Gianna Lai
Nuovo post domenicale sulla storia di Carbonia, dal 1° settembre 2019.[1]
554.988 le tonnellate di carbone estratte nel 1945, quando
gli operai sono 8 mila, 1.008.412 nel 1946, 11mila gli operai
occupati in miniera. E i prezzi, lire 1400 il minuto, 1500 per la
pezzatura, già stabiliti nell’agosto del 1944 dalla Commissione
interministeriale prezzi, onde far fronte ai debiti e al
deficit di bilancio, fino al risanamento stesso dell’azienda:
l’amministratore delegato Francesco Chieffi ne chiede il
rialzo a 3.741,35 lire. A 2.200 il presidente ACaI, tenendo conto
del costo di produzione, che si aggira intorno alle 1.900
lire la tonnellata.
Così, dal 1 marzo 1946, il prezzo del carbone passa da 1.227,74 a
3.092 lire, le perdite ancora calcolate in 764 milioni di
lire per tutto il 1944-45, i costi di produzione ancora
notevolmente superiori al prezzo di vendita. L’esercizio del 1946
si chiude quindi con un disavanzo di 209.067.309 di lire che,
sommato a quello degli esercizi precedenti, raggiunge un
totale di oltre 974 milioni, in parte coperto dal Tesoro con un
contributo di 634.267.904 di lire. Mentre gli scioperi dei minatori
americani, nel maggio del 1946, riducono ancora le assegnazioni di
carbone estero all’Italia: al Sulcis, che quell’anno
toccherà il milione di tonnellate di carbone estratto, si
aggiungeranno le 60mila tonnellate provenienti dalla
Polonia, le 123mila dalla Rhur, le 900mila fornite
dall’UNRRA. E, nell’occasione la SES aumenta le tariffe, metre
chiude di nuovo, e per sempre, l’impianto di distillazione a
Sant’antioco, per mancanza di carburante.
E mancano i finanziamenti per l’ammodernamento della miniera,
questa la ragione che mantiene basso il grado generale di
qualificazione e bassa la produzione e alti i costi.
Difficile anche introdurvi macchinari di un certo peso, come
quelli americani, in gallerie che non è possibile ampliare a causa
dei caratteri stessi del giacimento e della miniera. Perciò le
coltivazioni mantengono ancora tutto il carattere della
provvisorietà, con una manodopera non professionalizzata,
neppure nel dopoguerra, come sta avvenendo invece in tutte le altre
miniere d’Europa, man mano che i cantieri meno redditizi vengono
chiusi. E poi sempre la stessa incongruenza, e così ancora
negli anni cinquanta ed oltre, mancato ammodernamento da
collegare strettamente al problema del prezzo di vendita del
carbone, come in Carbosarda” di G. Are e M. Costa, da cui son
presi i dati precedenti sulla produzione, “… Ballestrazzi e Piga,
ricordano che - il carbone prodotto veniva accreditato alla miniera
al costo di produzione, mentre poteva essere venduto ad un prezzo 5
o 6 volte maggiore. Vi fu un trasferimento di reddito di oltre 100
miliardi dal settore carbonifero a quello industriale, cifre
approssimative, ma facile potrebbe essere la loro esatta
valutazione-, avendo naturalmente fondamento queste affermazioni
per gli anni anteriori il 1947, dato che, immediatamente
dopo, sarebbe stato ancora più difficile il mercato del carbone
Sulcis nella penisola e, quindi, la sua collocazione”. Così anche
Paolo Piga, ne “La questione mineraria dal dopoguerra a
oggi”, nell’immediato dopoguerra “le miniere aumentarono la
produzione di carbone, che lo Stato accreditava alla Carbonifera
sarda, al valore del costo di produzione, ma che veniva venduta a
prezzi assai maggiori, sottraendo al settore carbonifero un utile
che può essere stimato in oltre cento miliardi del 1950″. Fino alla
denuncia, negli anni cinquanta, di Pietro Melis, consigliere
regionale sardista, su L’Unione sarda del 25 giugno 1952, ‘Così lo
Stato vende ai privati il suo carbone’: “……col gioco sempre
fruttuoso, in Italia, delle assegnazioni, i privati speculatori si
impadronivano del carbone sbarcato nei porti della penisola e lo
trafficavano a borsa nera, fino a 18 mila lire la tonnellata,
lucrando quelle decine di miliardi che avrebbero consentito
all’Azienda carbonifera di Stato di procedere all’ammodernamento
degli impianti e all’incremento della produzione”
Perchè, in effetti, i privati speculano liberamente sul
combustibile sardo mentre, come dice Sergio Turone, “la scarsità di
materie prime, soprattutto carbone, bloccava la ripresa produttiva,
se nel 1946 l’industria italiana aveva a disposizione soltanto il
45% del carbone che le sarebbe stato necessario”. Ed intanto la
crisi economica veniva affrontata dal governo, secondo lo storico
Giovanni De Luna, scegliendo “di non fare ricorso a massicci
interventi dello Stato (nazionalizzazioni, rigido controllo dei
prezzi, tassazione straordinaria sui patrimoni e sui redditi più
alti), affidandosi invece alla spontaneità delle forze economiche”;
e garantendo la “conservazione delle holding finanziarie a capitale
pubblico, create dal fascismo nei primi anni trenta (come l’IMI,
Istituto Immobiliare Italiano), con una particolare rilevanza
attribuita all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), che
allora controllava le quattro principali banche italiane e la
maggior parte delle industrie meccaniche, elettriche e navali”.
Allo stesso modo il saggista Marcello De Cecco in ‘La politica
economica durante la Ricostruzione’: “Lo Stato possedeva ora il 90%
delle banche e una notevole proporzione dell’industria italiana,
inclusa un’altissima proporzione dell’industria pesante……ai più
autorevoli tra gli esponenti delle scuola del liberalismo puro”, in
particolare a Luigi Einaudi, affidato il governo dell’economia
italiana. “Così, mentre nel resto del mondo la seconda guerra
mondiale aveva significato una conferma della fondatezza della
critica keynesiana al laisser faire, e gli economisti si
affrettavano a trarne le necessarie conclusioni a favore
dell’intervento dello Stato, nell’economia italiana, l’Italia, che
era scampata a mezzo di interventi statali e protezionismo ai
peggiori effetti della grande crisi, ora veniva messa a nuotare
contro corrente, sulla base di teorie economiche sorpassate già da
una generazione”. Potendo evidentemente “contare sul
favorevole atteggiamento nei confronti dell’Italia stessa da parte
del governo americano”, che garantiva forniture UNRRA, nel 1946,
“coprendo gran parte della domanda di importazione italiana”. Ed
infatti, ancora Giovanni De Luna, “Un grande impulso venne dagli
aiuti americani alimentari, ma sopratutto finanziari, solo nel 1946
gli interventi UNRRA ammontarono a 488 milioni di dollari’. Il
futuro del carbone Sulcis, nel libero mercato dei colossi
mondiali…
References
- ^1° settembre 2019. (www.democraziaoggi.it)
- SARDA NEWS -
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