Gianfranco Sabattini
Claus OffE, uno dei più autorevoli ricercatori sociali
d’ispirazione marxista della Germania contemporanea e studioso
delle trasformazioni che hanno caratterizzato gli Stati dell’Est
europeo con la transizione verso la democrazia, ha di recente
pubblicato su “Il Mulino (n. 1/2020) l’articolo “I cantieri aperti
dal 1989”. Nell’ articolo Offe analizza ciò che è accaduto nei
Paesi dell’Est europeo dopo la caduta del Muro di Belino e la
conseguente implosione dell’ex URSS. Le cause economiche e
politiche dell’improvviso crollo delle dittature europee del
socialismo di Stato (che hanno segnato – secondo Offe – la vittoria
finale dell’Occidente nella guerra fredda) sono state studiate
dalle diverse scienze sociali, focalizzando l’attenzione sui
problemi posti dalla “transizione” dal sistema del socialismo di
Stato a un sistema democratico-capitalistico, secondo il classico
modello del Paesi democratici occidentali.
Dopo il crollo del vecchio sistema del socialismo di Stato,
l’interesse delle scienze sociali (sorrette dalle fondazioni e
dalle organizzazioni accademiche di riferimento) è stato infatti
quello di suggerire ai Paesi dell’Est europeo le procedure da
seguire per “la fondazione istituzionale, economica, politica e
culturale di un nuovo sistema sociale e, in definitiva, la
costruzione delle condizioni […] per la sua stabilizzazione e il
suo consolidamento”. Le problematiche che gli studi di transizione
hanno affrontato, sin dal primo momento del crollo delle ex
dittature del socialismo di Stato – afferma Offe – “possono essere
articolate in alcuni ‘cantieri’”, nei quali si concentrano quelle
problematiche, che oggi è utile tenere presenti, non solo per
comprenderne la natura, ma anche per tener conto dell’impatto che
la loro persistenza eserciterà sulla prosecuzione del processo di
integrazione politica dell’Unione Europea.
Gli studi del processo di trasformazione delle ex dittature,
passate dal socialismo di stato al capitalismo privato con le sue
istituzioni portanti (quali la proprietà privata dei mezzi di
produzione, il libero mercato del lavoro e i prezzi di mercato),
hanno trascurato la “questione di come e a beneficio di chi”
dovesse andare la privatizzazione del “capitale produttivo
statale”. In linea di principio, la privatizzazione avrebbe dovuto
risolversi in una equa distribuzione, fra i cittadini delle ex
dittature, dei titoli rappresentativi della proprietà del
precedente capitale statale.
Inoltre, sarebbe stata necessaria la costruzione immediata
dell’”infrastruttura istituzionale di un’economia capitalista”,
includente un sistema bancario articolato regolato da una banca
centrale, un sistema giudiziario autonomo e una disciplina del
funzionamento dei mercati, in particolare di quello del lavoro;
allo stesso tempo sarebbe stato opportuno il varo di Costituzioni
realmente garantiste dei diritti dei cittadini. Ciò non è però
avvenuto, in quanto la transizione dei Paesi ex socialisti è stata
realizzata da soggetti che avevano “acquisito esperienze
professionali e competenze sotto il vecchio sistema” e fortemente
influenzata “dalla presenza al loro interno” di presunti esperti
occidentali, “dalla competenza spesso dubbia e dagli obiettivi
discutibili”.
Tutto ciò ha comportato che, con la transizione dei Paesi dell’Est
europeo dal regime autoritario, che li aveva “plasmati” per tanti
anni, a un sistema liberale, non fosse preventivamente risolta la
questione delle “giustizia transazionale”, ovvero del trattamento
che si sarebbe dovuto riservare alle “élite del vecchio regime” e
alle loro vittime, in modo che il nuovo regime potesse “essere
reputato tanto realizzabile quanto giusto”. Solo risolvendo tale
questione, sarebbe stato possibile realizzare all’interno dei Paesi
in transizione verso istituzioni liberali una riduzione del
potenziale conflitto tra “aguzzini” e “vittime”, che sarebbe
servito a creare “fiducia nel nuovo regime e nelle sue istituzioni,
attraverso l’applicazione di metodi più o meno estensivi di
‘lustrazione’”.
Non va tuttavia trascurato il fatto che il processo di transizione
è stato “guastato”, oltre che dalle circostanze appena ricordate,
anche dal profondo conflitto politico-culturale riemerso tra i
gruppi sociali etnicamente diversi esistenti all’interno di molti
Paesi dell’Est europeo. Ciò è stata la conseguenza del diverso modo
di concepire lo Stato-nazione da parte dei popoli dell’Europa
orientale rispetto a quelli dell’Europa occidentale. Laddove gli
Stati-nazione dell’Europa occidentale – afferma Offe – sono
concepiti come proprietà di tutti i cittadini, quelli dell’Europa
orientale sono considerati come proprietà esclusiva solo dei
cittadini etnicamente nativi, per cui le minoranze etniche interne
esistenti sono state “considerate teste di ponte esterne di popoli
vicini ricordati e temuti per il loro passato storico di egemonia
imperiale”: ciò è accaduto, ad esempio, per i russi etnici in
Estonia, Lettonia e Caucaso, dei tedeschi in Polonia, degli
ungheresi in Slovacchia, Romania e Serbia, dei serbi in Croazia e
dei turchi in Bulgaria.
Non deve, infine, essere trascurato il fatto che le trasformazioni
avvenute nei Paesi post-comunisti sono state fortemente influenzate
da “attori esterni”, per cui – a parere di Offe – non è da
ritenersi esagerato “parlare di un tentativo di ‘conquista’
territoriale da parte dell’Occidente”. Tali “attori” sono stati
presenti sin dai primi anni Novanta, allo scopo di promuovere la
democrazia. Ad assumere un ruolo prevalente nel realizzare la
trasformazione dei Paesi dell’Est europeo sono state però le
“entità sovranazionali quali la Nato, l’Unione Europea e il Fondo
Monetario Internazionale”; mentre la Nato si è concentrata “sullo
spostamento permanete dei suoi confini militari verso Est”,
l’obiettivo dell’Unione Europea e del Fondo monetario è stato
quello di sostenere “l’occidentalizzazione’ economica, politica e
istituzionale dei Paesi della regione”, a condizione che fosse
accettato l’”intero acquis legislativo dell’Unione [l’insieme dei
diritti, degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che
dovevano essere accettati senza riserve dai Paesi che aspiravano ad
entrare a far parte dell’Unione Europea] e della sua coerente
attuazione”, implicante la complessiva modernizzazione e
liberalizzazione politica ed economica secondo i modelli della
democrazia capitalista occidentale. A seguito dell’accettazione di
tali condizioni, undici Paesi post-comunisti hanno potuto aderire
all’Unione Europea.
Ora che le condizioni poste originariamente hanno perso di
efficacia, la domanda da porsi riguarda la “qualità dei risultati”;
questi, secondo Offe, sono contrassegnati da un’evidente delusione
per entrambe le parti: gli Stati originari dell’Unione europea
lamentano “la parzialità e in alcuni casi l’evidente fallimento
della modernizzazione e della liberalizzazione politica e
istituzionale dei nuovi Stati membri”, mentre questi ultimi
“denunciano il fatto che il completamento della loro potenziale
conversione economica è alquanto distante”, e dove è stata portata
avanti con qualche successo, ciò è avvenuto al prezzo del dilagare
della corruzione politica e “di una distribuzione fortemente
regressiva di redditi, risorse e altre opportunità di vita”.
Inoltre, in molti dei nuovi Stati membri dell’Unione Europea, i
problemi connessi, ad esempio, con la sicurezza sociale,
l’assistenza sanitaria, l’edilizia abitativa, il regime
pensionistico e la prevenzione della povertà sono rimasti
irrisolti, con effetti negativi sul piano elettorale; ciò è valso
infatti a consentire che i movimenti populisti, con pulsioni
nazionaliste e xenofobe, acquisissero una forza politica ben
maggiore rispetto a quella ottenuta dagli stessi movimenti
affermatisi nei Paesi dell’Europa occidentale.
Offe ritiene che l’aumento dell’importanza politica dei movimenti
populisti sorti nei Paesi dell’Est europeo sia dovuto al fatto che
tali Paesi “sono cresciuti sotto le premesse istituzionali e
politiche del socialismo di Stato”; ragione, questa, per cui essi,
non essendo abituati ai rischi connessi alla formazione di
eccessive disuguaglianze distributive, al ricorrere di alti livelli
di disoccupazione e ai costi delle abitazioni determinati dal
libero mercato, hanno finito con l’assumere un atteggiamento
scettico nei confronti delle promesse attese dalla trasformazione
istituzionale, economica e politica subita. In particolare,
l’aumento della disuguaglianza distributiva ha portato “da un lato,
a una crescente frattura politico-sociale ed economica tra Est e
Ovest all’interno dell’Unione e, dall’altro, a un conseguente
aumento delle tendenze migratorie” della forza lavoro giovanile
verso i Paesi dell’Ovest europeo. Negli ultimi trent’anni, infatti,
nota Offe, tutti Paesi dell’Europa orientale hanno perso dal 10 al
20% dei loro cittadini in età lavorativa, con il risultato del
“trasferimento (senza compensazione) di capitale umano da Est a
Ovest che, non solo ha aiutato i Paesi beneficiari in progressivo
invecchiamento a colmare il loro gap demografico, ma anche […] a
risparmiare sulla formazione professionale e sul costo del
lavoro”.
Gli effetti possibili che possono portare questi consistenti
movimenti migratori – ricorda lo stesso Offe – sono di duplice
natura: da un lato, possono indurre nei Paesi di emigrazione la
paura che gli emigranti nativi debbano essere sostituiti da
immigrati non europei, e dall’altro lato, possono ostacolare in
modo permanente la loro crescita economica; due ordini di effetti,
questi, che andranno ad alimentare le chiusure xenofobe e
nazionalistiche dei movimenti populisti elettoralmente già
affermati.
Ci sono voluti trent’anni – sostiene Offe – perché divenisse chiaro
per gli establishment dei Paesi dell’Europa occidentale che “la
lunga mano del passato socialista delle società post-comuniste ha
tuttora una presa piuttosto forte sul loro presente”; infatti,
nonostante la crescita economica avvenuta all’interno di alcuni
Paesi (come, ad esempio, in Polonia, nella Repubblica ceca e in
Slovacchia) e i consistenti trasferimenti di risorse finanziarie
dall’Ovest verso l’Est, “permangono tuttora differenze fortemente
radicate”, non solo a livello di benessere, ma anche di preferenze
politiche. Queste differenze tra Oriente e Occidente europeo
ostacolano, sia la cooperazione a livello di Unione (come stanno a
dimostrare le esperienze nel campo della politica migratoria), sia
(e questo è ciò che più conta dell’analisi di Offe) l’ulteriore
processo di integrazione politica dell’Unione Europea; ciò perché
alcuni dei problemi che caratterizzano la vita politica e sociale
dei Paesi che hanno vissuto l’esperienza del socialismo di Stato,
difficilmente potranno essere risolti attraverso le politiche
dell’Unione, spingendo tali Paesi, memori della propria esperienza
storica, e con una cultura politica e una mentalità modellate da
quella esperienza”, ad affrontare autonomamente i loro problemi
sociali, che la trasformazione subita non ha consentito di
risolvere in modo socialmente condiviso.
E’ vero che l’Unione europea ha a sua disposizione una notevole
quantità di risorse (materiali e diplomatiche) con cui
“ammorbidire” le posizione dei Paesi dell’Est europeo, ma non potrà
essere facilmente rimosso dalla memoria storica di tali Paesi il
fatto di essere stati costretti, dalla fine degli anni Trenta, a
patire il dominio di potenti vicini, sia dell’Europa occidentale
(in particolare della Germania), sia di quella orientale, con il
dominio più che quarantennale dell’ex URSS.
In conclusione, secondo Offe, non deve sorprendere se di questi
sentimenti, duri da rimuvere, produrranno “fonti di attrito” nelle
relazioni tra tutti i Paesi membri dell’Unione Europea”; triste
conclusione quella di Offe, che lascia presagire come gli egoismi
nazionali dei Paesi europei occidentali e le paure di quelli
orientali, congiuntamente considerati, possano prefigurare per
l’attuazione del “grandioso disegno di integrazione politica
dell’Europa” un futuro non certo radioso.
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