Gianna Lai
Sulla storia di Carbonia puntuale il post
domenicalea partire dal 1° settembre
scorso.
[1]
Se così grave è la situazione dell’azienda, ora sembrava che,
come negli anni del fascismo, i costi di tali perdite
dovessero ancora ricadere sulle maestranze della miniera, in
termini di sfruttamento e di bassi salari. Gravi le condizioni di
lavoro, sempre in pericolo la salute e la sicurezza, a causa dei
ritmi impossibili da sostenere. A causa delle ‘tecniche
minerarie di allora ancora del tutto inadeguate’, a causa di ‘quei
giacimenti che non si prestavano all’apertura di grandi gallerie’,
essendo tale, la conformazione degli strati e dei fasci di strati,
da impedirlo. Così Pietro Cocco, nell’intervista rilasciata a
Giuseppe Marci sulla miniera al tempo degli americani, in ‘nuova
rinascita sarda’, del 1988. Che sottolinea ancor più come ‘la vita
dei minatori fosse angosciata dai bisogni materiali: uscivamo al
mattino con 250 grammi di pane pessimo, la nostra razione; un
razionamento che durò fino al 1946′ 1).
Nè potevano avere voce in capitolo altri, sulle miniere, se
non gli alleati, come chiarisce lo stesso Alto commissario generale
Pinna, già nel suo discorso per l’insediamento della Consulta,
riportato da Girolamo Sotgiu: ’sull’attività mineraria, sui suoi
indirizzi e sul suo sviluppo, l’intervento dell’Alto commissario e
della Consulta non poteva che essere limitato, come chiarì subito
il generale Pinna, perchè sia in materia di prezzi che di controllo
della produzione l’intero settore delle miniere era regolato
dalle decisioni degli alleati….: per l’Alto commissario e per la
Consulta, pressocché impossibile intervenire’ 2).
C’era stato, é vero, subito dopo la riapertura delle miniere, un
intervento del governo sui salari delle maestranze
Carbosarda, che aveva anche garantito ‘una settimana premio’,
per gli operai, e un doppio stipendio per gli impiegati3), ma
bassissime restavano ancora le retribuzioni a causa del
continuo aumento dei prezzi. Perché, ‘nel Sud ‘occupato dagli
alleati, il crollo dell’apparato statale e, con esso, degli
esistenti meccanismi di distribuzione e di controllo dei
prezzi, l’emissione di moneta di occupazione (amlire) nella
misura di 114 miliardi, ai quali si aggiungono 31 miliardi versati
direttamente dalla Banca d’Italia agli angloamericani, quale
contributo alle loro spese di guerra in territorio italiano, per un
totale di 45 miliardi, il cambio fissato nella misura punitiva di
100 lire a dollaro (cioè a quattro volte quello esistente nel marzo
del 1938, mentre i prezzi erano saliti solo della metà), avevano
scatenato un incontrollato processo inflazionistico, che provocò
aumenti dei prezzi fino a 40 volte il livello del 1938′ 4).Ed
allora, ‘la politica del congelamento dei salari mantenuta fino al
settembre del 1943, dovette essere abbandonata’, i primi
miglioramenti retributivi il Governo militare alleato fu costretto
a concederli già nel dicembre del 1943 mentre, ‘nella seconda metà
del 1944 la CGIL ottenne l’aumento medio del 65% dei salari e degli
stipendi, rispetto al settembre del 1942 (ma la svalutazione aveva
galoppato assai di più); un’indennità di carovita di lire 35
giornaliere, l’aumento del 50% degli assegni familiari, la
gratifica natalizia per gli operai dell’industria’. Ed infine la
concessione di quella indennità di carovita che, secondo Di
Vittorio, aveva dato ‘un sollievo a tutti i lavoratori…e portato un
aumento forse maggiore ai lavoratori meno pagati’. E tuttavia,
neppure dopo tali miglioramenti le retribuzioni reali
avrebbero potuto ‘tenere il passo con l’aumento dei prezzi’, si può
infatti ‘calcolare che, alla fine del conflitto esse fossero pari,
nel Sud, al 75% di quelle del 1938′ , come dice Sergio Turone nella
sua storia del sindacato in Italia 5).
Un aumento del costo della vita insopportabile nell’isola, da 1,50
lire nel 1938 il prezzo di un chilo di pane, a 2,40 nel 1942,
senza che gli aiuti destinati ai meno abbienti potessero
minimamente modificare il quadro, ancora nel 1948 il 10%
della popolazione iscritta all’elenco dei poveri, come nota
Girolamo Sotgiu nella sua Storia della Sardegna durante il fascismo
6). E così a Carbonia, tra febbraio e marzo del 1945, la paga
minima giornaliera degli armatori non sarebbe andata oltre le
101,55 lire, quella dei minatori non oltre le 96,55, degli
aiuto 86,50, mentre in laveria la retribuzione oraria delle
donne superava di poco le 2 lire. E un chilo di pane costava
15 lire al prezzo ufficiale, fino a 70 lire al mercato nero,
Delogu pag 235 e l’alloggio costava dalle 10 alle 30 lire, un
quintale di carbone per riscaldamento 10 lire, 10 lire anche 20
grammi di sapone 7). In quelle retribuzioni erano
compresi anche i premi di presenza e carovita, mentre
l’introduzione di una nuova forma di conteggio del cottimo, secondo
l’Alto Commissario, che rese pubbliche queste tabelle per
sollecitare i disoccupati ad accettare le proposte della SMCS,
avrebbe garantito ai minatori un salario medio di lire 170 al
giorno, 140 per armatori e aiuto minatori 8).
In realtà, con l’istituzione del nuovo conteggio di cottimo, si
aggravano le condizioni di lavoro per le maestranze del
Sulcis, sempre in pericolo la salute e la sicurezza
proprio a causa dei ritmi impossibili da sostenere, inesistenti
ancora i presidi nella miniera e nei cantieri, scarsissima
l’assistenza infortunistica e di soccorso se l’ospedale
cittadino dell’INAIL mancava persino dell’ambulanza.
9). Difficili ancora le condizioni di lavoro
per l’inadeguatezza dei sistemi di coltivazione,
conseguenti al mancato completamento delle strutture interne, dopo
l’abbandono almeno in parte dei pozzi, effettuandosi ancora il
disgaggio per tutti quegli anni col solo ausilio del motopicco,
secondo quanto avrebbe scritto Il Lavoratore del 14 maggio 1947. Ad
aggiungersi, alla nocività della vita nei pozzi, dai gas alle
polveri di carbone, le frequentissime imposizioni, come
detto, del prolungamento dell’orario di lavoro che, insieme alla
sempre scarse conoscenze della miniera da parte dei nuovi
assunti, sarebbero ancora stati causa di tanti morti in quegli
anni, 20 solo tra il 1944 e il 1945 10) e di molti gravi incidenti,
la cui prevenzione continuava a non impensierire affatto l’azienda,
esattamente come per il passato.
Come negli anni del fascismo, anche fra questi nuovi operai, che
avevano del tutto sostituito i precedenti, solo quelli provenienti
da Iglesias e da Bacu Abis, dalle miniere toscane e dalle zolfare
siciliane avevano adeguata conoscenza del loro lavoro, mentre
gli altri ne apprendevano i rudimenti, come nell’anteguerra, dai
compagni del loro gruppo, ancora mancando una vera scuola
aziendale. E ancora vittime della malaria, spesso di epidemie
da denutrizione o da pessime condizioni igieniche, e nei luoghi di
lavoro e negli alloggi collettivi, come ai vecchi bei tempi della
nascita di Carbonia.
E sempre forte, sproporzionata, come ai vecchi tempi del regime,
l’intransigenza della direzione aziendale, rimasta proverbiale ‘per
i metodi fascisti’ ancora in adozione contro gli operai,
costretti a lavorare scalzi e senza protezione alcuna. ‘ I minatori
scendono in miniera nudi e scalzi’, scriveva Giovanni Lay
ancora sul Lavoratore del 1 settembre 1945, perché un paio di
scarpe costavano in quei mesi dalle 250 alle 400 lire, contro un
salario medio di 150 lire giornaliere, continuamente
eroso, tuttavia, dall’inflazione.
Dalla sede ACaI di Cortoghiana, il commissario governativo Sanna,
un sardista particolarmente ligio alle direttive alleate, aveva
confermato alla direzione della miniera lo stesso gruppo dirigente,
tecnici e capi servizio, degli anni del fascismo, così da
consentire all’azienda, attraverso licenziamenti e rigido controllo
delle nuove assunzioni, ‘di circondarsi soltanto di persone a lei
devote’, come si legge su L’Unione Sarda del 13 febbraio 1945. E la
parola d’ordine ‘fuori i continentali’, in particolare, avrebbe
significato, non tanto l’interesse primario di privilegiare
l’occupazione dei sardi, da buon sardista quale era il commissario
Sanna, quanto la volontà principale, evidentemente, di avere e
mantenere la riserva degli incarichi più importanti dentro
l’azienda Carbosarda. E poi, di tener fuori dalla miniera, il
più possibile, quadri di partito o di sindacato che, militari
provenienti dalla penisola, erano finiti qui in Sardegna con il
loro reparto, essendo ben noti a commissariati e forze dell’ordine,
in quanto molto attivi nell’organizzazione del lavoro clandestino,
sia nelle zone di provenienza, sia tra i militari
dell’esercito. Perché nasceva la CGIL, rinascevano i
partiti e anche dentro la miniera, come Sanna temeva, le cose
avrebbero potuto cambiare, come poi cambiarono a Carbonia, proprio
grazie alla presenza dei ‘continentali’, tra i promotori di un
nuovo movimento in grado, per la prima volta dalla nascita della
città, di prendersi cura dei minatori, di farne crescere
consapevolezza e capacità di resistenza allo sfruttamento.
References
- ^ dal 1° settembre scorso. (www.democraziaoggi.it)
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