Tonino Dessì
La crisi che stiamo vivendo a causa del rischio epidemico tende
a stimolarmi riflessioni generali, più latamente teorico-culturali,
su questioni istituzionali e sociali, con qualche riflesso
politico.
Una su tutte intanto è che nella ridondanza del clamore mediatico e
da social da un lato stiano emergendo tendenze concrete assai
rischiose, dall’altro che a queste tendenze non si contrapponga
nulla più che qualche astrattezza teorica.
In particolare condivido poco gli argomenti di chi parla di uno
“stato di eccezione” quale prova generale di una più diffusa
tendenza autoritario-poliziesca (di matrice capitalistica?).
In realtà l’unico Paese in “stato d’eccezione” pare essere la
Cina.
I governi locali e centrale cinesi hanno inizialmente censurato e
represso le persone (operatori medici e pubblicisti web) che
avevano segnalato l’anomalia di infezioni virali a Wuhang. Poi, con
l’esplosione del contagio nel cluster (una città interessata di
undici milioni di abitanti e una regione di potenziale diretto
rischio epidemico di sessanta milioni di persone) e con la paura
che la situazione sfuggisse loro di mano, son ricorse a drastiche
misure di isolamento: è dell’altro ieri la notizia di una prima
condanna addirittura alla pena capitale di un cittadino cinese che
avrebbe tentato di uscire clandestinamente dalla zona di
quarantena.
Se si esclude l’Italia (primo Paese in Europa nel quale sono stati
individuati due focolai infettivi, uno nel Veneto e uno in
Lombardia), il resto dell’Occidente ha inizialmente reagito con
estrema prudenza.
Solo pochi giorni fa, in effetti, il rapporto ufficiale elaborato
dal Centro epidemiologico UE (che in queste ore fa parte delle
informazioni trasmesse in lingua italiana dalle autorità sanitarie
alle strutture e ai presidi pubblici, medici di famiglia compresi),
ha cominciato a rappresentare uno scenario previsionale sul rischio
di manifestazione di focolai del Covid-19 in UK e nei Paesi
europei, al netto dei due italiani, collocandolo fra il “moderato”
e l’”elevato”, per sollevarlo poche ore dopo a “molto elevato”.
Avrebbe dovuto essere fin dall’inizio una previsione
plausibile.
Per qualche settimana è apparsa invece stridente la differenza fra
l’understatement della comunicazione nei principali Paesi europei
del centro-nord e il parossismo informativo allarmistico che ha
attraversato l’Italia intera (causato non poco dai nostri accesi e
tutt’altro che accantonati conflitti politici interni).
Un understatement -già incrinato tuttavia da qualche manifestazione
di isteria xenofoba rivolta agli italiani, soprattutto del
Centro-Nord (anticipo di nemesi sulla xenofobia dominante nella
maggior forza politica di quelle Regioni, la Lega Salviniana)- che
non avrebbe dovuto apparire nient’affatto convincente.
Era implausibile infatti che l’infezione in altri Paesi del
Continente non si fosse verificata: non viaggiano per il mondo solo
gli italiani del Veneto e della Lombardia.
E infatti in questi giorni Francia e Germania stanno sperimentando
un’agitazione prossima alla psicosi non troppo differente da quella
italiana.
Naturalmente è auspicabile che le autorità sanitarie dei nostri
Paesi vicini non agiscano ancora con reticenza imprudente.
Tuttavia, se fossi un sovranista di quelli che ci hanno sfracassato
le scatole contro la UE, se fossi un nazionalista di quelli che
detestano il IV Reich germanico-francese del XXI secolo, se fossi
uno di destra di quelli che “Prima gli italiani”, forse, anziché
prendermela con le inadeguatezze del patrio Governo, reclamerei una
più incisiva iniziativa per assicurare che i protocolli in atto nei
Paesi confinanti più ravvicinati, diretti e indiretti, siano
adeguati a prevenire che da oltre quei confini e dalle persone che
risiedono e che vi transitano non arrivino in Italia altri vettori
di contagio.
Ma siccome per loro storia specifica alle destre italiane è sempre
premuto di più deprezzare qualsiasi condizione presente in Italia
al solo fine di provocare restrizioni delle libertà sociali, civili
e democratiche, di tutto il resto poco fregandogliene, mi trovo a
far queste domande io, che certo non pretendo nemmeno di insegnar
loro a fare dignitosamente il proprio mestiere.
È vero comunque che in Italia abbiamo assistito e stiamo assistendo
a impulsi politici e anche istituzionali convulsivi e
contraddittori.
Nell’opposizione di destra (più da parte della Lega che da parte di
Fratelli d’Italia o di Forza Italia) prima si è paventato
l’ennesimo rischio da immigrazione e si è invocata la chiusura di
porti, aeroporti e frontiere; poi, a fronte delle conseguenze di
immagine estera di quella che è parsa una vera e propria sindrome
psicotica interna (un vero e proprio boomerang anti italiano dai
pesantissimi riflessi economici), si è passati a una richiesta di
governo di emergenza, per poi ripiegare sull’indicazione di
provvedimenti di sostegno finanziario e di annullamento delle
imposte a favore delle attività economiche delle regioni del Nord
più colpite.
Non meno preoccupanti sono tuttavia alcune tendenze che si sono
manifestate a livello politico-istituzionale, fra queste il
conflitto fra Governo e alcune Regioni.
Su questo conflitto (fortunatamente al momento ricondotto a livelli
non gravemente incidenti sull’operatività del sistema sanitario e
di protezione civile) si è innescata una reazione a mio avviso
assai preoccupante proprio in diversi ambienti dell’area
democratica e di sinistra.
La scorsa settimana alcuni tra i principali giornali (fra i quali
La Repubblica con un articolo del solito Sergio Rizzo), poi alcuni
articoli comparsi sui siti web di MDP-Art.1 (una delle componenti,
quella bersaniana-dalemiana, di LeU), di PaP (Potere al Popolo) e
della CGIL-Sanità hanno puntato l’attacco, in tema di gestione
dell’emergenza virus, sulle Regioni, con annessa esplicita
rivendicazione di una “statalizzazione”, anzi “ristatalizzazione”
del SSN.
In un’intervista televisiva ha su questo rischiato uno scivolone
persino il Presidente Conte, per poi rientrare nella ragionevolezza
nel successivo incontro in teleconferenza con i Presidenti di tutte
le Regioni, iniziato molto teso proprio a causa di contrastanti
dichiarazioni sul tema, poi conclusosi in chiave pienamente
collaborativa.
Occorrerebbe intanto conservare memoria storica e tener presente
che il SSN nasce con la legge 833 del 1978, che la sinistra storica
ha sempre rivendicato come una grande riforma: è stata infatti una
delle ultime “nazionalizzazioni” della stagione del centrosinistra
degli anni ‘60-‘70.
Ed è nato, conformemente a Costituzione, a gestione regionale
(anzi, originariamente locale, con le USL prima che venissero
aziendalizzate per provvedimento statale in AUSL e in ASL), ma a
coordinamento normativo e finanziario affidato alla legge dello
Stato e a coordinamento operativo incentrato sulla Conferenza
Stato-Regioni.
Prima non c’era un servizio sanitario statale da rimpiangere:
semplicemente non c’era il SSN.
C’erano le mutue corporative, solo per i lavoratori che ce le
avevano, oltre alle casse mutue degli ordini professionali.
Per gli altri e per i senza reddito c’era l’assistenza e
beneficenza comunale, pubblica e privata.
Nemmeno tutti i grandi ospedali pubblici erano statali, ma erano
gestiti da una congerie incredibile di istituti, enti, opere,
consigli di amministrazione di varia composizione.
Il resto era sanità privata, prevalentemente legata alla finanza
della Chiesa cattolica.
Corre ancora l’obbligo di ricordare a chi non ne fosse stato
consapevole che nel dicembre 2016 abbiamo votato NO anche al
riaccentramento di poteri in materia di sanità.
E’ opportuno far presente che il tentativo di ridurre la sanità
pubblica universale passa anche per la sua sottrazione alle
competenze regionali (dopodiché le Regioni, visto che l’80 per
cento del bilancio di quelle ordinarie e più della metà del
bilancio di quelle speciali consiste nelle entrate e nelle spese
per il SSN, si potrebbero senza meno abolire).
Non meno opportuno pare far presente che per quanto possano starci
sulle scatole i “Governatori” leghisti e per quanto possiamo
disistimare la Giunta sardoleghista nostrana (ma non è che alla
precedente Giunta di csx-sovranista in salsa sarda siano stati
riconosciuti particolari meriti), è meglio poter giudicare da
vicino gli amministratori regionali, che non sapere manco chi
cavolo sarebbero i gestori ministeriali di stanza a Roma e di varia
e non irrilevante provenienza territoriale, ineluttabilmente
lottizzati per via politica, di un SSN centralizzato.
Se quel sistema fosse centralizzato il confronto politico e
mediatico sull’emergenza sarebbe anch’esso totalmente centralizzato
e, fra gli altri, oggi Renzi e Salvini imperverserebbero
implacabilmente anche in questo.
Ma poi, qualcuno ha idea di cosa significherebbe un SSN interamente
statale in mano ai passati Governi Berlusconi, all’ex Governo
giallonero o a un non auspicabile, tuttavia ancora possibile
prossimo Governo di destra a trazione leghista?
E’vero,non sono mancati tentativi anche velleitari e improvvisati
di fughe in avanti, prontamente tuttavia rientrati (il Governo ha i
poteri per bloccare ogni stravaganza e ne dispone anche di
maggiori, all’occorrenza).
È vero che la macchina anche comunicativa istituzionale non è al
meglio (però i media si sono rivelati assai più allarmisti e
approssimativi della comunicazione istituzionale, che tuttavia
risente del loro condizionamento).
Ma io credo non possa sfuggire a una razionale percezione che senza
le Regioni (e senza i principali Comuni, specie metropolitani) il
Governo oggi starebbe annaspando.
Tutto si può migliorare, nulla va dimenticato di quanto è stato
fatto a danno dello stato sociale da decenni, a livello centrale
non meno che a livello locale.
Soprattutto non andrebbe dimenticato che la spinta anche regionale
alla privatizzazione è stata frutto, oltre che di alcune scelte
programmatiche consapevoli delle principali Regioni governate dalle
destre, anche di un mutamento politico-culturale che ha coinvolto
Regioni governate dal Centrosinistra e più ancora è stata
assecondata ed indirizzata da scelte di politica finanziaria
centrale di drastica riduzione delle risorse per il sistema
sanitario pubblico operate sul Fondo Sanitario Regionale, di
riduzione delle assunzioni derivante dai blocchi dei concorsi
pubblici stabiliti con leggi dello Stato, di corrispettivo blocco
delle retribuzioni pubbliche imposto sempre con legge dello Stato e
di taglio dei servizi e dei posti letto pubblici imposto a livello
di Piano Sanitario Nazionale a seguito degli standard concordati in
sede di Conferenza Stato-Regioni, mentre sempre con legge dello
Stato è stata disposta l’aziendalizzazione sul modello privatistico
delle USL, diventate ASL.
Talchè di regionalizzato, del SSN pubblico, ha finito per restare
abbastanza poco, se non la gestione dell’esistente secondo gli
indirizzi di contenimento imposti centralmente.
Un esistente che ovviamente risente delle sperequazioni
territoriali, che permanendo queste condizioni saranno
difficilmente modificabili da parte delle Regioni, soprattutto del
Sud e delle Isole, salvi appunto i margini e i pretesti per aprire
a una più ampia presenza del settore privato (come del resto
abbiamo visto in Sardegna con la vicenda della Clinica Mater
Olbia).
Ecco, se c’è un rischio che l’attuale “stato d’eccezione” dia luogo
a nuove modifiche strutturali permanenti del sistema, io lo vedo
qui, in assenza di un’inversione politica che poco dovrebbe avere a
che fare con nuove invocazioni di centralismo statale e molto di
più dovrebbe aver a che fare con una ripresa della consapevolezza
del valore profondo di un sistema di welfare pubblico universale
qualificato e incentrato sulle reali esigenze dei cittadini e dei
territori.
Quanto sta accadendo dovrebbe perciò essere motivo di ripensamento
proprio nella strenua difesa e nella forte pressione per il
rinnovamento e il potenziamento del SSN pubblico. Però non
rischiamo di avallare anche in questa occasione subdole incursioni
reazionarie.
- SARDA NEWS -
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