Andrea Pubusa
Che il coronavirus ponga delicate questioni costituzionali è
ormai palese. L’emergenza sanitaria si trasforma in emergenza
democratica per una semplice ed elementare ragione: la democrazia è
agorà, è piazza, è incontro, e discussione in contradditorio. Se la
piazza è vietata, se è muta, la democrazia arretra o non c’è.
Prendiamo la Francia, limita la circolazione ma indice le elezioni
comunali a Parigi e in altri luoghi. Prima di chiederci se è
legittimo, balza agli occhi la contraddttorietà dei provvedimenti.
Non possono le autorità adottare due misure in così palese cozzo
fra loro. Tali e così poco lineari sono le decisioni assunte, che
pare sia in discussione lo svolgimento del secondo turno
elettorale.
Comunque sia, la vicenda pone, paragdimaticamente, una questione
centrale e ineludibile. In caso di emergenza deve prevalere
l’esigenza democratico-partecipativa, rinviando a tempi migliori le
elezioni o l’esigenza di rinnovare comunque gli organi
rappresentativi?
In Italia si è posta già la questione della funzionalità delle
Camere. E’ legittimo limitare la presenza dei parlamentari in modo
di garantire la proporzione fra i gruppi, mediante accordi fra i
rispettivi rappresentati? E ci possono essere succedanei alla
presenza fisica in aula, ad esempio mediante la discussione in
videoconferenza e il voto online?
Nei giornali i costituzionalisti mostrano grande varietà di
opinioni. Il Fatto quotidiano, ad esempio, ne ha
intervistato sei e tutti hanno espresso idee differenti. C’è
chi propone il voto a scaglioni pur di non chiudere le Camere
(Azzariti), chi opta per il voto digitale (Ceccanti), altri è per
il dibattio a distanza (Lanchester) o per l’autolimitazione delle
presenze in modo da rispettare la proporzionalità fra gruppi
(Lupo), contrastato da chi a questa soluzione preferisce l’uso
della tecnologia (Onida), ma non manca chi evidenzai che la
Costituzione non prevede deroghe al voto in aula (Pertici).
Ora, questa varietà di punti di vista mostra che l’emergenza c’è,
non foss’altro perché - ha ragione Pertici - la Carta non
prevede eccezioni rispetto al voto in Aula, anche se - a ben vedere
- è possibile il voto in commissione in sede deliberante, ossia
saltando l’Aula. Lo ammette l’art. 72: il regolamento di ciascuna
Camera “può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e
l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni,
anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione
dei gruppi parlamentari“. Tuttavia, “anche in tali casi,
fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di
legge è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo dei
componenti della Camera o un quinto della Commissione richiedono
che sia discusso e votato dalla Camera stessa oppure che sia
sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di
voto“. Pare che questa disposizione consenta accordi fra i
gruppi, senza vincolo, ovviamente, per chi non concorda. In questi
casi poi c’è la garanzia della trasparenza dei lavori perché
l’articolo impone al regolamento di determinare “le forme di
pubblicità dei lavori delle Commissioni“.
Ovviamente questa procedura speciale non è ammessa nelle materie
più importanti. “La procedura normale di esame e di
approvazione diretta da parte della Camera - recita l’ultimo
comma dell’articolo 72 - è sempre adottata per i disegni di
legge in materia costituzionale [cfr. art. 138] ed elettorale e per
quelli di delegazione legislativa [cfr. artt. 76, 79 ], di
autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80],
di approvazione di bilanci e consuntivi [cfr. art. 81]“.
In queste materie, dunque, torniamo ai quesiti e ai dubbi di cui si
parlava. E qui l’unica posizione attualmente accettabile è
quella più semplice e ovvia: si deve votare in aula per la
banalissima ragione che la Carta non prevede altre possibilità.
Voto elettronico, in videoconferenza e simili non sono possibili
de jure condito, a bocce ferme. Occorre un intervento del
legislatore costituzionale, il quale deve trarre spunto dai fatti
di questi giorni e dallo sviluppo straordinario delle attività a
distanza per disciplinare l’ipotesi in cui le Camere non possano
riunirsi normalmente. Qui c’è un principio generale indiscusso che
aiuta: l’esercizio delle pubbliche funzioni, in quanto volte a
soddisfare interessi pubblici, non possono soffrire soluzioni di
continuità, ossia gli organi pubblici devono sempre funzionare.
Questo principio depone a favore di soluzioni che consentano le
deliberazioni anche con modalità eccezionali. I casi e i modi
devono tuttavia essere disciplinati da legge costituzionale, con
l’ovvia garanzia della democraticità dell’ordinamento.
Come si vede, le questioni che la pandemia solleva sono molto
delicate e da affrontare con la massima consapevolezza, tenuto
conto che si tratta di normare la funzione legislativa in
situazione di massima crisi. Si tenga conto anche del fatto che la
discussione e il voto a distanza sono possibili fintanto che i
parlamentari son capaci d’intendere e volere e se un virus li
rendesse incapaci o ne deternasse il decesso?
Insomma, c’è molto da fare e da discutere. L’unica cosa che non si
può fare è fingere che gli scenari ipotizzati siano solo casi di
scuola.
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