Andrea Pubusa
Ho sempre pensato che la
professione del magistrato sia una delle più difficili e delicate.
Richiede doti non comuni. Dottrina, buon senso, conoscenza di tutte
le situazioni su cui è chiamato a giudicare. Ricorda Piero
Calamandrehi in un bel libro (”Elogio dei giudici da parte di
un avvocato“), di cui consiglio la lettura a tutti gli
avvocati e magistrati, che un giovane magistrato fiorentino (poi
disgraziatamente ucciso da un cecchino fascista) per capire la
situazione dei detenuti, si fece rinchiudere per una settimana in
incognito nel carcere fiorentino. Ora, il difetto maggiore dei
magistrati, non è generalmente la dottrina, anche perché oggi con
internet è facile avere i precedenti giurisprudenziali e
dottrinali, è la capacità di comprendere il fatto, di apprezzarne
tutti i risvolti oggettivi e soggettivi. Il diritto infatti non è
solo norma o principio astratto, nasce dalla dialettica
norma/fatto, cosicché la stessa disciplina può e deve essere
declinata in modo diverso a seconda delle caratteristiche del
fatto. E’ questa capacità che rende i giudizi giusti, accettabili.
Un’altra delle doti, anzi direi dei doveri, del magistrato è il
silenzio: Al contrario degli avvocati che spesso hanno il dovere di
parlare, i magistrati devono farlo solo con decreti, ordinanze e
sentenze. Punto. Non sarò certo io a sostenere che i magistrati,
come cittadini, non debbano partecipare al dibattito pubblico, ma
devono farlo in riferimento a discussioni generali, in cui non
siano coinvolti i loro processi e loro stessi. Non possiamo
dimenticare il contributo importante che molti magistrati
democratici e le loro associazioni hanno dato nelle battaglie in
difesa della Costituzione, delle garanzie e delle libertà contro
gli attacchi provenienti da varie parti e, tantomeno, il tributo di
sangue nel contrasto al terrorismo e alle mafie. Qui si apre un
campo in cui la gratitudine ai magistrati deve essere manifesta e
senza riserve. Tuttavia, quando il magistrato abbandona questo suo
terreno e scende nella polemica politica contingente o parla di sé,
sbaglia al di là del merito delle questioni e, ciò che è peggio,
perde autorevolezza.
Nella polemica con Bonafede Di Matteo ha commesso questo errore.
Intanto perché parlava di sé, in secondo luogo perché ha sollevato
la questione in una trasmissione TV per sua natura volta a
distorcere la vicenda stessa a fini di polemica pretestuosa e
improduttiva. Di Matteo ha inoltre insinuato che la scelta del
ministro sia stata condizionata dalle pressioni mafiose, da cui è
stato facile a certi media lanciare la gran cassa su una
responsabilità di Bonafede nella scarcerazione, causa pandemia, di
alcuni pezzi da novanta della mafia, mentre è noto che quei
provvedimenti vengono assunti dai giudici di sorveglianza in
perfetta autonomia e indipendenza senza possibilità di
intromissioni ministeriali. D’altronde, Bonafede e i pentastellati
di tutto possono essere accusati fuorché di essere accondiscendenti
coi delinquenti, essendo a tutti noto che i grillini hanno
riportato nella politica, in presenza di un malcostume dilagante,
la centralità della questione morale. Si dice che anche i migliori
sbagliano, ed è umano, tuttavia chi nell’opinione generale
simboleggia rigore professionale e morale dovrebbe essere più
prudente nel sollevare questioni personali. In certi casi è proprio
vero che il silenzio è d’oro.
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