Gianna Lai
Oggi è domenica, dunque nuovo post su Carbonia, dal 1° settembre 2019[1].
C’è un noto articolo su l’Unità del 19 agosto 1945, intitolato Sardegna nuda e a firma di Velio Spano, allora sottosegretario all’agricoltura nel primo governo De Gasperi, che parla delle condizioni di miseria e di arretratezza in cui versa la Sardegna dopo la Liberazione. Lo troviamo spesso citato nelle antologie scolastiche destinate agli studenti, così significativo il quadro delineato sull’isola, forte la passione e l’impegmo politico di fronte all’ingiustizia e alla sofferenza dei sardi. E vi ricorre spesso il riferimento a Carbonia, al suo combustibile e alle miniere più in generale, che si tratti di sostenere la politica del partito sulla loro regionalizzazione, o di garantire alle imprese dell’isola un più ampio approvvigionamento di carbone Sulcis, rispetto a quello destinato invece alle imprese del Continente. La Sardegna è nuda, ‘nudi i piedi degli operai che lavorano alla ricostruzione, nude le campagne devastate dall’arsura e dalle cavallette, nude le case dei poveri visitate dalla carestia’. Il carbone al centro della ricostruzione, per definire il contesto in cui versa il territorio, “la necessità di intervenire per alleviare la miseria terribile dell’isola: ci sono delle misure di elementare giustizia che è necessario e possibile prendere subito, anche prima che vengano affrontati i grandi problemi della riforma agraria, della regionalizzazione delle miniere e della democratizzazione della vita sarda”. Contro la disoccupazione, per la ripresa dei trasporti, per “distruggere alcuni monopoli che immiseriscono intiere categorie di cittadini”, e tornare ai lavori normali dell’agricoltura, “e rivestire gli abitanti: c’è persino da concedere alla Sardegna una più larga partecipazione all’uso dei suoi prodotti, giacché al consumo dell’isola sono oggi destinate appena diecimila tonnellate mensili di carbone, sulle quarantamila estratte e sulle diciottomila indispensabili”. Misure necessarie politicamente, “se non si vuole che le popolazioni sarde affamate continuino a considerare la nascente democrazia italiana con la stessa diffidenza, con lo stesso odio chiuso e sordo con il quale per decenni esse hanno considerato il ‘continentale’, che era per esse il padrone delle miniere, il grosso commerciante esoso, il carbonaio distruttore delle foreste, l’agente del fisco, il prefetto”. E certo non di soli aiuti materiali ha bisogno la Sardegna, “ma sopratutto di aiuto politico e morale… La Sardegna non potrà essere redenta se i sardi stessi non sapranno e potranno foggiare…, con le proprie mani, l’avvenire della loro terra”.
Ed infatti, se è importante l’istituzione dell’Alto Commissario
e poi della Consulta regionale, bisogna garantire, sul piano
comunale, provinciale e regionale, “maggiore autonomia e maggiore
facoltà di iniziativa alle forze isolane… bisogna, ancor prima
delle elezioni, che venga spezzata quell’atmosfera soffocante che
grava come una cappa di piombo sulle popolazioni rurali… non basta
che venga dato alla Sardegna un miliardo, ma bisogna che le
popolazioni siano chiamate a dare il loro parere sul modo di
impiegarlo; …. e poichè la maggioranza dei democratici italiani è
oggi orientata verso il rafforzamento delle autonomie locali,
è bene che questi problemi si impongano da oggi all’attenzione dei
partiti e del governo e ricevano sin da oggi, per quanto
possibile, inizio di soluzione”. Perchè i problemi italiani sono
sopratutto “nei bisogni e nelle aspirazioni delle masse
lavoratrici che vivono alla periferia del paese”.
Così, poco dopo e in continuità, il senso della
politica per la ricostruzione della Sardegna negli scritti
di Renzo Laconi, “man mano che si delinea
l’orientamento antidemocratico delle forze di governo, sempre più
urgente diventa l’esigenza di estendere e
consolidare le forme di autogoverno locale, al fine di
garantire con questo mezzo una partecipazione del popolo alla
direzione del paese e di realizzare una solida difesa della
democrazia e della libertà”. Sempre ponendo centrale l’impegno tra
i minatori del Sulcis, e rivendicando al partito la guida della
mobilitazione popolare nell’isola, “abbiamo guidato le lotte di
gruppi differenti del nostro popolo, dai contadini di Bonorva
ai minatori del bacino carbonifero sulcitano, dai pastori
barbaricini ai pescatori degli stagni” e tratto da queste
esperienze, “una nuova consapevolezza politica”. Ma quando si deve
uscire “dalla fase puramente propagandistica ed organizzativa”,
allora il partito “scopre e constata ad ogni passo quanto
l’esigenza autonomistica sia profonda e reale”. L’arretratezza e la
miseria della Sardegna hanno origine, almeno in parte, in due
fattori fondamentali, “nell’amministrazione burocratica
centralizzata e nella struttura giuridica e politica dello Stato,
inadeguato al grado di sviluppo sociale ed economico dell’isola.
Invece, non c’è problema del popolo sardo che non possa rovare
avviamento alla sua soluzione attraverso un rinnovamento
democratico dell’apparato amministrativo e mediante una
legislazione particolare e appropriata alle esigenze della
Sardegna”. Perciò un partito che “voglia esercitare una funzione
dirigente nella vita del paese ha il dovere di partecipare la sua
esperienza intorno a sé, ….di portare queste conclusioni sul
terreno della realizzazione politica… Dobbiamo sopratutto, al di
sopra di ogni visione angusta e settaria, guardare all’obiettivo
che deve essere raggiunto e affratellare a noi, senza distinzione
di partito, quanti vogliono assecondare il cammino del popolo sardo
sulle vie della libertà e del progresso”.
References
- ^1° settembre 2019 (www.democraziaoggi.it)
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