Gianna Lai
Nuovo post domenicale sulla storia di Carbonia. Il primo il 1° Settembre 2019.
Identiche le condizioni di lavoro in miniera a quelle appena
descritte per gli anni dell’occupazione alleata, se ancora in
pieno 1945 Aladino Bibelotti, nella sua già citata visita
presso i cantieri, da dirigente CGIL, denunciava la cattiva
gestione ACaI e l’arrettratezza del processo produttivo, ‘il
malesempio delle spese inconsiderate, delle operazioni a fine
speculativo e di diversione, urta la suscettibiltà dei lavoratori
che sono costretti a vivere miseramente, senza calzature, senza
abiti, mal nutriti, senza alcun conforto spirituale. D’altra
parte nessuna sollecitudine per rendere meno gravoso e più
redditizio il lavoro nelle miniere. Sistemi di lavoro
arretratissimi, mancata installazione dei moderni ritrovati tecnici
di escavazione e di trasporto. Invano vi cerchereste per esempio la
pala meccanica’.
Identiche le condizoni di vita a Carbonia all’indomani della
Liberazione, tra le preoccupazioni più assillanti, per i dirigenti
sindacali e di partito, lo stato di una città ormai ridotta ai
limiti della sussistenza. Talché, lo stesso Dipartimento americano
avrebbe sollecitato il governo italiano, nell’agosto del 1945, ad
intervenire perché fossero migliorate ‘le condizioni di lavoro dei
minatori, privi persino di indumenti e calzature’, e la loro
alimentazione, le cui calorie, ufficialmente 2.800, erano in realtà
molto più basse’.
Inflazione e disoccupazione colpiscono ancora il nostro paese
durante il governo Parri, ed il mantenimento del prezzo politico
del pane non avrebbe certo da solo potuto alleviare le condizioni
di vita della popolazione, di fronte agli scarsi raccolti e alla
ripresa generalizzata del mercato nero, come ricorda Ernesto
Ragionieri nel suo scritto sulla Storia d’Italia. Perché gli
stessi adeguamenti salariali e il pagamento del caro pane, concessi
ai lavoratori dell’industria nel mese di maggio e di giugno 1945,
in seguito agli accordi tra CGIL e imprenditori, sarebbero stati
presto riassorbiti dalla continua ascesa dei prezzi e, nel Sulcis
in particolare, dalla trattenuta di lire 300 sul salario, per la
tassa comunale di famiglia. Oltreché dal rincaro del prezzo del
carbone destinato ai minatori e dell’energia elettrica e poi di
tutti gli altri generi di prima necessità. Le sinistre chiesero
allora che il sindaco istituisse una commissione popolare di
vigilanza annonaria, per il controllo sopratutto delle mense
aziendali, nei cui squallidi refettori la Cooperativa forniva
quotidianamente ai lavoratori senza famiglia, ‘razioni di cibo
scarso e scadente per qualità di nutrimento’. Una battaglia di
lunga durata, che inizia con la riapertura delle miniere, contro un
sistema, evidentemente, così difficile da modificare: ad attenuare
la sofferenza dei senza famiglia, ancora le leghe e le sezioni di
partito, con quella loro funzione di accoglienza e di
orientamento per i nuovi arrivati in miniera che, solo dopo la
caduta del fascismo e la fine dei sindacati corporativi, Carbonia
avrebbe imparato a conoscere.
Così difficile da vivere la città, tuttavia continuamente
presa d’assalto da masse di disoccupati. E identici
ancora i rastrellamenti quotidiani delle forze dell’ordine,
sopratutto in periferia, e spesso anche in centro, fino a tutto il
1946 e oltre. Uno dei tanti così ben rimasto impresso nella
memoria dei testimoni, avvenuto presso la sede del Psd’az, la
polizia che irrompe nella sezione e porta via con la forza
tutti i disoccupati privi di ingaggio per la miniera. E suscita le
proteste dei partiti cittadini, già seriamente impegnati da tempo a
evitare che nuovi immigrati giungano in città senza regolare
autorizzazione, in ottemperanza alle reiterate disposizioni del
prefetto e delle autorità locali.
Il fatto è che la città non è in grado di contenere neppure i
minatori e le loro famiglie, una grave penuria di alloggi se,
ancora nel 1947, quando gli abitanti saranno più di 40 mila, in un
centro costruito per 20 mila, si contano ben 800 famiglie senza
tetto. Costrette a una pericolosa promiscuità, nei piccoli
appartamenti delle case operaie e nei cameroni di periferia,
costruiti per ospitare temporaneamente i minatori scapoli o senza
famiglia. E sono i tempi del razionamento di pane, pasta,
olio, zucchero nell’intera provincia, che durerà anch’esso fino al
1947, quando ancora è lo stesso prefetto a lamentare la
persistenza, dapertutto, della grave situazione economica, che
colpisce allora l’intero paese . Mentre non arrivano
approvvigionamenti dalla penisola, mancando drasticamente i
collegamenti, se si eccettua una distribuzione UNRRA, per
orfanotrofi ed asili, solo alla fine del 1945. Tali le
condizioni di questo ‘esercito di pezzenti’, come avrebbe titolato
Il Lavoratore dell’8 dicembre 1945, l’articolo dedicato ai minatori
di Carbonia, tante le opere rimaste incompiute fin dal periodo
prebellico. In una città che avrebbe ancora a lungo mantenuto
i caratteri della provvisorietà ereditati dal regime, come
molto bene dice Girolamo Sotgiu nel suo scritto su Carbonia, ‘La
condizione della precarietà’, in Nuova Rinascita. Centinaia di
lavoratori ‘ammassati come animali’ negli alberghi operai, la città
preda del mercato nero, ancora chiuse le scuole,
inesistenti veri servizi di assistenza sociale e di medicina
del lavoro.
E non è solo preoccupante la situazione alimentare, a Carbonia e in
tutta la provincia, denuncia ancora il prefetto in data 8 luglio
1945: la scabbia tra le questioni sanitarie più serie, grave
l’epidemia di malaria e l’emergenza tracoma, che sarebbe poi
durata per tutto il dopoguerra. E in aumento la tubercolosi,
che trova condizioni favorevoli nella denutrizione della
popolazione e nell’eccessivo affollamento di ambienti molto
degradati dal punto di vista igienico-sanitario. ‘Inesistenti le
condizioni per un’assistenza pubblica in tutti i Comuni, gli
ECA dei piccoli comuni impossibilitati a funzionare’, prosegue il
prefetto. Appena attenuato il fenomeno della denutrizione dei
bambini, grazie al contributo UNRRA, per concludere, ‘ancora
dura la condizione delle classi meno abbienti, in provincia,
a causa del continuo aumento dei prezzi’.
Priva di mercato la città, poco possono assicurare gli spacci della
Carbosarda in termini di approvvigionamento degli abitanti.
Bloccati i collegamenti col Continente, il mercato nero a farla da
padrone, le ‘bancarelle americane’ nelle piazze centrali a vendere
telerie, scarpe e abiti usati, ancora ospitate in catapecchie e
tuguri di legno e lamiera. Ed è la stampa di sinistra a
cogliere quella condizione di vita impossibile, ed anche la stessa
Unione Sarda, perlomeno nel corso dell’immediato dopoguerra, ad
assicurare indagini puntuali, con redattori e giornalisti e,
spesso, militanti di partito impegnati nel territorio. Vera opera
di denuncia delle condizioni di vita dei minatori di Carbonia e
dell’intero Sulcis-Iglesiente, che si affianca alle lotte operaie e
le sostiene. E che costringe autorità e governo a interventi,
spesso davvero in extremis, in grado di alleviare, pur se solo per
brevi periodi, le gravi condizioni di vita di quelle popolazioni.
Strutturali, come per destino, alla condizione stessa di minatore,
per come se ne tiene in considerazione l’esistenza, per il rispetto
che si ha del suo lavoro, per il modo in cui si gestiscono le
miniere, comune, del resto, all’intero territorio italiano.
Carbonia terra di miseria, Carbonia agitazione nel lotto B, tra i
titoli che descrivono i luoghi, in quei mesi, su Il Lavoratore,
settimanale comunista10). E poi la pagina dell’Unità
della Sardegna, preziosa fonte di informazione e di conoscenza
quotidiana, che di quei luoghi documenta puntualmente cambiamenti e
trasformazioni, e poi l’Avanti, importante, pur se non così
durevole e continuo, il suo intervento.
- SARDA NEWS -
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