Gianna Lai
Proseguiamo la pubblicazione del post domenicale sulla stori< di Carbonia, dal 1° settembre 2019.[1]
La Camera del lavoro cittadina cercò di aggirare l’ostacolo, che
vietava le rappresentanze confederali in miniera, candidando
i minatori iscritti alla CGIL nelle liste delle Commissioni
interne, onde definire e mantenere un rapporto stabile
e diretto con la massa degli operai. Mentre i suoi dirigenti
ricoprivano cariche molto spesso anche ai vertici della della
Federazione minatori, instaurando così una lunga e durevole
prassi, tuttavia mai legittimata dalla Confederazione
nazionale, in linea di massima contraria alla concentrazione di più
cariche nelle mani di una sola persona.
Cuore propulsivo in città dell’azione sindacale organizzata è la
Camera del lavoro, che avrebbe sempre posto a suo
fondamento l’immediatezza della comunicazione fra vertice
confederale e territorio, i programmi e le politiche
del nazionale da definire e sviluppare in provincia e nei luoghi di
lavoro, la relazione diretta in particolare durante le
trattive sui contratti collettivi. Collocando fin dall’inizio gli
obiettivi di lotta della miniera e della città nei grandi temi
delle mobilitazioni nazionali, se già durante i lavori preparatori
del 1^Congresso provinciale del Sindacato Minatori, si propose
anche a Carbonia, a fianco alle lotte in difesa del salario e
dell’occupazione, il tema dei Consigli di Gestione, per i quali si
battevano allora, in particolare, gli operai delle aziende del
Nord. E poi i temi di un nuovo sviluppo dell’industria nel
territorio, a partire da quel famoso ‘prezzo del carbone’, come
titolava Il Lavoratore, del 10 novembre1945, l’articolo di Renato
Mistroni, che ben delineava i contenuti del dibattito sindacale a
quel tempo. Ancora la Camera del lavoro a definire le nuove forme
di lotte in miniera e di mobilitazione in città contro
licenziamenti e chiusura dei pozzi. Partendo dalla necessità
di abolire il prezzo politico del carbone, onde
eliminare il deficit dell’azienda, garantire migliori salari e
‘poter affrontare…con una certa tranquillità il mercato in regime
di concorrenza’. E nel contesto di quelle nuove proposte per
l’industrializzazione del territorio, azotati e concimi chimici dai
sottoprodotti del Sulcis, secondo le sperimentazioni del tempo del
fascismo, le prime ipotesi sarebbero state allora avanzate in
città, ancora in sede sindacale, dall’avvocato Marco Giardina,
futuro segretario della Camera del lavoro, e dall’ingegneGiuseppe
Russo, dipendente della SMCS, dopo la chiusura dello stabilimento
per la distillazione del Sulcis a Sant’Antioco, nella prima metà
del 1945. Sicché il movimento operaio di Carbonia sembrava voler
cominciare ad entrare nel merito della gestione aziendale,
affiancando agli obiettivi sindacali sul salario, sul
miglioramento delle condizioni di vita e sulla garanzia del posto
di lavoro, obiettivi politici più generali, possibilmente di
prospettiva, per far fronte alla crisi del carbone sardo, ormai
alle porte.
Mentre diveniva sempre più impegnativa la scelta dei componenti le
Commissioni interne, la formazione cioè delle liste in occasione
delle elezioni in miniera, insieme al programma che avrebbe dovuto
caratterizzarle, da discutere nelle affollate assemblee presso la
Camera del Lavoro. Quasi sempre formate da iscritti al sindacato,
solo raramente gli indipendenti tra i candidati e tra gli eletti,
l’intervento nei cantieri espressione di un continuo confronto con
le leghe, le Commissioni interne sarebbero state, ‘dal 1945 fino
agli inizi degli anni sessanta il soggetto della politica
sindacale in fabbrica’. Era infatti loro pertinenza la
contrattazione su competenze accessorie, premi di produzione,
cottimi, indennità di sottosuolo, in quanto esito delle
contrattazioni nazionali, definite su minimi uguali per tutti i
lavoratori dell’industria, da demandare poi, nella gestione, alle
parti presso le singole imprese e aziende. E di questo le
Commissioni interne di Carbonia intendevano occuparsi, sempre
combattivi e coraggiosi i rappresentanti, pur di fronte a una
situazione generale che ne ostacolava duramente la funzione:
una azienda del tutto ostile al dialogo e alla contrattazione,
impedita persino sui temi già definiti da accordi
nazionali . Perché a Carbonia, come in tutto il Mezzogiorno,
la limitazione più grossa, conseguente alla doppia
trattativa, sarebbe stata la debolezza del movimento a
imporre accordi vantaggiosi per i lavoratori in termini di salario,
già così fortemente penalizzati quei territori dalla
discriminatoria politica delle zone salariali: un divario, la
Sardegna apparteneva alla ‘terza zona’, che si sarebbe ridotto solo
a partire dal 1961, fino all’abolizione delle ‘gabbie’ nel
1969.
‘Iniziativa e poteri di contrattazione’ riservati alla
Confederazione generale, la centralizzazione, ‘necessaria,
data la grande miseria delle masse lavoratrici e la conseguente
necessità di una politica rivendicativa perequativa’.
Così alla spinta espressa dalla base non sempre risultava
corrispondere la politica e la linea d’azione della Camera del
lavoro, che di quella spinta avrebbe dovuto talvolta prendere
atto, suo malgrado, in particolare durante le lotte
spontanee promosse dalle Commissioni interne per la
rivalutazione del salario e della giornata lavorativa. In
contrapposizione con la politica aziendale dei cottimi, degli
straordinari e degli incentivi, segnata ideologicamnete dalla
volontà di far prevalere le diseguaglianze di trattamento in
miniera e che i lavoratori stessi riconoscevano come responsabili
delle gravi divisioni fra la massa operaia.
Gli scioperi spontanei avrebbero caratterizzato sopratutto quegli
anni, 1945-46-47, in vista della grave crisi del lavoro, già
annunciata fin dall’immediato dopoguerra, a seguito della
riapertura dei mercati. E non avrebbero tuttavia queste forme di
protesta raggiunto mai risultati importanti, opponendo la
SMCS, in sede di accordi aziendali, una tale rigidità anche su
cottimi e premi di produzione, da impedire a Carbonia
retribuzioni complessive appena decenti. Importanti, proprio su
questi temi, le considerazioni di Vittorio Foa sui rapporti tra
fabbrica e CGIL durante la gestione delle vertenze sindacali di
quegli anni, ‘ la spinta rivendicativa ugualitaria che
animava gli operai dell’industria, trovava allora una rispondenza
nella preoccupazione del Sindacato di garantire comunque dei
trattamenti minimi data la mole dei bisogni elementari
insoddisfatti. Questo può spiegare perché la CGIL ha lasciato
intatta la struttura contrattuale territoriale e centralizzata
ereditata dall’orientamento fascista e per molti anni (anzi per
troppi), ha visto con diffidenza un’area contrattuale aziendale.
…Certo fino al 1952 non mancano lotte aziendali, anche durissime,
per aumenti salariali e sopratutto contro licenziamenti e abusi e
discriminazioni padronali di vario tipo; ma lo schema predominante
fu quello della contrattazione nazionale…e si contribuì al distacco
tra organizzazione e masse lavoratrici e quindi alla grave crisi
sindacale degli anni Cinquanta’.
E il Sulcis non vi avrebbe fatto eccezione, le vertenze
aperte dal sindacato e dalla Camera del lavoro avrebbero avuto come
indirizzo prevalente la razionalizzazione e il miglioramento dei
cottimi che, spesso, la direzione non esitava a modificare o a
ridefinire secondo le sue proprie esigenze. In un continuo e
defatigante braccio di ferro tra azienda e Commissione interna,
sull’interpretazione delle tabelle stesse, rimaste tuttavia sempre
astruse e del tutto incomprensibili agli operai. Che per questo
mantennero nei confronti delle loro rappresentanze stima e fiducia,
e grande sostegno, esposti come erano, i singoli membri, alle
prepotenze dell’azienda, dalle minacce dirette, ai licenziamenti in
tronco.
References
- ^dal 1° settembre 2019. (www.democraziaoggi.it)
- SARDA NEWS -
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