoluzione alle Regioni in campo sanitario abbia prodotto
disuguaglianze che occorrerebbe correggere e che la cosa sia
possibile senza tirare in ballo ancora una volta la Costituzione. E
sono convinto che, nella condizione data, la discriminante di gran
lunga principale non passi attraverso la direttrice
centralismo/federalismo, anche se la devoluzione alle Regioni di
compiti che prima erano dello Stato è intervenuta accentuando
alcune caratteristiche negative. Le cose migliori, come promozione
della salute in Italia, sono avvenute negli anni ’80-‘90’ quando è
entrata progressivamente in funzione la L. 833/1978 istitutiva del
SSN e quando l’assetto del sistema era più centralizzato. Si potrà
obiettare, non senza ragione, che la condizione allora era molto
diversa da quella attuale nella quale una grave crisi economica,
che riduce brutalmente le risorse a disposizione, ha influito
enormemente di più di quanto non abbia fatto la riforma del Titolo
V del 2001. Aggiungerei che, se prendiamo due Regioni guidate dalla
stessa maggioranza, della stessa area geografica e con analogo
livello culturale e tenore di vita come la Lombardia ed il Veneto,
vediamo che i risultati della pandemia in corso (dopo che il
decentramento sanitario ha dispiegato i suoi effetti) sono stati
molto diversi. E non è che il governatore Zaia, ideologicamente,
non sia affine al suo omologo lombardo: ricordo, per fare solo un
esempio, che nel luglio scorso, quando la proposta di autonomia
differenziata era molto più forte essendo la Lega al Governo, Zaia
si esprimeva in termini di “Autonomia questione di vita o di morte”
e proponeva apertamente l’istituzione di LEP (Livelli Essenziali
delle Prestazioni) differenziati in ragione della ricchezza delle
varie Regioni. E allora cosa ha fatto sì che ad oggi, ogni 100.000
abitanti, il Veneto abbia 361 malati e 29 morti, mentre la
Lombardia ne ha avuto rispettivamente 739 e 135? Sottolineo il dato
della mortalità: in Lombardia ad oggi è stata 4 volte tanto (e 1
mese fa, per i noti ritardi organizzativi lombardi, era addirittura
6 volte tanto). In piccola parte avrà influito la differente
densità di popolazione (che in Veneto è il 60% di quella in
Lombardia), ma ciò che ha influito in misura decisiva è il diverso
modello di sanità che le 2 Regioni hanno portato avanti. Da un lato
la Lombardia, capofila del modello liberista (voucher, gestore
sanitario, privatizzazione spinta delle prestazioni, etc.) e
dall’altro il Veneto che ha mantenuto una buona Medicina del
territorio ed una gestione di gran lunga pubblica del sistema, che
le ha consentito la padronanza dell’emergenza con costi molto
inferiori non solo in termini di vite umane, ma anche economici.
Vale la pena notare che il Veneto rivendica con forza l’autonomia
dallo Stato, ma al suo interno applica (L. Reg. n.19/2016) un
sistema fortemente centralizzato nella c.d. “Azienda Zero”, mentre
la Lombardia applica un modello più decentrato (L. Reg. n.23/2015).
Tutto questo per dire, come peraltro si sa da decenni, che in
sanità la bontà del sistema e il suo rispetto del dettato
costituzionale ha a che fare soprattutto con la gestione pubblica
(e non con il solo ruolo programmatore pubblico) nei settori
strategici e che la cosa ha finora sostanzialmente prescisso dalla
scelta federalista/centralista.
La prima svolta negativa nella qualità del Servizio Sanitario
post-riforma sanitaria è stata l’aziendalizzazione introdotta con
il D.Lgs. 502/1992 dal Governo Amato I con ministro della Sanità
Francesco De Lorenzo (leader di quel partito che 14 anni prima
aveva votato contro l’istituzione del SSN). Con tale decreto, le
U.S.L. vennero trasformate in A.S.L. (Aziende Sanitarie Locali),
enti strumentali della Regione di appartenenza, dotati di autonomia
imprenditoriale e che applicavano “modelli organizzativi dei
servizi in funzione delle specifiche esigenze del territorio e
delle risorse effettivamente a disposizione”. Oltre alla
regionalizzazione delle Unità Sanitarie si introduce dunque
un’altra importante novità, quella delle compatibilità economiche,
che significa che chi ha più risorse potrà destinare più fondi alla
tutela della salute e chi ne ha meno dovrà accontentarsi. E i LEA
(Livelli Essenziali di Assistenza), che quello stesso D.Lgs.
502/1992 presentava come garanzia di erogazione a tutti delle
prestazioni necessarie, si rivelarono presto per ciò che erano: il
minimo indispensabile che la Regione era in grado di assicurare,
sulla base sempre delle suddette risorse disponibili. E fu così
che, mentre la ricca Lombardia inventava i voucher che assicuravano
la fornitura di prestazioni riabilitative anche a chi non aveva
nulla da riabilitare (con tante grazie dai bottegoni degli amici),
la povera Sardegna, come la generalità delle Regioni meridionali,
cominciò a tagliare prestazioni a chi ne aveva bisogno.
Per rimediare, non siamo costretti, a mio avviso, a scegliere fra
il modello in atto e la proposta di Cassese: l’unitarietà del
sistema a garanzia di una diffusa e omogenea tutela della salute,
non richiede affatto che la gestione sia statale: essa può
tranquillamente essere mantenuta regionale, come peraltro era già
prima del D.Lgs. 502. In un regime liberista come quello attuale,
ciò che fa la differenza rispetto al diritto alla salute non è la
maggiore o minore autonomia, ma soprattutto l’entità del
finanziamento del sistema. Ed essendo stato questo sottofinanziato
da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni, la
possibilità di salvaguardare in misura accettabile il diritto,
dipende dalla capacità della Regione di mettere a disposizione
finanziamenti supplementari. Oppure dalle possibilità economiche
dei singoli cittadini che mettono le mani in tasca per pagare ciò
che il Servizio sanitario non riesce più a garantire: il IX
Rapporto Rbm-Censis sulla Sanità pubblica, privata e intermediata,
presentato al Welfare Day 2019 ci dice che “sono 19,6 milioni i
forzati della sanità a pagamento”. E’ del tutto evidente come in
questo caso sia difficile poter continuare a parlare di diritto
fondamentale esigibile. Ma c’è di più, perché in realtà
l’invocazione delle compatibilità economiche ed i tagli conseguenti
non comportano normalmente un risparmio: infatti, il maggiore
ricorso ai privati conseguenza dell’allungamento dei tempi
d’attesa, produce un aumento della spesa che è stato trattato
generalmente con nuovi tagli, in un circolo vizioso il cui punto
d’arrivo, se non si inverte la tendenza in atto, è una parvenza di
sanità pubblica per gli indigenti ed un succoso mercato privato per
tutti gli altri (v. modello USA).
E se il criterio della spesa storica (finanziamento di ciascuna
Regione sulla base di quanto speso l’anno precedente) in vigore
negli anni ’70 era fonte di sprechi ed inefficienze, il criterio
efficientista del costo standard introdotto con il c.d. federalismo
fiscale (L. 42/2009 e D.Lgs 216/2010) mise una toppa che, per le
Regioni più povere, era peggio del buco. Ciò perché, come ci
ricordava don Milani, “non c’è nulla che sia più ingiusto quanto
far parti uguali fra disuguali”: garantire la salute in una ASL che
copre una parte di una grande città ha, per esempio, costi molto
minori rispetto alla ASL dell’Ogliastra che ha una popolazione
molto inferiore e dispersa su un territorio vasto e povero di
infrastrutture. E così, prendere come riferimento la media delle 5
Regioni più “virtuose” per stabilire l’entità del finanziamento
delle altre, ha il sapore dell’ingiustizia: per nostra fortuna, chi
ha lavorato all’implementazione di quelle leggi del 2009-10, ha
messo a punto un sistema che fa riferimento non al costo, ma al
fabbisogno standard, apportando delle modifiche alle quote
spettanti a ciascuna Regione sulla base soprattutto dell’età
(sostanzialmente, meno di un anno = peso maggiore; 1-65 anni = peso
standard; oltre 65 anni peso crescente con l’età). E a questo si
aggiunge un meccanismo perequativo (che quantitativamente è però di
entità molto minore) che interviene sull’IVA che lo Stato
restituisce alle Regioni, una parte della quale viene accantonata
per realizzare le compensazioni.
Ci sono poi altri modi, che passano per lo più inosservati, con i
quali il regionalismo aumenta di fatto le disuguaglianze sanitarie
dei più deboli. Un esempio è l’erogazione gratuita dei nuovi
farmaci. Una volta che l’AIFA ne autorizza l’immissione in
commercio, per la gratuità (e le nuove molecole costano in genere
molto), il farmaco deve essere inserito nel Prontuario Terapeutico
Regionale (PTR): a questo provvede una Commissione che si riunisce
periodicamente. Mi sono occupato di un farmaco contro l’artrite
reumatoide che da oltre un anno veniva erogato gratuitamente in
altre regioni e per il quale, così mi riferiva il funzionario
dell’Assessorato alla Sanità, occorreva attendere l’esame da parte
della Commissione; ma il funzionario non poteva dire, neanche
orientativamente, quando tale esame avrebbe potuto avvenire. E’
facile dedurne che anche l’inserimento nel PTR viene usato da chi
ha problemi di bilancio come meccanismo di contenimento della
spesa, creando così disuguaglianze fra chi ha la borsa piena e chi
ce l’ha semivuota. E il discorso vale allo stesso modo per le
attrezzature nuove o da rinnovare, per l’ammodernamento delle
strutture, etc.
Infine un altro elemento dall’effetto devastante sul diritto alla
salute sul quale ho avuto occasione ripetutamente di lamentarmi in
ambito sindacale e sul quale spero in un’inversione di rotta, è la
crescita, nei rinnovi contrattuali, di accordi di welfare sanitario
detto integrativo, ma in realtà ampiamente sostitutivo, che
reintroduce quel corporativismo sanitario con prestazioni legate
all’attività lavorativa che era presente nelle Mutue ereditate dal
fascismo e di cui la L. 833 aveva fatto giustizia.
E allora credo che anche in materia di salute il principio più
importante da far valere sia quello della solidarietà,
indispensabile per contrastare il divario sempre più preoccupante
fra ricchi e poveri. Ciò che incide in misura preponderante è
l’opzione di fondo fra interessi della collettività e interessi di
un capitale coccolato dall’ideologia liberista. Il potere regionale
ha prodotto risultati apprezzabili quando spirava un vento
democratico e maggiormente partecipativo, anche se con legislazione
ad esso meno favorevole (Titolo V originale), mentre sta producendo
risultati negativi ora che, pur con maggior decentramento del
potere decisionale, siamo preda del liberismo, al centro come in
periferia.
E il sottofinanziamento della sanità, accentuato dal pareggio di
bilancio introdotto in Costituzione nel 2012 con effetti a partire
dal 2014, apre una voragine fra regioni ricche e regioni povere: se
non si rimuove questo macigno, né l’opzione centralista, né quella
federalista potranno ridurre le gravi disuguaglianze regionali in
tema non solo di salute, ma anche degli altri diritti sociali.
- SARDA NEWS -
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