Tonino Dessì
Nel 1975 mi iscrissi dall’Università, in Giurisprudenza, a
Cagliari. I primi due anni furono davvero intensi. Per la prima
volta vivevo in autonomia, con la modesta mesata proveniente dallo
stipendio di mio padre, impiegato statale, e qualche soldo ricavato
da occasionali lavoretti estivi. Unica responsabilità, rassicurare
i miei che stavo regolarmente dando gli esami.
A parte gli studi di diritto e di economia, che a uno studente
proveniente dal liceo classico, almeno agli inizi, apparivano
tecnici e ostici, oltre alle ordinarie (un po’ rituali) agitazioni
studentesche e alla frequentazione della Casa dello Studente (dove
stava una delle due mense universitarie e dove alloggiava la gran
parte dei miei amici barbaricini), la parte veramente nuova di
quella vita fu la frequentazione del PdUP per il comunismo, nella
storica sede del Manifesto, un tempo “Il Giardino d’Inverno”, nella
Via Manno.
Non era solo una sede di partito. Vi si riunivano collettivi
studenteschi, gruppi femministi, comitati promotori di iniziative
sociali e di quartiere.
Lo stesso custode, il vecchio compagno Nino Bruno, aveva
accompagnato Gramsci al convegno clandestino svoltosi a Mamarranca
(”prima di vederlo, pensavo fosse un gigante” - ci diceva)
e restava tenacemente iscritto al PCI a cui aveva aderito fin dal
Congresso di Livorno.
Quella piccola formazione politica che gestiva la sede era un
singolare e turbolento crogiuolo di provenienze: dagli ex PCI del
Manifesto (prevalentemente provenienti dalla nidiata allevata da
Luigi Pintor nella sezione Lenin, durante il suo esilio in Sardegna
seguito alla sconfitta ingraiana nell’XI congresso nazionale), ai
militanti dell’ex PSIUP sopravvissuti all’insuccesso elettorale del
1972 (che facevano capo a Vittorio Foa e a Silvano Miniati), ai
cattolici di sinistra provenienti dall’ex MPL (che facevano
riferimento a Giangiacomo Migone), cui in seguito si erano aggiunti
i seguaci (allora di formazione stalinista) di Mario Capanna e
quelli di Mario Mineo, zio di Corradino, infine quelli di Silverio
Corvisieri, Aurelio Campi, Vincenzo Vita, provenienti da
Avanguardia Operaia.
Politicamente un manicomio, destinato dopo una precaria
unificazione a un percorso di scissioni multiple.
Era però un ambiente ricco di persone interessantissime.
Molte le donne; militanza e pratica femminista agguerritissima: “Il
personale è politico” e prova a sgarrare, compagno maschio.
A me, che pure simpatizzai subito per quelli del Manifesto (mi
sembravano i meno ortodossi ideologicamente e, pur con qualche
pretesa aristocratica, i più ironici e dissacranti, ma anche i più
preparati nella concretezza della politica, anche perché
mantenevano in piedi, sia pur conflittualmente, il confronto con i
maggiori partiti della sinistra), attraeva tuttavia un’altra
componente generazionale e sociale.
Erano i non pochissimi operai di fabbrica, chimici degli impianti e
metalmeccanici impiegati nella realizzazione di quegli stessi
impianti e delle relative infrastrutture.
Erano assai più giovani della componente storica, pur presente,
costituita dagli impiegati e operai SIP ed Enel e dai portuali, che
rappresentavano il legame con la tradizione sindacale e operaia
cagliaritana, ma che spesso erano più ideologici e conservatori,
oltre che, eticamente, più bacchettoni che puritani.
Gli operai dei consigli erano moderni, istruiti e colti, formati
fuori Sardegna dalle aziende e dai sindacati di categoria,
conoscevano i processi produttivi e commerciali, discutevano di
politica economica e internazionale, ma soprattutto di vertenze e
di territorio, di diritti e di qualità della vita e della salute,
in fabbrica e fuori.
Era con loro che spesso si confrontavano in Via Manno professori
universitari, medici, avvocati e altri esperti di varie
professionalità, impegnati nel sostegno alle lotte operaie. Io ne
ero affascinato, anche perché spesso noi studenti andavamo con loro
a volantinare a Macchiareddu, davanti ai cancelli delle fabbriche e
vedevo da fuori impianti di complessità e dimensioni tali da
destare meraviglia.
Non si era in pochissimi e non si avvertiva l’essere socialmente e
politicamente minoranza. Eravamo, nel nostro immaginario,
avanguardie, esperti e rossi, radicali ma unitari.
Quell’idillio durò in realtà poco.
La seconda metà degli anni ‘70 fu sconvolta dalla crisi
industriale, dagli anni di piombo, dall’immiserimento della vita
politica e dalle scissioni anche in seno ai micropartiti, dalla
prima grave rottura intergenerazionale (la cacciata di Lama dalla
Sapienza), dalla fine dell’unità sindacale confederale.
Non fu senza conseguenze, tutto ciò, anche nel microcosmo cui avevo
appartenuto pensando che fosse il mio universo.
Per esempio finì un esperimento sindacale fantasioso.
Se nelle Camere del Lavoro si era tentato di costruire un rapporto
con i giovani creando le Leghe dei disoccupati, la FLM (che riuniva
politicamente FIOM, FIM e UILM) nelle aree urbane aveva esteso la
sua tessera unitaria anche agli studenti, per tenerli agganciati al
mondo della fabbrica (e mi vanto di aver avuto appunto in tasca,
come prima tessera, quella dei metalmeccanici sardi della FLM:
“Truncare sas cadenas”).
Finì quell’esperimento e in Sardegna, cominciando da Cagliari, finì
l’unità tra operai.
Le industrie chimiche entrarono in una crisi verticale, aprendo
un’agonia che sarebbe durata dolorosamente trent’anni. Di impianti
non se ne costruivano più e non se ne ampliavano. Perciò bisognava
liquidare i metalmeccanici.
Il conflitto fu deflagrante.
Nel 1978, mi pare, la FLM cagliaritana, guidata da Salvatore
Cubeddu, (FIM), allora del PdUP e da Franco Porcu (FIOM), del
PCI e da Angelo Rizzu (UILM) della Metallotecnica di P.
Vesme, simpatizzante PDUP, promosse un tentativo di occupazione
delle fabbriche a Macchiareddu.
Non fu la forza pubblica, a impedirlo.
Furono gli operai delle corrispondenti sigle chimiche, fino ad
allora compagni di lotta dei metalmeccanici, a chiudere e a
presidiare i cancelli, dove scoppiarono anche delle risse.
Le tre confederazioni chimiche riunite nella FULC e le tre sigle
metalmeccaniche riunite nella FLM avevano sede in un palazzo di via
Alghero, in due appartamenti dello stesso pianerottolo. Provate a
immaginarvi il clima. Infatti la convivenza condominiale cessò
subito dopo.
Non ricordo ora quante centinaia di operai metalmeccanici il
territorio di Cagliari dovette riassorbire negli anni a venire e
nella prima grande risacca antropologica che lo investì.
E quante più ancora centinaia, forse qualche migliaio, nel
successivo decennio, di chimici, perché poi ineluttabilmente toccò
a loro.
Fenomeno poco indagato, che è stato tuttavia la premessa di un
trentennio di sconfitte politiche e prima ancora sociali e
culturali e anticamera della malattia morale della sinistra sarda,
della quale la classe operaia cagliaritana aveva rappresentato, per
forse un decennio, la punta avanzata.
E quei giovani, che tanto avevo ammirato e invidiato, presero le
più disparate strade, passando dalla cassa integrazione al
licenziamento. Qualcuno riprese gli studi, altri si inventarono un
mestiere o un commercio, altri emigrarono, chi tornò al paese nella
campagna dei genitori, chi - molti - dovette per lungo tempo farsi
assistere da altri, un tempo giovani, che aveva conosciuto in via
Manno come appartenenti a Medicina Democratica o a Psichiatria
Democratica.
Nessuno tuttavia, che io ricordi, derivò nella nebulosa della lotta
armata di allora.
Ma nel 1976 io ancora non potevo prevedere tutto questo, mentre
partecipavo, in un pomeriggio di luglio, alla mia prima riunione
regionale del PdUP, dove ancora si discuteva come se fossimo sodali
e commilitoni dei grandi dirigenti del movimento rivoluzionario
mondiale e con loro interloquissimo quotidianamente e
personalmente.
Eravamo a Ovodda, nel Centro Sardegna, ospitati democraticamente in
un locale del Municipio.
Erano, i miei compagni più grandi, infervorati in una discussione
che implicava riferimenti alla Rivoluzione culturale cinese, i cui
eccessi erano stati duramente stigmatizzati dal compagno Francesco
C., docente di materie letterarie.
Successivamente intervenne il compagno Giovanni A. M., di Ovodda
(gestiva un distributore di carburanti alle porte del paese, dopo
avere organizzato memorabili lotte nei cantieri durante la
costruzione della diga del Taloro), con una veemente difesa
dell’esperienza cinese, al termine della quale interpellò
frontalmente C.: “Io non so cosa gli abbia fatto il compagno
Mao al compagno C., per avercela così tanto con lui”.
Vi assicuro che non scherzava e che nessuno (se non, nel
ripensarci, anni dopo) scoppiò in una risata. Erano (eravamo)
ancora candidamente fatti così.
Le travagliate vicende dei movimenti e dei partiti degli anni e dei
decenni successivi ci resero certo meno ingenuamente candidi, ma
non per questo meno appassionati e i semi di quella stagione
germogliarono in tante lotte e iniziative per meritevoli cause
democratiche sociali, civili, culturali.
Dopotutto siamo in molti ancora qui, nè ottimisti nè pessimisti, a
impegnarci in quello che ci sembra utile continuare a fare per
quelle cause.
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