Gianna Lai
Continua la storia “domenicale” di Carbonia, iniziata il 1° settembre 2019.[1]
Le gabbie conducono i minatori a ‘meno 400′, robuste
sbarre di ferro composte di due piani, ciascuno dei quali può
contenene una ventina di persone. “Sul pavimento una coppia di
rotaie consente di utilizzarle anche per portare in superficie i
vagoncini carichi di carbone e rispedire nel sottosuolo quelli
vuoti. Le gabbie risultano sospese a robusti cavi d’acciaio
imperniati in grandi ruote montate sulla sommità di torri,
anch’esse d’acciaio, i castelli. Ad azionare il tutto potenti
argani elettrici: funzionano con il sistema dei contrappesi, una
gabbia sale e l’altra scende” , il controllo, nella Sala comando
degli ascensori e dell’intero apparato per l’estrazione.
Le condizioni della miniera, come al tempo del fascismo, sempre
faticosissimo il lavoro e pericoloso, attrezzate solo le nuove
gallerie aperte a Nuraxi Figus e Seruci, più moderne e più
sicure. Gallerie ampie in cui è possibile introdurre le nuove
macchine, “la monorotaia ancorata alla volta della
galleria ha sostituito le berline nel trasporto del carbone e
dei materiali. E non è la sola novità nell’evoluzione del
lavoro in miniera, dove l’estrazione del carbone viene affidata a
possenti macchine che sbriciolano la vena”.
Resta, per i minatori, lo stesso sfruttamento del passato, “nelle
gallerie si lavora senza interruzione, neppure una breve pausa per
consumare il pranzo frugale preparato dalle mogli o dalle madri. I
minatori devono mangiare frettolosamente, quelle le regole, guai a
sgarrare”, la testimonianza di Antonio M. in ‘Senza sole né
stelle’, di Sandro Mantega 1).
E gli stessi pericoli del passato, nei cantieri delle altre
miniere, ” I minatori avevano perforato una grande bolla d’acqua
chiusa nella montagna, …schizzata via a pressione, essa aveva
allargato il foro e in pochi minuti allagato un paio di cento metri
di galleria….e c’era il pericolo che arrivassero altre venute
d’acqua. Le pompe, se c’erano, non potevano fare nulla, erano
piccole e inutili e poi erano state allagate pure quelle. A
noi, esperti muratori, il direttore Taddei disse di costruire un
muro, con una porta stagna, per impedire l’allagamento di tutta
l’altra parte della miniera. Abbiamo lavorato per un paio di
giorni, senza farmarci mai …… Davanti avevamo l’acqua che saliva,
dietro i minatori che continuavano a lavorare con paura, ….la forza
dell’acqua avrebbe ancora potuto sfondare il muro….L’acqua iniziò
poi a calare da sola, la miniera si asciugò e il nostro muro
venne fatto saltare”: dalla testimonianza di Paolo Sarais, nel
1947-48 a Serbariu, che conclude dicendo come questi episodi
fossere allora molto frequenti.
Così Gino Armosini, a Serbariu dal 1947: all’inizio del
turno, “ci si toglieva gli abiti del viaggio e ci si metteva
gli abiti sporchi ed ancora bagnati di sudore del giorno prima”, e
poi in Lampisteria “si versava una medaglia e si
prendeva la propria lampada, una bestia con una batteria che pesava
5 chili..” In galleria, senza neppure la protezione del casco
e degli scarponi da lavoro, “….: dove c’erano i tagli con il
carbone, c’era anche il fuoco che bruciava lentamente e teneva alta
la temperatura, a volte anche 40 gradi e più….. era quasi
impossibile stare e, per abbassare il fuoco, si usavano delle lance
lunghe sei metri, che contenevano l’acqua a forte pressione”, le
quali, per l’alta temperatura, a volte si
fondevano in punta, piegandosi. “Allora era un disastro, ci
voleva tantissima acqua per calmare il carbone ardente; l’ossigeno
alimentava la fiamma che si poteva fermare….. costruendo, nei
punti critici, muri di mattoni….Nelle gallerie, piene
di questi muri, non si capiva più nulla e a volte si dovevano
fare un sacco di giri per raggiugere il cantiere di lavoro: tra il
fuoco e questi muri, pareva proprio un inferno nero”. …. Nelle
orecchie il frastuono del motore delle tavole e del motopicco,
prosegue Gino Armosini, “poi arrivò la tecnologia, come la
chiamavano i dirigenti, erano macchine che tagliavano da sole
il carbone, mostri di ferro che facevano un ruomre
fortissimo, dopo un pochino le orecchie smettevano di funzionare,
non si sentiva più nulla, nemmeno il compagno che, a un metro di
distanza per farsi capire, si esprimeva a gesti, tutto questo per 7
ore al giorno.” E il minatore Frau, “la miniera di
carbone era brutta a causa delle frane di coltivazione,…. si
spaccavano i quadri come niente, noi lasciavamo dei puntelli nelle
zone più brutte, ma quando era il momento della frana non si poteva
fare più nulla”. A segnalarne l’arrivo, semmai, gli altri assidui
‘abitanti’ delle gallerie: “noi lavoravamo sempre in compagnia dei
topi, c’erano in tutte le gallerie e non c’era modo di mandarli
via, te li ritrovavi anche nel tascapane, a mangiarsi comodamente
il tuo pranzo. Quelle bestie erano però di grande aiuto,
sull’avanzamento la loro presenza ci dava quasi sicurezza: erano
loro i primi a fuggire quando stava per arrivare la frana e se li
vedevi scappare tutti insieme, allora dovevi seguirli, perché
qualcosa di brutto stava per capitare.” Queste le
testimonianze che si possono leggere in S. Mezzolani A.
Simoncini, Storie di miniera, pubblicate da L’Unione Sarda,
nel 1994 2).
E si contano gli incidenti e i morti, a causa delle attrezzature di
miniera obsolete, della scarsezza delle armature e dei mancati
interventi sulla sicurezza, come nel luglio del 47, quando un
gruppo di operai di Serbariu, costretti dai sorveglianti, entra in
una zona da tutti ritenuta poco sicura a causa della scarsezza
dell’armatura: 6 feriti gravi per il franamento di una
galleria, addirittura priva di armatura per 20 metri, secondo
L’Unità del 12 luglio 1947.
Nella tabella pubblicata da G. Are e M. Costa, su ‘Carbosarda’, si
contano, per il 1945, 8 operai morti nelle miniere dell’Iglesiente,
il compensorio in cui è inserito anche il Sulcis, 18 per il 1946,
29 per il 1947 Così nel già citato grafico pubblicato da Ignazio
Delogu su ‘Carbonia’, una risalita di “morti e feriti gravi”, con
la riapertura delle miniere, che cala solo a partire dal 1949
3).
Inutilmente il sindacato avrebbe ancora preteso l’istituzione
di commissioni di inchiesta sugli incidenti in miniera,
nessuna responsabilità mai riconobbe l’azienda, perché nessuno a
garantire l’incolumità degli uomini, specie una volta entrato in
crisi il Sulcis, a seguito della massiccia disponibilità sul
mercato di carbone estero.
Ma si apre finalmente in città il grande ospedale Sirai,
pronto a intervenire per ogni genere di patologia che riguardi gli
operai e il resto della popolazione, il Traumatologico di Iglesias,
nei casi di incidenti più gravi in galleria.
References
- ^1° settembre 2019. (www.democraziaoggi.it)
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