Tonino Dessì
Una delle preoccupazioni più diffuse in queste settimane
riguarda la crisi acuta che la comparsa del Covid-19 avrebbe già
innescato nell’economia planetaria.
Non voglio banalizzare la questione. Forse anzi più questa
preoccupazione che preoccupazioni di altra natura sta determinando
un allarme e una reazione internazionale di livello elevato, con
l’adozione di misure la cui crescente radicalità altrimenti
potrebbe apparire oltre il livello della ragionevole proporzione
relativamente a un virus influenzale (si tengano sempre presenti
però i cinquanta e più milioni di morti causati dall’influenza
“spagnola” del 1919-1920 e il fatto che finora vaccino contro il
Covit-19 non ce n’è).
Tuttavia anche questo effetto economico e la conseguenza che ne
starebbe derivando sulle emissioni inquinanti in atmosfera (la
sospensione di attività produttive a causa del coronavirus pare
aver provocato un vero e proprio crollo delle emissioni in uno dei
paesi più inquinanti, ovvero la Cina, per un totale stimato di un
-6 per cento rispetto al periodo dello stesso anno e un calo di 100
milioni di tonnellate sempre rispetto all’anno precedente),
potrebbero costituire, quantomeno sul piano teorico e nella
dimensione culturale diffusa, un’opportunità di riflessione
evolutiva.
Circostanze come questa infatti consentono di misurare la
rinunciabilità e comunque la non indispensabilità di un modo di
produzione e di un sistema economico fondati sul deterioramento
complessivo dell’ambiente.
Per fare un esempio nemmeno troppo terra-terra, la Cina potrebbe
ridistribuire gli effetti di un temperamento degli obiettivi di
crescita economica illimitata rinunciando a un sensibile tot di
spese finora destinate a finanziare un’altrettanto illimitato
riarmo militare e investirle nel dotarsi di un sistema sanitario in
grazia di Dio, perché quello che ha non sta proprio dimostrando di
essere adeguato per un grande Paese “sviluppato” (per non parlare
dell’adeguatezza della sua organizzazione
politico-istituzionale).
A latere, ma con qualche intuibile connessione, un altro argomento
di riflessione ecologica.
Istintivamente, di fronte ai pericoli per la salute umana
determinati da certe forme biologiche, ci si domanda a quale
“finalità” rispondano la gran parte delle malattie, non solo umane:
in fondo poi quelle umane, comprese le zoonosi, non sono che forme
specifiche della più generale famiglia delle malattie animali.
Virus, batteri, micobatteri non hanno problemi di coscienza. Fanno
quel che debbono fare, cioè vivere e riprodursi.
Però in condizioni normali adempiono alla funzione ecologica di
controllo della qualità degli individui e delle popolazioni delle
diverse specie, eliminando gli individui più deboli e riducendo il
numero delle relative popolazioni quando non più sostenibile nelle
condizioni ambientali date (chi ha un po’ di conoscenze e di
esperienze o di reminiscenze agrozootecniche anche locali non
faticherà a ricordare la mixomatosi).
Ecco: in fondo anche questo virus è uno dei segnali, per ora
attenuati, della reazione ecosistemica a una condizione di
squilibrio del modo di essere dell’organizzazione della specie
umana.
La specie è troppo evoluta (e troppo numerosa), per esser
minacciata seriamente da questo virus, per quanti contagi e morti
possa provocare.
Troveremo il vaccino e nel frattempo agiremo con tutte le
contromisure per ridurre i danni al minimo.
Però sarebbe segno di progresso stavolta non far passare la vicenda
come se niente fosse stato.
Certi segnali del nostro specifico ecosistema umano dovrebbero
indurci a ulteriori riflessioni sulla qualità di questo stesso
ecosistema e sulle opportunità per riequilibrarla.
- SARDA NEWS -
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