Andrea Pubusa
Interviene un nuovo DPCM di Conte. Il governo insegue la
situazione e fa quello che può con luci ed ombre, ma con un
volenteroso impegno. Manca però qualcos’altro per battere il Covid,
manca l’arma decisiva; certo, le indicazioni degli scienziati e dei
comitati degli esperti sono il presupposto essenziale, ma ci vuole
altro, ci vuole anche e sopratutto la politica, perchè è questa che
si innerva nelle istituzioni e diventa azione pratica nei
territori, nei luoghi di lavoro, di svago e di studio, nella vita
della gente. Manca la solidarietà nazionale. Quella unità che ci
consentì, negli anni Settanta, di eliminare un altro altro
micidiale nemico: il terrorismo. E - si badi - si trattava di un
fenomeno insidioso e subdolo, ma molto meno pericoloso del covid.
Allora c’erano ammazzamenti e azzopamenti, sequestri di persona o
altri atti di violenza continui, ma l’azione rimaneva circoscritta:
si facevano fuori, si ferivano o si rapivano personaggi importanti
(magistrati, giornalisti, politic, imprenditori, agenti), la gran
massa però rimaneva esente. Non a caso fu l’assassinio del
sindacalista comunista Guido Rossa a scatenare l’ira dei lavoratori
e delle masse popolari e in breve tempo, con una mobilitazione
straordinaria a partire dalle fabbriche fu tolta l’acqua e l’aria
attorno ai brigatisti. I partiti tuttavia erano dichiaratamente
uniti, al di là della contingemza politica, salvo qualche
smarcamento di Craxi). Il PCI, pur all’opposizione, diede un
contributo decisivo di idee e di azione. Anche le forze minori
della sinistra, come il Pdup-Manifesto, erano della partita,
compatti. Salvo qualche frangia settaria o con la testa fra le
nuovole che gridava “nè con le BR nè con lo Stato“, la
linea della fermezza divenne sentita ed egemone.
Ecco ora quello spirito unitario non lo vedo salire. Basta leggere
i giornali, sentire Salvini e Meloni, e ciò che è più grave
osservare l’atteggiamento delle istituzioni locali, al seguito di
logiche di scheramento anziché impegnate a contrastare gli effetti
della pandemia, che insidia le comunità e i singoli. C’è il
proposito insensato, in molti, di trarre profitto da questa
disgrazia. Come superarla diventa secondario, l’importante è
cavalcare piccoli e grandi malcontenti, categorie economiche,
precari di ogni tipo, oggi fatti emergere dalla morsa
dell’inattività e del bisogno. C’è chi lamenta e accentua questa o
quella manchevolezza, che pur ci sono e talora sono gravi, anziché
indicare e lavorare ad una soluzione. Non è questo che serve;
proprio oggi l’unità nazionale è ancor più necessaria che nella
stagione del terrorismo perché, allora il nemico era a grandi linee
individuabile, localizzabile, ora è inafferrabile, è in ogni dove,
perfino nelle nostre case. Allora ci si poteva incontrare,
dibattiti, cortei, manifestazioni furono estesi e corali. Il paese
ebbe un grande sussulto democratico. Oggi non puoi, ora si deve
fare altro, ci si deve cimentarti in azioni molto più difficili se
si vogliono mantenere in piedi, almeno al minimo grado, le attività
di ciascuno, personali ed economiche. Per far questo occorre uno
straordinario lavoro di tutti. I singoli devono, senza attendere i
divieti del governo, fare la loro parte: chi non ha ragione
d’uscire (come me), sta a casa, le attività non essenziali (es.
l’andare a sciare in massa) non si fanno, le attività economiche e
la frequentazione degli spazi pubblici vengono monitorati uno per
uno a partire dai comuni. I sindaci, anziché lamentarsi, questo
devono fare. Che senso ha chiudere le vie del mio paese, quando non
c’è mai anima viva? A cosa serve chiudere il vecchio barbiere, che
riceve, per appuntamento, i pochi clienti, uno per volta e li
conosce tutti? Per i bar nei paesi, anche lì c’è un problema, si
tratta di vietare la bettola e lasciare la mescita uno o pochi alla
volta, al tavolino. In città si farà diversamente. Gli esercenti
devono entrare nell’ottica non di fare guadagni, ma di
sopravvivere, di evitare il sussidio. Anche nello spettacolo forse
qualche articolazione è possibile in alernativa alla chiusura
secca. Insomma, la prospettiva realistica è la resistenza
postazione per postazione. Tutto questo richiede un’azione diffusa,
instancabile e intelligente. I DPCM non possono soddisfare questa
necessità di diversificazione.
Come si vede, c’è un’azione individuale e corale da svolgere da
ciascuno di noi e dalle istituzioni locali fino al governo.
Questa è la solidarietà nazionale, questa è l’unica arma che ci fa
battere il virus in sé e le sue drammatiche consguenze economiche e
sociali. Insieme si rafforza anche la democrazia, attivando canali
e collaborazioni interpersonali, comunitarie e istituzonali.
Di fronte a questa urgenza, lo spettacolo che abbiamo di fronte è
sconfortante. I DPCM di Conte mantegono una generalità di
previsione che, per essere più articolata e attagliata alle diverse
realtà, necessiterebbe di ben altra risposta dal sistema delle
sutonomie locali. Occorre evidentemente una svolta.
E la dialettica politica? Si deve soffocare o comprimere? Neanche
per sogno! Ma va giocata su altri terreni, sulle grandi
opzioni del Paese e della istituzioni locali. E c’è tanto da
battagliare. C’è un filo di confine molto delicato e labile fra
dialettica politica e unità contro il virus, ma rispettarlo è
possibile. Che Iddio ci aiuti!
- SARDA NEWS -
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