Gianni Fresu, dcoente di Filosofia politica nell’Università di Cagliari
Il centesimo anniversario del PCI si sta rivelando l’ennesima
occasione persa, vanificata dalla volontà di regolare i conti del
passato che soverchia la necessità di capire. “Il Corriere della
Sera”, “La Stampa”, “La Repubblica”, tutte le grandi testate
nazionali si uniscono in una nuova Santa Alleanza, cementata dallo
stridore di maledizioni che dovrebbero incenerire tutto quel che
quella storia ha rappresentato. È, ad esempio, il caso del pezzo di
Filippo Ceccarelli che apre lo speciale dedicato ai 100 anni del
PCI da “Robinson”, a suo modo, paradigmatico e ben rappresentativo
dell’approccio oggi prevalente.
Nemmeno il più piccolo sforzo per tentare di comprendere
l’originalità e la funzione progressiva di questa organizzazione,
in un contesto storico denso di contraddizioni interne e
internazionali. Va bene prestare attenzione alle contraddizioni,
che in quella storia non furono certo poche, ma come si può non
avere alcuna curiosità verso la sua ricchezza culturale? Come
omettere il suo contributo pedagogico alla socializzazione politica
di massa in Italia, ossia al fatto che questo partito è stato
comunque strumento di alfabetizzazione e formazione politica,
veicolo di partecipazione collettiva per milioni e milioni di
“cafoni” (operai, contadini, muratori, lavoratori in genere) fino
ad allora esclusi dalla politica e divenuti improvvisamente
soggetto attivo e cosciente della vita nazionale. Tutto questo in
un Paese storicamente dominato da equilibri sociali regressivi tra
le classi, dalle rivoluzioni passive e dal ricorso sistematico al
trasformismo che, dal Risorgimento al fascismo, hanno sempre avuto
la funzione operativa di escludere e rendere ancora più subalterne
le masse popolari. Un pezzo di “riforma intellettuale e morale”,
sicuramente incompleto di cui, pur tra mille limiti, quel gruppo
dirigente aveva consapevolezza, così sintetizzato da Palmiro
Togliatti gennaio del 1958:
“L’adesione di milioni e milioni di donne e di uomini a un partito
che combatte per creare una nuova società, è un fatto nuovo nella
vita della nazione. L’Umanità e la nazione diventano consapevoli
del loro compito, che è di dominare il mondo dei rapporti sociali e
dare inizio al regno della libertà. Noi siamo fieri di essere
l’avanguardia consapevole di questo grande movimento”, (P.
Togliatti, Il partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma,
1961, p. 136-137).
Nel pezzo di Ceccarelli troviamo solo una lunga sequenza di accuse,
luoghi comuni, giudizi taglienti e sconcezze osservate dal buco
della serratura del più grande partito comunista dell’Occidente. Ma
se veramente questa storia non rappresenta nulla e non ha lasciato
tracce, solo fallimenti, perché ogni giorno tutti questi
intellettuali in servizio permanente nella difesa dello stato di
cose presenti sente il bisogno di mobilitarsi per delegittimarne la
memoria e cancellare preventivamente la possibilità di trarne
insegnamento per il futuro? Questa volontà censoria, infarcita di
scomuniche e maledizioni fino alla settima generazione, ci dice
semmai l’esatto contrario di quanto raccontato; in realtà, quelle
vicende fanno ancora paura a tanti, sebbene nella politica attuale
nessuno abbia ancora avuto la forza, la voglia e l’intelligenza di
raccoglierne l’eredità.
Per rivendicare un diverso modo di rapportarsi a questo insieme di
problemi, di seguito, un mio articolo pubblicato nella rubrica
“Diogene” nel numero de “La Nuova Sardegna” del
17 gennaio 2021.
Quella scissione che cambiò la sinistra
Il 21 gennaio di cento anni fa al XVII Congresso del PSI a Livorno la nascita del Partito comunista italiano
Gianni Fresu
Il 21 gennaio ricorre il centenario della fondazione del PCI, si possono avere diverse opinioni in merito alla sua linea politica, condividerne o meno premesse e prospettive ideologiche, resta innegabile l’importanza di quest’organizzazione di massa nella storia d’Italia del XX secolo. Tale riconoscimento non significa omettere le contraddizioni e i limiti della sua traiettoria politica, ma valutarle unitamente ai contenuti progressivi della sua funzione storica. La peculiarità del PCI nel panorama del comunismo internazionale, tuttavia, non riguarda solo il suo peso nelle vicende sociali, politiche e culturali di un Paese la cui collocazione nel blocco occidentale era considerata inderogabile, come le trame eversive e la strategia della tensione nel corso del dopoguerra hanno drammaticamente dimostrato. La vera originalità del comunismo italiano riguarda lo sforzo compiuto dai suoi gruppi dirigenti teso a tradurre i principi del marxismo e il contenuto universale della Rivoluzione russa nelle peculiarità della nostra realtà nazionale. Non si trattava di ripetere formule ideologiche generali, né pretendere di riproporre pedissequamente in Italia modelli affermatisi altrove. Come Gramsci scrisse nel Quaderno 7, «il compito era essenzialmente nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza», ossia, inserirsi nelle articolazioni egemoniche della sua società civile, comprendendone l’essenza e originalità.
Zone d’ombra
Nella storia del
Novecento, le vicende del Partito comunista italiano hanno dato
luogo a ricerche e approfondimenti tanto estesi da trovare un
corrispettivo solo nel grande interesse verso il Fascismo,
sicuramente l’argomento storico-politico italiano più sottoposto a
indagine scientifica. Eppure, in questo colossale lavoro di
ricostruzione storica ci sono alcune “zone d’ombra” tra le quali
spicca senz’altro la mancata o insufficiente storicizzazione della
corrente di Amadeo Bordiga, principale artefice e protagonista
della nascita del PCd’I. La tendenza a considerare Gramsci il
fondatore del “Partito nuovo” è il risultato di una
rappresentazione dei fatti strumentale, funzionale alle sue
esigenze interne di lotta politica. Tuttavia, cambiato il quadro
storico e svanite le necessità dialettiche che ne avevano
determinato l’affermazione, una simile visione dei fatti è
sopravvissuta allo stesso PCI, così ancora oggi è diffusa l’idea di
un “Gramsci padre fondatore del Partito”.
Oltre Bordiga
Il PCd’I, Sezione italiana della III Internazionale, nasce a
Livorno il 21 gennaio del 1921. A sottolineare con più decisione la
sua radice nazionale, a seguito dello scioglimento
dell’Internazionale comunista, assume poi il nome di Partito
comunista italiano il 15 maggio del 1943. Tuttavia, la scelta di
una più netta contestualizzazione nazionale dell’organizzazione
nasce ben prima del 1943, con la profonda svolta impressa da
Gramsci alla sua direzione politica tra il 1925 e il ‘26.
Le Tesi del Congresso Lione del ‘26 sono state definite
l’asse fondamentale della sterzata operata nella storia dei
comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del partito,
sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al
superamento completo delle Tesi elaborate da Bordiga per
il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione
politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci. Come è
noto, a partire dalla fine degli anni Trenta e soprattutto nella
lotta di liberazione nazionale il Partito comunista diviene un
soggetto politico capace di attrarre studenti, operai, artisti,
letterati, docenti universitari. Da piccolo partito di quadri,
presente, e limitatamente, solo in determinate realtà del Paese,
diviene la principale organizzazione politica della Resistenza,
fino a risultare inaspettatamente il primo partito della sinistra
italiana e il più grande partito comunista del campo occidentale.
Sembra quasi impossibile una simile trasformazione, tenuto conto
della marginalità e della cultura minoritaria al momento della sua
nascita e negli anni di affermazione del Fascismo. Una prima
spiegazione andrebbe ricercata forse nella tenacia con cui, anche
negli anni più duri della repressione fascista, il PCd’I si sforzò
di mantenere in Italia una sua struttura operativa clandestina,
anziché limitarsi a trasferire all’estero tutta la sua
organizzazione. Tuttavia, sebbene importante, la presenza ostinata
dei comunisti nel Paese lungo tutto il ventennio mussoliniano non
spiegherebbe da sola un fenomeno di crescita tanto esponenziale. Su
esso ha probabilmente influito anche l’evoluzione della sua linea,
capace di abbandonare gli approcci settari e minoritari delle
origini fino ad aderire con maggiore plasticità alle condizioni
nazionali, divenendo un partito di massa per molti versi erede
della tradizione organizzativa e sociale del vecchio
socialismo.
Transizione
Le Tesi di Lione rappresentano uno spartiacque
essenziale, sicuramente il punto più alto nel quale l’elaborazione
teorica e la direzione politica di Gramsci trovano un punto
d’intesa elevatissimo. Nella biografia di Gramsci queste
rappresentano un punto di continuità tra le battaglie precedenti il
1926 e le riflessioni carcerarie, la testimonianza più vivida di
quanto sia impossibile separare il Gramsci politico e militante dal
Gramsci “disinteressato” o “uomo di cultura”. La svolta di Lione
costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico
assunto dal PCI tanto nella Resistenza, quanto nella fase
successiva alla Liberazione; è l’antefatto più pregnante del
profondo mutamento nell’iniziativa dei comunisti tra il VII
Congresso del Comintern e la “svolta di Salerno” del 1944. Il
risultato più fecondo di questa svolta fu il concepire in termini
organici le tematiche della lotta al fascismo e quelli della
ricostruzione democratica a partire dalla stagione costituente. Il
punto d’intesa tra questi due momenti era l’idea della democrazia
progressiva, vale a dire, la prospettiva di un permanente
allargamento degli spazi di democrazia economica, sociale e
politica, tali da consentire al mondo del lavoro di conquistare
posizioni di forza, in un processo di transizione democratica al
socialismo.
Questione nazionale
Bisognava rimuovere le radici economico sociali del fascismo, ossia
la natura monopolistica di un certo suo capitalismo, il
parassitismo oligarchico, causa congenita del sovversivismo
reazionario di parte significativa delle sue classi dirigenti. Per
raggiungere questo obiettivo, così come per quello propedeutico
della liberazione dell’occupazione nazifascista, era essenziale
trovare un’intesa unitaria con le altre forze popolari del Paese,
non solo i socialisti ma anche e soprattutto le masse cattoliche.
Al di là di miti e leggende sulla presunta “doppiezza
togliattiana”, nella scelta operata con la svolta di Salerno nel
1944, e in quelle successive, fino all’approvazione della
Costituzione repubblicana non c’era alcun “abile espediente
tattico”, si trattava di scelte strategiche conseguenti alla
ricerca di un’originale via italiana al socialismo, frutto delle
specificità storiche, culturali e sociali della concreta realtà
nazionale in cui i comunisti intendevano agire.
- SARDA NEWS -
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