Francesca Pubusa
Nei giorni scorsi ci ha lasciano Nino Garau, il
comandante Geppe. Nel 2016 aveva aperto l’anno accademico di
Scienze politiche con una bella lectio magistralis in un’Aula Magna
affollata di studenti e docenti. Ecco un ricordo di
quell’evento.
Nino era una persona di grande fascino e carisma, conservato ben
intatto a dispetto dell’età; ma era anche molto simpatico,
caratteristica amplificata, stavolta, dall’età: a volte era
spiritoso di proposito, altre volte non se ne rendeva conto; erano
i suoi modi a renderlo brillante in ogni caso.
Qualche giorno dopo averlo conosciuto ho pensato che, in effetti,
quando è diventato partigiano, Nino aveva l’età dei nostri
studenti: di qui l’idea di fargli aprire l’anno accademico
2016-2017 di Scienze politiche.
La Storia avrebbe incontrato i ragazzi di oggi: un’iniziativa
del tutto coerente con il progetto culturale della Facoltà di
Scienze politiche, in cui si insegnano le diverse chiavi di lettura
della nostra società – storica, giuridica, sociologica, economica,
statistica e psicologica – e quindi anche la Costituzione: la sua
genesi e la sua attuazione, sempre dai diversi punti di vista
offerti dalle nostre discipline.
Un’iniziativa coerente, inoltre, più in generale, con la funzione
dell’Università, poiché è certamente nella sua essenza far
incontrare agli studenti cittadini importanti che hanno fatto cose
importanti, quelle che si studiano nei libri e che si insegnano a
lezione, affinché non restino solo nozioni e costruzioni teoriche.
Vedere e sentire chi ha contribuito e contribuisce continuamente a
costruire e mantenere vive le basi e i valori del nostro Paese e
della nostra società ha una funzione senz’altro didattica, perché
insegna da dove arriviamo, il valore di ciò che abbiamo, la
necessità di non darlo per scontato e di preservarlo; ma
contribuisce anche alla formazione dello spirito critico,
attraverso il quale si può distinguere ciò che è incardinato nei
valori costituzionali e ciò che invece è del tutto fuori sesto. Nel
nostro caso, inoltre, gli studenti avrebbero potuto farsi un’idea
di quanto può essere diverso avere 20 anni, a seconda del luogo e
del periodo storico in cui vivi: un altro tassello essenziale nel
percorso di conoscenza e consapevolezza di noi stessi e della
nostra società.
Nino ha accolto l’idea della lectio con grande emozione, e si è
sentito onorato, perché aveva un grande riguardo verso
l’Università: quindi, non sentiva ragioni quando gli dicevo che
eravamo Cecilia ed io ad essere onorate che avesse accettato il
nostro invito; non era assolutamente possibile, tantomeno che lo
fossimo più di lui.
Abbiamo quindi iniziato una serie di incontri, lui, Dino e io, per
parlare di come organizzare il discorso: è stata un’esperienza
talmente intensa e divertente da farmi dimenticare che si era lì
per lavorare.
C’era il rapporto fra Nino e Dino, che lui trattava come uno
scapestrato (“Dove sarà finito quell’impiastro di Dino?”), oppure
con una certa sufficienza (Dino: “Bè, papà, adesso io e Francesca
ce ne andiamo”; Nino: “No, Dino, tu te ne vai; Francesca resta.
Francesca, ti piace la pittura?”).
Poi c’erano tutti i racconti della sua vita: che sua madre gliele
dava quando stava per troppo tempo al Bastione a giocare a pallone
con altri ragazzini e le guardie li inseguivano; che prof. Salis
era cattivissimo e, il giorno in cui lui doveva dare l’esame di
Diritto commerciale, bocciava tutti sulla definizione di “piccolo
imprenditore” - aveva bocciato pure lo studente così preciso nel
ripetergli la definizione avuta poco prima dalla dott.ssa Giovanna
Crespellani, sua assistente; che aveva fatto la tesi di Diritto
penale (“Sulla discrezionalità nel diritto penale sostantivo”),
relatore prof. Angioni e controrelatore prof. Gasparri; che quando
andava a lavorare, dopo essere uscito, guardava verso casa e vedeva
Dino il quale, invece di studiare, si affacciava al balcone; che il
suo filippino, Mario, di professione chef, gli faceva dei piatti
“spettacolosi”, e anche la pizza. Questo in particolare era un
problema, non tanto e non solo perché Nino non poteva mangiare i
pomodori cotti, quanto perché non trovava mai quella che gli
piaceva, cioè fine e croccante: quelle che portano a casa sono
sempre gonfie e molli.
Poi c’erano i momenti in cui serviva il computer (il “notebox”): si
abbassava la serranda, e Nino era super veloce ad attaccare i vari
cavi e accendere; si adirava se ci metteva troppo tempo ad avviarsi
– secondo lui – e quando non trovava qualcosa se la prendeva con i
figli che sicuramente gliel’avevano cancellata (“Mi fa stizza
perché ce l’avevo qui!”).
Il giorno della lectio è arrivato come sempre elegantissimo:
naturalmente il tempo non è bastato, ma è stato sufficiente per
un’esperienza che bisogna ringraziare di aver potuto vivere.
Nino, con il suo racconto preciso, appassionato, immediato, privo
di retorica e men che meno di autoreferenzialità, è stato per i
ragazzi di Scienze politiche e per noi docenti l’insegnamento che
nessun manuale può dare: la storia è fatta dalle persone normali,
che, in ragione delle circostanze in cui si trovano, della loro
sensibilità e delle loro idee, fanno delle scelte.
I ragazzi hanno ascoltato fermi e zitti – cosa che succede solo se
li catturi – del tutto impressionati dal vedere lì, in Facoltà, in
un’aula che erano soliti frequentare per le lezioni e per gli
esami, un uomo che aveva visto il disastro della guerra, che aveva
combattuto ed era stato arrestato e torturato, e che raccontava
tutto questo a loro, con energia e passione.
Un Comandante partigiano.
C’era anche Videolina, e, se non ricordo male, RAI 3: Egidiangela
Sechi ha fatto un servizio veramente molto bello, che ha reso
merito all’iniziativa, dopo aver intervistato Nino su una panchina
davanti all’Istituto Ciechi.
Il risultato di tutto questo è un grande affetto: ormai alcune espressioni di Nino sono diventate lessico famigliare, come“Mi fa stizza”, “spettacoloso” e “sventagliata” - Nino ha usato questa parola raccontando della sua liberazione dal carcere di Verona: durante il viaggio era in corso un bombardamento, e durante, appunto, una “sventagliata”, lui disse: “Mah, speriamo che non ci colpiscano”. Mi aveva impressionato l’uso di parole così comuni in un contesto così drammatico, e il fatalismo che esprimevano: una frase del genere noi oggi la useremmo quando siamo in spiaggia vicino a dei ragazzini che giocano a pallone; per “sventagliata”, poi, normalmente intendiamo il gesto di farci un po’ di fresco.
Sono molto dispiaciuta e infastidita dalla morte di Nino: però, diversamente da quanto mi capita quando viene a mancare una persona giovane – come alcuni professori di Diritto amministrativo che erano dei grandi pensatori, oltre che delle grandi persone – non posso lamentarmi. Lui ha vissuto una vita lunga e bella, alla faccia dei nazisti e dei fascisti.
Credo però che dovremo fare qualcosa per tenere Nino sempre
vicino a noi: per esempio, dedicargli una via o una piazza.
Servirebbe non solo a ricordarci sempre di lui, ma anche ad
insegnare ai bambini e a tutti coloro che vivono o passano in
quella via o piazza che i diritti e le libertà di cui oggi godiamo
sono frutto delle scelte coraggiose di persone intelligenti.
Servirebbe quindi anche a ricordarci che abbiamo il dovere di non
disperdere questo patrimonio, di farne buon uso e di arricchirlo, a
partire dall’eredità che le persone come Nino ci hanno
lasciato.
Ci ricorderebbe, fra l’altro, che abbiamo anche il dovere di
preservarlo da chi non lo conosce e da chi non ne capisce il
valore.
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