Caterina Gammaldi del CIDI - Centro iniziativa
democratica insegnanti
Vorrei proporre una riflessione su quanto ho ascoltato ieri - 26
marzo 2020 - in diretta dal Senato. L’intervento del ministro e il
dibattito successivo mi hanno confermato un dubbio che ogni giorno
di più mi assale, nonostante il ricorso di alcuni intervenuti nel
dibattito a citazioni a me care. Non ci sono anche in
emergenza le condizioni per “sortirne insieme”. Provo a
chiarire.
La scuola descritta non è scuola, non lo è per chi impara né per
chi insegna. Non lo è per un paese che vuole far vivere il
principio della democratizzazione dell’istruzione. Suonano alte, ha
scritto qualche tempo fa Benedetto Vertecchi in un suo saggio, le
sirene della descolarizzazione. Il tempo sospeso che stiamo vivendo
a causa di una emergenza sanitaria senza precedenti richiederebbe
umiltà nell`analisi e decisione nelle scelte, dovrebbe far vivere
una prospettiva, una idea di futuro. Invece…
Stiamo vivendo in una situazione in cui cambia, nonostante noi, la
quotidianità del vivere e nel “fare scuola” ciò è più che evidente.
Se le risorse assegnate alla scuola confermano una scelta che
privilegia il mercato della didattica a distanza, senza retorica,
intravedo il pericolo della modernizzazione a tutti i costi e il
rischio evidente di una normalizzazione senza precedenti.
La scuola non è moderna se tutti i bambini e i ragazzi hanno un
tablet o un computer, se lo Stato sostiene il loro diritto ad
apprendere in questo modo. Molti di loro hanno perso i nonni,
i padri, i fratelli. Altri fanno i conti con la perdita della
dignità del lavoro dei genitori. Penso alle centinaia di lavoratori
precari o non garantiti.
La scuola è moderna se si pone seriamente nella prospettiva di
consegnare gli strumenti (si diceva un tempo gli occhiali) per
leggere il mondo, ovvero il sapere.
In un bel racconto di Asimov, che avevo l’abitudine di leggere ogni
volta che entravo in una seconda media, la classe in cui si
transita dall’infanzia alla preadolescenza, una bambina e suo
fratello un po’ più grande vivono un giorno di vacanza. Il maestro
elettronico si è inceppato, va più velocemente del solito e loro
non riescono più a star dietro alle consegne e non apprendono
nulla. Messi in vacanza da una mamma accorta – il futuro
descritto non prevede più andare a scuola; la scuola si fa a casa
nella propria stanza davanti al computer - trovano in una soffitta
un libro ingiallito, con le pagine fruscianti che parla di scuola,
di bambini, di insegnanti. Chissà come si divertivano é la battuta
fatta dire dallo scrittore alla bimba. E mi pare rappresenti per i
ragazzi e per noi un monito e un impegno politico di grande
importanza.
Troppo poco in tal senso dire (è il ministro che parla) che gli
esami saranno seri, che a tempo debito ci sarà un provvedimento ad
hoc, che ora è tempo di valutazione formativa… Quale?
È troppo per un cittadino sentire l’opposizione che descrive le
modalità d’esame e formula proposte che rafforzano il digitale e le
scelte di mercato. É troppo per un cittadino sentire rappresentanti
della maggioranza, che pure abbiamo votato, dire che, pur nelle
difficoltà, occorre andare in questa direzione.
Io continuo a pensare che il sistema scuola è nazionale, pubblico
come la sanità e come tale deve essere governato. L’autonomia è uno
strumento non un fine e non si può dire, stante la situazione, che
occorre rimodulare la progettazione e valutare gli apprendimenti.
Parole e concetti fuori contesto che prefigurano scelte scellerate
sul terreno dell’istruzione. Ribadisco: non rasserenano gli
insegnanti, i genitori e tanto meno gli studenti. Questa è solo la
scuola dell’emergenza, non la normalità dell’agire educativo.
Scriveva don Milani “sortirne insieme è la politica”. La scuola ha
bisogno della politica, ma la politica ha bisogno della scuola.
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